Un morbo incurabile: il raffreddore

Lambrate, foto F. Bottini

Il normale raffreddore ha la duplice qualità di essere sia l’infezione più diffusa al mondo sia la più elusiva. Tanto per cominciare il primo problema sta nel nome. In qualunque lingua indo-europea già il nome è legato alla bassa temperatura, ma decenni di sperimentazione dimostrano come la probabilità di prendersi un raffreddore, o i sintomi più o meno gravi, nulla abbiano a che vedere col freddo. C’è puoi quell’altra storia del «raffreddore comune» che ci dice di un solo patogeno, mentre in realtà i virus legati a quella malattia sono più di duecento, ciascuno con proprie strategie chimiche o genetiche per aggirare le difese dell’organismo. Difficile pensare ad un’altra malattia in grado di provocare tanta collettiva rassegnazione. Il raffreddore comune colpisce case e scuole, città e campagne, rovinando senza alcuno scrupolo l’esistenza della gente per qualche giorno. Un adulto ne soffre in media due-quattro volte l’anno, un bambino fino a dieci volte: abbiamo finito per considerarlo un aspetto inevitabile dell’esistenza.

Ciò che ne sappiamo a proposito, mescola abbastanza confusamente un po’ di folklore e false convinzioni. Nel 1984, un gruppo di ricercatori dell’Università del Wisconsin a Madison aveva deciso di indagare uno dei più noti percorsi del contagio. Infettando del volontari con un virus del raffreddore e chiedendo loro di baciare sulla bocca per almeno un minuto dei soggetti sani (le istruzioni ai partecipanti specificavano di usare la tecnica che veniva «più naturale»). I volontari sani baciati da altri col raffreddore erano sedici: solo uno confermò di essere stato contagiato. Anche le più diffuse conoscenze su come gestire la malattia si sono rivelate false. E questi dubbi sull’efficacia sono il miglior deterrente per cercare soluzioni. Il Papiro Ebers, documento medico dell’antico Egitto che risale al 1550 a.C., invita il malato a recitare un formula magica «insieme all’assunzione di latte da femmina gravida di un maschio ed essenza di eucalipto». Nel 1924, il Presidente USA Calvin Coolidge si cgiudeva in un piccolo ambiente saturo di cloro e inalava quel gas pungente per quasi un’ora, come consigliato dal medico, sicuro che rapidamente la malattia sarebbe passata (in realtà non passava).

Oggi il mercato dei «rimedi invernali» nel Regno Unito vale trecento milioni di sterline l’anno, nonostante la gran parte di quei prodotti da banco sia di efficacia a dir poco dubbia. In alcuni casi contengono paracetamolo, analgesico efficace, ma in dosaggio quasi sempre inadeguato. Neppure assumere Vitamina C regolarmente tiene lontano il malessere. Inefficaci bevande calde alcoliche, cerotti medicamentosi, stimolatori vari del sistema immunitario allo zenzero o piante aromatiche.. Per il raffreddore gli antibiotici non servono a nulla. L’unico sistema garantito di evitare il raffreddore pare sia quello di vivere in totale isolamento dal resto del genere umano. Nonostante la pratica medica sia cambiata con le moderne scoperte scientifiche in ogni campo, resta la mancata produzione di qualsiasi rimedio davvero nuovo per i raffreddori. La difficoltà principale è che nonostante appaiano praticamente tutti uguali, quei raffreddori da un punto di vista biologico i virus che li provocano hanno solo in comune la capacità di adattarsi ad entrare nelle cellule che costituiscono le vie respiratorie. Da tutte le altre prospettive appartengono invece a diverse categorie, ciascuna con metodi di infezione differenti. E ciò rende estremamente complicato escogitare un rimedio buono per tutti i casi.

