Trasporti urbani: customizzazione o privatizzazione?

Foto M. B. Style

A volte si resta piuttosto sconsolati quando alla fine di lunghe e complesse vertenze territoriali, qualche sindacalista o addirittura politico progressista annuncia entusiasta come si sia «salvata l’occupazione» diretta e nell’indotto, di un intero distretto produttivo, sostituendo al vecchio operatore (o prodotto) un altro che però appare vecchissimo. Cosa piuttosto evidente ad esempio con le linee automobilistiche, i modelli sportivi, di cosiddetta fascia alta ma tecnologicamente molto tradizionali se non arretrati. Perché è già abbastanza facile immaginare che in cambio del classico ridimensionamento di diritti, regole ambientali, consumo di suolo e via dicendo (che quasi sempre accompagnano queste conclusioni di vertenze) il sollievo avrà brevissimo respiro. Le grandi case automobilistiche, nessuna esclusa, hanno già da tempo iniziato il complesso passaggio che si riassume brevemente nel concetto di demotorizzazione, che significa da un lato vera e propria dismissione (non necessariamente legata alla vecchia delocalizzazione), dall’altro reinvestimenti indirizzati «al contrario» verso il trasporto collettivo. In pratica, e solo dal punto di vista di questi investimenti naturalmente, stiamo assistendo a un percorso inverso rispetto a quello avvenuto più o meno sull’arco della prima metà del ‘900, quando via via grandi masse di capitali privati avevano spostato l’interesse dalla relativa centralità del trasporto collettivo su rotaia (ed economie correlate) all’universo automobilistico e rutilanti consumi individuali-familiari.

Altro che sharing economy

Da anni ormai si susseguono interviste, saggi, analisi di caso, in cui la vaga idea di demotorizzazione smette di galleggiare nell’iper-uranio nuovista della categoria dello spirito vagamente ecologica e sociale si traduce in realtà tangibile. Ovvero nelle forme e ideologie correlate a questo spostamento di capitali e ricerche, che in principio in sostanza si delineavano come pura innovazione tecnologica, ad esempio sul fronte della propulsione elettrica attraverso la fase intermedia ibrida, e poi nel portato organizzativo dell’emergente fenomeno del car sharing. Dove in sostanza le case automobilistiche transustanziavano da entità produttrici di macchine da immettere sul mercato, a entità erogatrici di servizi integrati di trasporto, pur sempre focalizzati su quel prodotto base, raffinato qualitativamente, ridotto quantitativamente a favore di altri valori aggiunti, in prospettiva forse assai più lucrosi. Ma (come del resto avvenuto nel ‘900 con la suburbanizzazione e l’economia dei consumi) forse questa immagine di futuro non aveva fatto i conti con la complessità del reale, ad esempio con l’altra ideologia pervasiva, della «sharing economy di mercato», dove tutto alla faccia dei nostalgici della logica sociale del baratto e della solidarietà, diventa merce, si scambia per denaro, e tutti quanti agiamo da imprenditori, essendo in realtà consumatori dipendenti. In questa prospettiva, a smaterializzarsi sono prodotti e servizi che invece diventano sempre più invadenti, in parte ingovernabili perché business is business, e soprattutto si perde la cognizione delle barriere tra pubblico, privato, individuale e collettivo.

Il territorio virtuale «smart» e fintamente condiviso

Così si spiega il ritorno degli investimenti privati nel trasporto pubblico: perché in prospettiva la smetta di esserlo, pubblico, inserito invece dentro quella rete (a volte la si chiama smart city) di mobilità integrata, dove l’unica continuità è quella finanziaria-monetaria, ma cambiano anche vorticosamente le modalità di movimento, anche quelle di stasi. Si scende da un treno, si sale su una metropolitana o ferrovia suburbana, o autobus locale, e per l’ultimo miglio ci sono le auto del car sharing (magari in futuro automatizzate e pronte ad aspettarti come un taxi) o le biciclette free floating per tratti più brevi e tempo permettendo. Per arrivare alla destinazione, ancora «condivisa», di una di quelle emergenti forme di accoglienza post-alberghiera pure regolate da una smaterializzatissima app, il cui investitore ha anche una partecipazione di maggioranza al servizio di ristorazione a domicilio che ci fornirà i pasti durante la breve o lunga permanenza. Come si vede, lo schema di consumo non è diversissimo dall’integrazione privatistica del territorio-società suburbana e automobilistica, soltanto che cambia il sottofondo sociale, dalla proprietà alla cosiddetta «condivisione». Quello che si delinea però è un vero e proprio «esproprio pubblico», se le istituzioni non intervengono in qualche misura vuoi per conservare la proprietà e/o il controllo delle reti e dei nodi. A sentire il racconto elegiaco allegato, della responsabile «General Motors Sharing», e aggiungerci il «decalogo di autoregolamentazione» degli operatori privati, non c’è affatto da stare allegri, soprattutto a fronte di una politica che appare irresponsabile, e sostanzialmente inconsapevole di ciò che sta accadendo, se non vagamente complice.

Riferimenti:
– Julia Steyn, The future of urban mobility depends on the sharing economy, The Globe and Mail, 13 febbraio 2018
Car, ride and bike sharing giants sign up to Shared Mobility Principles – and one shares social impacts, Transport Xtra, 12 febbraio 2018

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