La questione vitale dello sprawl

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Foto J. B. Gatherer

Ci sono cose così ovvie da non essere assolutamente prese in considerazione, cioè comportarsi come se non esistessero. La superficie terrestre, per esempio, quella che qualcuno chiama «porco mondo che ho sotto i piedi», e se sotto i piedi non l’avesse naturalmente precipiterebbe nel vuoto, sia in senso letterale che in senso lato. Ma oltre queste considerazioni, appunto ovvie e banali al punto da suonare come una specie di battuta un po’ di cattivo gusto, c’è la verità condivisa secondo cui al pari dell’aria, dell’acqua, o magari del più interessante (per chi vede solo il portafoglio) petrolio, il suolo è una risorsa finita. Suolo, non solo superficie terrestre, ovvero ciò su cui crescono le cose che mangiamo, e sotto cui affondano le loro radici, si purifica l’acqua, e succedono tante altre cose senza le quali saremmo tutti morti in poco tempo. Morti e neppure sepolti, se il suolo dove seppellirci sarà esaurito, tanto per fare un’altra battuta di cattivo gusto. E qui entra in campo uno di quei discorsi assai poco apprezzati dagli ambientalisti soggettivi, quelli che in genere amano così tanto l’ambiente da sdraiarsi là sopra, producendo il famoso sprawl che dicono di detestare, ma negandolo perché la loro non è mai «cementificazione». Quella, la fanno sempre gli altri, i cattivi. Ma ci sono certamente criteri abbastanza oggettivi per lasciare questi signori almeno isolati nel negare l’evidenza, ed il primo è determinare un bacino regionale di riferimento, il secondo fissare gli obiettivi. Ovvero cosa si può e si deve fare di quel suolo-risorsa non consumato, in termini alimentari e in generale di cosiddetti servizi all’ecosistema, così come di mantenimento o recupero di biodiversità, tutela della flora e della fauna, e via dicendo. Aggiunge valore, alla determinazione del bacino, anche la corrispondenza a una circoscrizione di governo in grado di emanare e attuare politiche territoriali coerenti a questi obiettivi, perché altrimenti si rischia di restare nelle pie intenzioni, magari gonfiate sino all’utopia, elegante quanto testimoniale.

Contenetevi

La crescita, da qualche parte messa in discussione «filosoficamente» in certi suoi aspetti assai discutibili e diciamo così perversi, in un modo o nell’altro è comunque fatto inevitabile, dato che in qualunque auspicabile situazione sociale e politica crescono le aspettative. Dato che in genere crescono anche popolazione e consumi, per contenere quello di risorse non rinnovabili parleremo di qualche tipo di governo della crescita. Nel caso di trasformazioni a carattere urbano, questo governo della crescita si traduce in scelte spaziali tali da arginare il cosiddetto consumo di suolo, o artificializzazione di superficie, attraverso una localizzazione degli interventi detta densificazione. Parola fraintesa anche perché molto spesso interpretata in modo restrittivo e parziale, ma che assume il proprio senso autentico considerata dentro quel bacino regionale ampio di riferimento che abbiamo descritto sopra: grande regione orbana o megalopoli, o addirittura entità statale. Cosa ben diversa da quegli interventi di quartiere chiamati così, e che in modo banale aumentano i piani degli edifici o colmano alcuni interstizi non edificati ma di fatto già del tutto urbani. Se in questo grande bacino vengono elevate le densità, si lasciano superfici sufficienti e tutelate per la coltivazione agricola, la biodiversità, i servizi dell’ecosistema, la tutela della natura della flora della fauna e del paesaggio. A questa scala, per chi ancora diffidasse di questo tipo di politiche, continuano ad essere possibili tutte le forme di insediamento umano, ivi comprese le tipologie semirurali o i quartieri di abitazioni unifamiliari, pur in una logica pianificata e con massima attenzione alla effettiva sostenibilità.

Cosa resta, fuori da casa

Una premessa indispensabile a qualunque ipotesi di «localizzazione ottimale delle trasformazioni urbane», intese come insediamenti umani e infrastrutture, è che a qualunque altro obiettivo si unisce naturalmente e preventivamente la sicurezza, il benessere collettivo, ad esempio nella prevenzione di calamità naturali, dissesto, eventi traumatici. Fine dell’inciso, ma pareva doveroso ricordarlo (ad esempio un territorio non edificato andrà benissimo per tutti quegli scopi agricoli che non richiedono edifici, anche se si trova in una zona propensa ad allagamenti, o a rischio sismico ecc). E poi per tutte queste superfici di suolo «salvate» da una casuale, inutile, dilagante urbanizzazione impropria, ci sono destinazioni altrettanto programmabili, di conservazione o ripristino della biodiversità, di produzioni agricole soprattutto destinate alla vita fisica ed economica del medesimo bacino territoriale, a un’idea di infrastrutturazione naturale che supera negli scopi e respiro anche quella già quasi utopica di scala metropolitana, con delle greenways diventate sistemi geografici per la riproduzione della flora e della fauna. E tutto, solo, con quel pianificato «incremento delle densità lorde», che su questa dimensione non ha davvero nulla a che vedere con quanto temuto da alcuni. Certo, là dove anche società locale e mercato prediligono la forma urbana classica consolidata, la soluzione più semplice e immediata è quella di proseguire migliorando il genere di trasformazioni prevalenti, coi quartieri a funzioni miste, il risparmio di reti ecologiche a servizio dell’ecosistema e della popolazione (parchi, orti, mobilità dolce integrata), ovvero in pratica agendo davvero su un incremento tendenziale circoscritto delle altezze e della popolazione teorica per ettaro. A questo si aggiungono oggi anche innovazioni tecnologiche e organizzative a cui spesso non si pensa affatto come salvaspazio. Basti fare i due esempi delle colture in serra sovrapposte o vertical farm, e delle forme varie di condivisione dei veicoli a motore o car sharing. Nel primo caso, i fortissimi incrementi di produttività per unità di superficie (si parla ragionevolmente di mote decine di volte) consentono di liberare terreni locali e non dal carico dell’attuale agricoltura industrializzata, e magari convertire a parchi o colture biologiche per il consumo locale. Nel secondo, è noto che un utilizzo a tempo pieno dei veicoli, anziché per circa il 5% del totale come accade oggi, rende disponibili immense superfici impermeabilizzate a parcheggio o carreggiata, da trasformarsi vuoi in aree edificate, vuoi restituire a parco o agricoltura urbana, se i costi economici lo consentono. Per un quadro generale di un programma del genere, concepito in linea di massima a scala statale si veda il rapporto allegato, su un arco di tempo di qualche generazione.

Riferimenti:
1000 Friends of Florida, Florida 2070 – Alternative patterns of development, rapporto autunno 2016

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