Oggi gli studiosi identificano sette famiglie di virus responsabili della maggior parte dei raffreddori: rinovirus, coronavirus, influenza e para-influenza, adenovirus, RSV virus respiratorio sinciziale, e il metapneumovirus, individuato per la prima volta nel 2001. Ciascuna famiglia si ramifica in sub-virus, o serotipi, che complessivamente arrivano a duecento. Il rinovirus, il patogeno più piccolo del raffreddore, è di gran lunga il più diffuso e copre i tre quarti delle infezioni tra gli adulti. Per contrastare il malanno dobbiamo affrontare a qualche punto tutte queste diverse famiglie, ma certamente l’avversario numero uno è per adesso il rinovirus. La scienza ha provato ad elaborare un vaccino efficace negli anni ’50. Usando un metodo affidabile, quello di cui era stato pioniere il biologo francese Louis Pasteur a fine ‘800, in cui vengono introdotte in un ospite piccole quantità di virus per provocare una reazione difensiva immunitaria dell’organismo in grado di proteggerlo da infezioni successive. Ma anche i vaccinati poi si prendevano un raffreddore con la medesima facilità di chi vaccinato non lo era.

Nel decennio successivo, mentre si raffinavano le tecniche di isolamento dei vari diversi tipi di virus, apparve chiaro che ne esistevano molti più di quanto non si pensasse. E i ricercatori si convinsero che non fosse possibile trovare un vaccino seguendo i metodi tradizionali. Non sarebbe stato pratico neppure elaborare tanti diversi vaccini quanti erano i virus da contrastare. E cresceva l’idea che era impossibile trovare un rimedio. L’ultimo esperimento clinico su pazienti umani ebbe luogo nel 1975.

Fino al gennaio del 2016, quando un editoriale sulla Expert Review of Vaccines riproponeva il tema. L’articolo era firmato da un gruppo di specialisti di rango mondiale di patologie respiratorie dell’Imperial College London. In termini molto prudenti, affermava comunque che «Forse abbiamo liquidato troppo in fretta considerandola troppo difficile o impossibile la ricerca per un vaccino del rinovirus […] ma nuovi sviluppi indicano la fattibilità di un tipo di protezione a spettro abbastanza ampio». Gli scienziati affermavano di essere sul punto di risolvere il rebus che aveva sfidato i virologi per decenni. Uno studioso mi spiegava che era come si fosse riaperta una porta lasciata chiusa troppi anni. Una delle ragioni di ciò è che, avendo ormai a disposizione vaccini per tante malattie pericolose (morbillo, poliomielite, febbre gialla, colera, influenza, e così via), fosse venuto il tempo di affrontare anche una malattia che affligge tutti tanto spesso. «È il rinovirus quello che causa più comunemente l’infezione» spiega Sebastian Johnston, professore dell’Imperial tra gli autori dell’editoriale. «Guardate quanto spende la gente in prodotti da banco del tutto inefficaci. Se solo ci fosse una soluzione davvero pratica a disposizione».

Ho chiesto a Johnston se era ottimista. Ha osservato che le ricerche sono state fatte esclusivamente sui topolini da laboratorio, quindi non è certo che il vaccino funzioni sugli esseri umani. «Dati parziali, ma certamente incoraggianti». Non il trionfalismo che potevo aspettarmi, ma certo gli scienziati hanno imparato col tempo a ragionare a freddo, ad essere prudenti con le grandi proclamazioni. Il loro lavoro è storicamente immerso in tante sconfitte e delusioni. Il primo ad aver tentato e fallito la produzione di un vaccino al rinovirus, è anche lo studioso che l’aveva finalmente isolato tra la miriade degli altri patogeni del raffreddore. Nel 1953, l’epidemiologo Winston Price lavorava alla Johns Hopkins University di Baltimora, quando un piccolo gruppo di infermiere del suo dipartimento si prese una febbriciattola, tosse, mal di gola, nasi colanti: tutti sintomi che facevano pensare all’influenza. Price prelevò dei campioni dal naso delle infermiere e li mise in coltura. Il risultato fu che non si trattava affatto del virus dell’influenza, era troppo piccolo. In un articolo del 1957, dal titolo The isolation of a new virus associated with respiratory clinical disease in humans, Price chiamava la sua scoperta «Virus JH», dalle iniziali del suo datore di lavoro Johns Hopkins.

