Antropologia della Mobilità Individuale Metropolitana

(articolo pubblicato nelle Opinioni degli Opinionisti di Eddyburg nel 2017 ma come si intuisce sempre attuale)

foto F. Bottini

Panico tra i paladini del trasporto pubblico: dopo parecchi anni in cui la tendenza pareva invertirsi rispetto al periodo di abbuffata automobilistica, con un aumento deciso dell’utenza, si notano anche vistosi cali. Meno gente, a volte anche molta meno gente, che prende la metropolitana, l’autobus, il trenino suburbano, anche se resta aperta la domanda su come si spostano, adesso, tutte quelle persone. Forse sta qui il vero nodo: sia nel capire come vanno da un posto all’altro questi ex utenti del trasporto collettivo, sia soprattutto quando, perché, e con che obiettivi personali si muovono, generalmente parlando. Anche perché, restando a tristi temi nazionali e macroregionali delle nostre parti, ogni volta che le popolazioni dei sistemi metropolitani sono assediate da schifezze inquinanti, inizia il carnevale delle quantificazioni e dei rimpalli «politici».

Sul versante diciamo così di sinistra il mantra è sempre: basta con le politiche autostradali, investiamo di più sul mezzo pubblico, solo così riusciremo ad abbattere gli inquinanti micidiali per la salute dei cittadini. Sul versante della destra liberale, dopo adeguato spezzettamento in una mezza dozzina di parti delle fonti inquinanti (comprese le pizzerie forno a legna, in qualche articolo comparso sulla stampa locale, magari solo per tirare poi in ballo kebab e simili), si finisce per puntare sulla classica efficienza, lo sviluppo, le esigenze della logistica … insomma per aspettare che qualche folata di vento disperda i veleni fino alla prossima emergenza.

Si tratta, in entrambi i casi, di posizioni comunque ideologiche, ovvero che non tengono conto di quella domanda di fondo posta dai rilevatori di contraddittorie tendenze trasportistiche: dove va la gente, perché ci va, e come ci va? Almeno due delle risposte verificate sul campo, paiono di notevole interesse come indicatori di tendenza: una quota importante di «ex poveri» che accede per vari canali al possesso e uso del veicolo privato, e abbandona il trasporto pubblico; un’altra quota di utenti che continua ad essere tale ma esclusivamente per i movimenti pendolari classici casa-lavoro casa-studio, passando ad altre modalità per quelli del tempo libero, del consumo, dei viaggi occasionali. E qui, primo salto deduttivo, vale la pena aggiungere subito una questione collaterale: come si sta evolvendo, questo equilibrio tra due motivi-metodi di spostamento, alla luce dei cambiamenti nel mercato del lavoro, nell’organizzazione delle imprese, delle innovazioni tecnologiche? Un segnale importante potrebbe arrivarci, molto empirico, dal visibile crollo dell’ora di punta in corrispondenza della chiusura estiva delle scuole, unica vera attività «fordista» residua di tante aree metropolitane uscite dal ciclo dello sviluppo industriale tradizionale. Ma andiamo oltre.

Anche immaginando che tutti gli immigrati, minoranze, poveri, insomma coloro che erano prima obbligati a spostarsi solo col mezzo pubblico per motivi di reddito, siano passai in blocco a quello privato (qualcuno sostiene come status symbol di residenza suburbana, altri dicono per nuova coercizione da forme dell’insediamento). Anche immaginando che invece tutti gli altri, utenti del trasporto non collettivo per funzioni non lavorative, abbiano realizzato il sogno degli appassionati di ciclismo, saltando improbabilmente in sella paludati in braghette fosforescenti d’ordinanza, qualcosa accomuna certamente i due gruppi nell’indicare comunque tendenze comuni, ineludibili. Che si possono riassumere nell’aspirazione a «personalizzare la mobilità», anche collateralmente all’innegabile generale atomizzazione delle altre esperienze abitative, di fruitori di servizi, di persone che per un motivo o l’altro si trovano a cambiare spesso percorsi, orari, ritmi e tipi di lavoro.

Pare davvero singolare, ad esempio, a fronte di certi imponenti flussi di lavoratori della manutenzione e refurbishment edilizio, o della distribuzione e logistica, dentro e fuori le aree metropolitane, che se ne ignori l’importanza sia per la rete dei trasporti che per l’economia più in generale. Prendiamo l’esempio ormai classico e ciclico, dove vistosamente si sovrappongono diversi strati, distinti quanto inscindibili, della medesima questione: uno dei tanti eventi stagionale di cui si alimenta direttamente e indirettamente l’economia regionale urbana, i disagi degli altrettanto ciclici cantieri di trasformazione e riqualificazione, i sinusoidali tagli e allungamenti dei tempi di attesa dei mezzi pubblici per variegati motivi, le emergenze sanitarie di scala megalopolitana, di cui innegabilmente la mobilità privata su gomma costituisce una fetta essenziale.

Perché mai non si pone, almeno in questi casi di vera emergenza socioeconomica, abitativa, sanitaria e di efficienza, la questione in modo integrato? Perché si continua da un lato la litania a favore del trasporto pubblico (evidentemente di per sé inadeguato a rispondere a queste nuove economie, non parliamo poi della scala insediativa di regione urbana a media densità), e dall’altro il modello automobilistico novecentesco chiaramente fallimentare? Ultimo ma non certo in ordine di importanza, e concludendo: perché non si prova seriamente a coordinare, e all’interno di competenze uniche, norme uniche, documenti unici, la questione spaziale e quella dei flussi, almeno dei flussi materiali, rifugiandosi al momento dentro quell’iper-uranio denominato smart city? Se qualcuno ha una risposta, ci faccia sapere.

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