Megalopoli e biodiversità

cultivated field

Foto J. B. Hunter

Che rapporto esiste tra una più attenta tutela delle superfici coltivabili da una inopinata espansione urbana, e il fatto che un punto vendita centrale di una catena di distribuzione inizi a tenere aperto il piccolo supermercato tutta notte? Ovvero cosa lega due cose che pare c’entrino meno dei cavoli a merenda? Invece c’entrano, c’entrano, almeno in linea teorica. A modo suo, il supermercatino centrale dà un contributo al contenimento dell’espansione urbana che consuma territorio: non solo appunto sta in centro anziché andare a cancellare un ex campo di granturco o pascolo sull’orizzonte di uno svincolo, ma soprattutto restando aperto sull’arco di tutta la giornata sfrutta al massimo lo spazio che occupa. Dovremmo sempre ragionare in questo modo sistemico nelle cose urbane. Come con le automobili, che restano ferme 23 ore su 24 occupando spazio e consumando risorse, mentre fra l’altro ci sono lontane piazzole a parcheggio che le aspettano inutilmente, anche queste piazzole a occupare suolo. Come con gli uffici (escludiamo le case private ovviamente) che stanno lì insieme ai parcheggi a far nulla mentre gli impiegati e i manager dormono il sonno del giusto o corrono nel parco …

La densificazione, spaziale e temporale, è una delle soluzioni più immediate che vengono in mente a chi riflette sull’enorme problema del pianeta ricoperto di città, perché questo sta succedendo da un paio di generazioni. Problema planetario, e non più locale, metropolitano, al massimo regionale: tutta la terra subisce la pressione degli insediamenti umani concentrati e in continua ulteriore crescita. I giornali internazionali tempo fa accennavano a un fenomeno apparentemente folkloristico, del cosiddetto leone suburbano, dove il grande predatore della savana iniziava a adattarsi come un procione o una volpe qualunque a un ambiente di case e strade. La punta di un iceberg per nulla divertente (a parte la pericolosità del nuovo inquilino per sé e per gli altri), e che poneva in primo piano il tema della scomparsa di interi habitat a causa dello sprawl.

Una ricerca pubblicata negli Atti della Società Americana per il Progresso delle Scienze, sulla base di criteri probabilistici, di reddito, di tendenze storiche e rilevazioni varie, calcolava che nel 2030, la copertura con funzioni e infrastrutture urbane del territorio avrà un incremento di 1,2 milioni di chilometri quadrati, TRIPLICANDO complessivamente quella di dieci anni fa e cancellando habitat, biodiversità, specie vegetali e animali, compresi mammiferi. Questa decisamente mostruosa previsione precisa che l’onda anomala delle costruzioni si infrangerà di preferenza in alcuni punti sinora rimasti intatti (certe regioni africane e asiatiche) con conseguenze da brivido.

È soprattutto in alcune fasce del pianeta che le carte evidenziano una specie di ecatombe: i grandi laghi africani, una specie di tentacolare megalopoli lineare del Nilo, gli affacci di costa del Medio Oriente, e dulcis in fundo l’intera sponda oceanica cinese, trasformata dalle chiazze rosse della «elevata probabilità di urbanizzazione» in qualcosa che farà impallidire l’antica Bos-Wash di Gottmann, o le formazioni a grappolo europee su cui si esercitano gli esperti di geografia dell’innovazione e dello sviluppo. Agli impatti diretti, già micidiali, di queste formazioni insediative, si devono poi aggiungere quelli determinati dalle emissioni, sia per attività umane che per stravolgimento dell’ecosistema, e il piatto è servito. Di fronte a questa prospettiva, del tutto realistica se si continua coi criteri attuali di crescita socioeconomica e tecnologie, ovviamente appaiono ridicole sia le soluzioni meccaniche e parziali come quella della densificazione urbana (tutto compreso: dai modelli di suburban retrofitting alle politiche settoriali come quelle sul contenimento dei consumi di suolo agricolo), sia certe utopie regressive centrate attorno a un indecifrabile abbandono del «modello attuale» verso un ancora più indecifrabile «nuovo paradigma», le cui uniche tracce paiono risalire a una mitica età dei padri.

Il problema è l’impatto regionale e planetario sugli habitat, e poi le emissioni da deforestazione, o quelle indirette da trasporto di materie prime, industriali o agricole. E la conclusione sul «nuovo modello» evoca coerentemente un atteggiamento culturale profondamente diverso da quello attuale meccanico che vede la terra e le sue risorse con un approccio proprietario e di sfruttamento. La chiave è quanto a metà del ‘900 l’ecologista statunitense Aldo Leopold definiva land ethics:
«L’etica della terra allarga semplicemente i confini della comunità per includervi suolo, acque, piante e animali o, in una parola sola, la terra.[…] Un’etica della terra non può certo impedire la modifica, la gestione e l’uso di queste risorse, ma afferma il diritto che esse continuino a esistere e, almeno in certi luoghi particolari, possano conservare il loro stato naturale. Un’etica della terra modifica il ruolo dell’ Homo sapiens da conquistatore della terra a semplice membro e cittadino della sua comunità, in quanto tale.».

Naturalmente da questi principi di massima occorre poi elaborare prima un’idea concreta di assetti territoriali, locali e non, e poi le specifiche tecniche e obiettivi socioeconomici coerenti. Certamente, almeno in parte, entrano in questa equazione alcune novità del dibattito urbanistico, ambientale, tecnologico degli ultimi anni: per diminuire emissioni e inquinamenti, per arginare impermeabilizzazione e artificializzazione di territori, per fondere cooperativamente natura e artificio, magari evitando che i leoni vaghino nei giardini delle case rincorrendo le galline e l’occasionale bambino distratto … E perché no, anche l’intensificazione del fattore tempo può giocare un proprio ruolo, dai modelli di sharing allargato, coinvolgendo mezzi di trasporto e altro, a cose come i supermercati aperti 24 ore su 24 in città. Quindi ci ripensino (sacre rivendicazioni sindacali a parte) anche gli oppositori al lavoro notturno, che magari lo fanno in nome di una presunta «naturalità» dei ritmi. È invece proprio saper distinguere cosa è urbano e cosa non lo è, e graduare e distribuire gli elementi, la vera chiave della nostra sopravvivenza.

Riferimenti:
Global forecasts of urban expansion to 2030 and direct impacts on biodiversity and carbon pools
, PNAS, settembre 2012
Aldo Leopold, Land Ethics, 1949

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