Più tardi Price decide di sviluppare un vaccino usando un po’ di rinovirus morto. Quando il sistema immunitario lo individua – anche se è morto o fortemente indebolito – si attiva ad espellerlo. Una delle difese è la produzione di anticorpi, proteine che circolano nel sangue a lungo anche dopo che il virus se ne è andato. Quando quel virus viene individuato la seconda volta gli anticorpi lo riconoscono molto più rapidamente e danno l’allarme al sistema. In un primo tempo Price era convinto di poterci riuscire. In un esperimento che coinvolse molte centinaia di persone, i vaccinati vaccinati al Virus JH risultavano soffrire otto volte meno il raffreddore degli altri. Tutta la stampa americana iniziò a domandarsi: abbiamo trovato la cura del comune raffreddore? «Il mio telefono sul comodino suona anche alle tre di notte» raccontava Price intervistato dal New York Times nel novembre 1957. Ma fu una festa di breve durata. Quel vaccino sperimentato da Price, efficace sulla specifica variante «JH» del rinovirus, non lo fu allo stesso modo in sperimentazioni successive. Ce ne erano tanti altri tipi e varianti, da isolare e affrontare.

Se ne scoprirono decine diversi nella seconda metà degli anni ’60. Anche nell’intrico complicato delle malattie respiratorie era davvero inusuale tanta varietà, quando per esempio di influenza esistono due o tre per volta. Gli studiosi dell’Università della Virginia decisero di tentare una tattica diversa: invece di inoculare i pazienti di un solo rinovirus se ne combinavano dieci diversi in una sola iniezione. Ma anche così niente da fare, e fine dei tentativi. Nessuna speranza nei vaccini ma inizio di ricerche su altri modi per combattere il raffreddore. Dal 1946 fino alla chiusura nel 1990, nel Regno Unito le ricerche sui virus respiratori avvenivano nell’ambito della Common Cold Unit (CCU), branca del Medical Research Council con sede in un ex ospedale militare nelle campagne di Salisbury. Nei suoi quasi quarant’anni di esistenza sono stati ventimila i volontari a varcare quelle porte, per farsi infettare di raffreddore nel nome del progresso scientifico.

Uno dei primi esperimenti del CCU consisteva nel far fare un bagno a un gruppo di volontari, lasciandoli poi sgocciolanti e tremanti in corridoio per mezz’ora. Dopo averli autorizzati a rivestirsi, gli si chiedeva di indossare calzini fradici per parecchie ore. Nonostante un rilevato abbassamento della temperatura corporea, il gruppo non pareva più soggetto al raffreddore della media di altri volontari che erano stati lasciati asciutti. Alle cure del malanno si cominciò a dedicarsi in particolare tra gli anni ’60 e ’70, in relazione alle ricerche su una sostanza prodotta dall’organismo detta interferone. Proteine secrete dalle cellule quando vengono attaccate dal virus. Che agiscono come messaggere allertando le cellule vicine dell’invasione, cellule che a loro volta producono una proteina antivirale a inibire, e comunque interferire con (da qui il nome) la capacità del virus di diffondersi.

Nel 1972, i ricercatori CCU decisero di indagare sulle possibilità di uso dell’interferone per la cura o prevenzione del raffreddore. Vennero infettati col rinovirus trentadue volontari, spruzzando poi nel naso di alcuni interferone di altri un placebo. Tra i 16 del placebo, 13 si presero un raffreddore. Tra gli altri 16 dell’interferone solo 3. L’esperimento, esposto su The Lancet, si guadagnò la prima pagina del New York Times (appena sotto un titolo sullo scandalo Watergate). Innescando una vera ondata di ricerche sulle possibilità dell’interferone. Ma ancora una volta l’entusiasmo si rivelò troppo affrettato. Una rivisitazione dell’esperimento del CCU negli anni ’80 doveva rivelare il punto chiave fatale: l’interferone funzionava, ma solo se somministrato al paziente in contemporanea al virus. Mentre nella vita reale fuori dai laboratori scientifici un rinovirus dal naso ci entra tra le otto e le quarantotto ore prima che si manifestino i sintomi del raffreddore: quando si capisce di aver preso il raffreddore è troppo tardi.

Verso il finire del XX secolo, i tentativi di trovare una cura parevano senza speranza. Al CCU, si studiarono le molecole della medicina tradizionale cinese o del tè e agrumi giapponesi. Nel 1990 il CCU chiudeva. Si era fatto parecchio per capire meglio la virologia del raffreddore, ma si era anche capito quanto fosse enorme il compito di trovare una cura. In quell’ultimo decennio del secolo poi la virologia pensava soprattutto allo HIV e all’Aids, e molto meno al raffreddore. «Le normali infezioni respiratorie apparivano poco importanti rispetto alla minaccia di una specie di piaga letale globale» ricorda David Tyrrell, ex direttore CCU, nel suo libro del 2002, Cold Wars. La cura del raffreddore pareva allontanarsi sempre più.

Il laboratorio di Sebastian Johnston sta al terzo piano della Scuola di Medicina, al campus dell’Ospedale St Mary dell’Imperial College a Paddington, nell’ovest londinese. Realizzato nel 1851, l’edificio originale dell’ospedale è in mattoni rossi, soffitti alti, archi, colonne, torrette, e oggi circondato da varie ali di espansione più recenti e simili a scatole. Una lucida targa blu sulla facciata ricorda al visitatore che qui in una stanza al secondo piano Sir Alexander Fleming (1881-1955) scopriva la penicillina. Per visitare il laboratorio di Fleming il biglietto costa solo quattro sterline. Johnston, professore di medicina della respirazione specializzato in asma, è un cinquantottenne occhialuto, con una ricciuta chioma grigia che gli cade sulla fronte. I tempi del suo dottorato nel 1989, venne mandato al CCU, non molto prima che fosse definitivamente chiuso, a studiare metodi di rilevazione dei virus. «Ci passai sei mesi lì. Era uno strano posto, sostanzialmente un ammasso di baracche militari collegate da passaggi coperti con tantissimi conigli».

Per il suo PhD sull’asma, Johnston sviluppò una tecnica detta reazione a catena polimerica, in grado di inquadrare il DNA ingrandito e identificare più precisamente i virus, causa dell’85% degli attacchi di asma nei bambini; la metà dei quali erano rinovirus. Prima, gran parte degli studi avevano rilevato meno del 20% di questi attacchi attribuibili al virus. Johnston proseguì, scoprendo come il rinovirus esasperava i sintomi nel 95% dei casi di tosse da fumatore (di solito si parla di chronic obstructive pulmonary disease, COPD). Gli scienziati impegnati sul fronte del rinovirus nel gli anni ’90 iniziavano a capire il proprio avversario. Il microscopio elettronico rendeva possibile osservarlo da vicino. Per un patogeno tanto in gamba nell’infettare i condotti nasali – Rino deriva dalla parola greca che significa Naso – colpiva in effetti l’incredibile semplicità, poco più di qualche filamento di acido ribonucleico (RNA) circondato da un guscio: «Una brutta notizia confezionata dentro una proteina», come osservò il biologo Premio Nobel, Peter Medawar. Al microscopio elettronico appaiono delle sfere con una superficie irregolare simile a quella di un cappellino di lana.

Anche se tutti i rinovirus internamente sono molto simili, una sottile alterazione delle proteine del guscio esterno vuol dire che, al sistema immunitario, appaiono diversi. Una strategia di guerriglia, e la ragione per cui tutti gli esperimenti precedenti coi vaccini, come quello di Winston Price, erano falliti. Gli anticorpi prodotti da un serotipo di rinovirus non ne intercettano un altro. Fino a tempi recenti si riteneva che esistessero circa cento diverse varianti, raccolte in famiglie A e famiglie B. Poi nel 2007, venne scoperto il nuovo gruppo C, portando il totale a 160. Nel 2003, Johnston, che lavorava all’Imperial, contattò Jeffrey Almond, ex professore di virologia alla Reading University, diventato coordinatore per la produzione di vaccini del gigante farmaceutico Sanofi. Che già stava lavorando a uno suo rimedio per l’influenza ed era interessata anche al raffreddore comune. Avendo già incontrato Johnston a convegni scientifici, Almond era convinto che le loro ambizioni potessero convergere. «Gli risposi: vediamo se si riesce a fare qualcosa di davvero grosso – ricorda Almond – riflettiamo su come arrivare a un vaccino per il rinovirus».

Per un dottore, il vaccino è preferibile alle medicine perché protegge l’organismo dalle invesioni prima che queste possano provocare danni. Ma per una casa farmaceutica i vaccini hanno un po’ meno interesse. Non solo occorrono anni di ricerca e relativi enormi investimenti per sviluppare un prodotto soddisfacente ma – sempre che ci si arrivi davvero – poi non è detto che se ne traggano dei profitti adeguati. Il vaccino si somministra in una sola seduta, mentre le medicine si assumono su periodi prolungati. E la gente non è tanto disponibile a spendere, per i vaccini. «Chiunque pretende un vaccino a pochi spiccioli anziché a un prezzo di mercato soprattutto perché lo si somministra quando ancora si è sani, non malati. È qualcosa di simile all’assicurazione dell’auto. Però quando stai male sei anche disponibile a svuotare il portafoglio» osserva Almond.

Ma Almond con questo non intende escludere la potenzialità commerciale di un vaccino al rinovirus. Se mettiamo insieme i giorni saltati tra scuola e lavoro, o le infezioni collaterali come la sinusite che richiedono altre cure fino all’ospedalizzazione, il rinovirus significa un enorme sovraccarico per il sistema sociosanitario. L’anno scorso, nel RegnoUnito, tosse e raffreddore pesano circa un quarto delle assenze malattia a scuola e lavoro, 34.000.000. Negli USA, una indagine del 2002 calcolava come ogni raffreddore per un adulto voglia dire perdere 8,7 ore di lavoro, a cui vanno aggiunte 1,2 ore dedicate alla cura della medesima indisposizione nei figli, per un costo di produttività totale valutabile in 25 miliardi di dollari l’anno. Almond ha convinto i suoi capi che, riuscendo ad arrivare a un vaccino, lo si sarebbe fatto secondo criteri finanziariamente convincenti. «I nostri conti della spesa su quanto avremmo chiesto di prezzo, e per quali quantità di mercato, indicavano delle potenzialità di guadagno assai interessanti per un’impresa privata».

Ripercorrendo i tentativi dagli anni ’60 e ’70, Almond e Johnston liquidarono il concetto dell’unico vaccino contro tutti i 160 rinovirus delle tre famiglie, ritenendo che fosse un obiettivo troppo difficile e complesso, oltre che assai più costoso da perseguire. Iniziarono invece a chiedersi se per caso non esistesse una piccola parte della struttura, identica o «mantenuta» attraverso le varie specie, a costituire la base per un vaccino sub-unit, come quello realizzato con successo contro l’Epatite B e il virus del papilloma umano. Dopo aver comparato le sequenze genetiche dei diversi serotipi, i ricercatori hanno ritenuto di aver trovato una proteina ricorrente. Prelevato un campione dal guscio conservato di un rinovirus, n. 16, unito a un coadiuvante – uno stimolo che simula segnali in grado di indurre risposta immunitaria – e iniettano come vaccino nei topolini da laboratorio. Con la speranza che il sistema immunitario riuscisse a riconoscere la proteina dal guscio come patogeno invasivo, e sviluppare immunità valida per tutta la famiglia dei rinovirus.

Vennero mescolati su piastre Petri campioni di sangue dei topi immunizzati con altri tre diversi serotipi di rinovirus, classificati n. 1, n. 14 e n. 29. Almeno la reazione del n. 1 appariva abbastanza probabile vista la sequenza genetica molto simile a quella dell’originale n. 16, diverso invece il caso dei nn. 14 e 29. Ma le cellule del sangue di topo risposero benissimo a tutti e tre. «Era piuttosto incoraggiante notare quella reazione anche ai due serotipi diversi» ricorda Johnston. La speranza che un vaccino potesse proteggere da tutta la vasta gamma di rinovirus. Venne chiamato un gruppo di ricercatori specializzati in medicina respiratoria a verificare i risultati sperimentali. Tutti concordarono sul fatto che parevano promettenti. Ma proprio quando si stava iniziando a programmare le azioni future la direzione del gigante farmaceutico Sanofi tirò il freno. «Ci fu un cambio di strategie e persone ai vertici» ricorda Almond. «Anche se per ragioni diverse io chiesi un prepensionamento. Anche il mio capo diretto se ne andò».

Nel 2013, la nuova direzione deliberò altre priorità, restituendo a Imperial College il brevetto che impedisce ad altri di operare sul vaccino. Imperial non aveva risorse sufficienti a lavorare senza contributi esterni. Per Johnston, era frustrante: anni e anni di ricerche e lavoro di laboratorio interrotti proprio quando si cominciavano a vedere dei risultati. Ma non c’era niente da fare e il vaccino fu accantonato. Sull’altra sponda dell’Atlantico, mentre a Imperial si continuava la ricerca di sostenitori esterni, Martin Moore, pediatra della Emory University di Atlanta, lavorava autonomamente sul medesimo problema. Specialista in malattie respiratorie infantili, per tre anni Moore aveva cercato una soluzione, difficile da accettare ai suoi colleghi anche quanto pubblicò nel 2016 lo studio su Nature Communications. Aveva pensato di fare qualcosa per il raffreddore comune nel 2014, durante le vacanze con la famiglia in Florida. Appena arrivati il figlio più piccolo si prese il malanno «E voleva essere coccolato giorno e notte» ricorda Moore. I due stavano in albergo a guardare qualche film alla televisione mentre il resto della famiglia scendeva in spiaggia. «Era tremendo pensare, da virologo, da quanto tempo si andava in laboratorio ad affettare e sperimentare su questi virus: ma con che risultati?».

Moore passò in revisione di nuovo gli studi degli anni ’60 e ’70 coi primi tentativi di trovare un vaccino. Notava come gli scienziati avessero dimostrato che prendendo un rinovirus, uccidendolo, iniettandolo, si proteggevano le persone da quello. «Già negli anni ’60 un vaccino esisteva, ma all’epoca non si sapeva dell’enorme quantità di tipi contro cui vaccinarsi». Ma là dove gli scienziati del passato avevano visto una sconfitta Moore avvertiva invece la presenza di uno spunto: perché non tentare un vaccino da tutti i rinovirus? Nulla gli impediva di poter funzionare. Il problema più che scientifico appariva organizzativo. «Pensavo: l’unico ostacolo è il metodo di produzione e le economie». Ottenne finanziamenti dal National Institutes of Health (NIH) e chiese campioni dei diversi serotipi ai Centers for Disease Control e American Type Culture Collection, deposito di materiali biologici in Virginia. Non arrivò al totale rilevato di 160 tipi diversi ritenendo che per confermare la sua ipotesi ne potessero bastare 50.

Dopo aver ricavato il vaccino dai 50 diversi tipi, Moore lo testò su alcune cavie di macaco mulatto. Mescolando il loro sangue coi virus su piastre Petri, la risposta degli anticorpi fu decisa in 49 casi. Non era possibile capire se le scimmie vaccinate fossero immuni al raffreddore dato che quei rinovirus attaccano solo gli esseri umani. Ma certamente il metodo di indurre anticorpi funzionava. «Forse non dovrei neppure dirlo, ma non avevo mai avuto alcun dubbio che si sarebbe arrivati agli anticorpi. E la pubblicazione del saggio mostra come». Ma resta ancora molta strada da fare perché il sogno di Moore diventi realtà. Per testare clinicamente il vaccino occorre agire secondo le regole good manufacturing practice (GMP) obbligatorie per tutti gli enti. Secondo queste regole le sostanze devono essere tenute separate per evitare ibridazione: una grossa sfida avendo a che fare con un vaccino a 160 tipi diversi (sinora al massimo si era avuto a che fare, nel caso della polmonite, con 23 tipi).

Per il modello produttivo, Moore pensa al vaccino della poliomielite, dato che esistono correlazioni biologiche col rinovirus. La produzione sarebbe molto più grande, ma secondo processi simili. A maggio 2017, la start-up di Moore, Meissa Vaccines, ha ottenuto un finanziamento di 225.000 dollari dal servizio sanitario per cominciare, lasciando l’accademia e dedicandosi a tempo pieno ai vaccini. Il principale ostacolo alla cura per il raffreddore comune resta quello commerciale. I ricercatori delle università più di tanto non possono fare; i finanziamenti più generosi sono quelli di enti come il Medical Research Council del Regno Unito, circa due milioni di sterline. Lasciano alle imprese farmaceutiche il carico di sviluppare tuto ciò che va oltre l’individuato concetto iniziale. «Stiamo parlando di un minimo di quindici anni di impegno con gruppi di lavoro di parecchie persone e spese attorno al miliardo di dollari» calcola Almond. Ci si riesce raramente e di solito si fallisce clamorosamente. L’anno scorso c’è stato un crollo di valutazioni dell’80% alla Novavax dopo che il vaccino per RSV, uno dei tanti gruppi di virus che inducono il raffreddore, non ha superato le fasi finali della sperimentazione clinica. Meno comune dei rinovirus, RSV fa comunque parecchi danni tra gli immunodepressi perché anziani o giovanissimi. Un vaccino efficace rappresentava un potenziale valore di un miliardo di dollari per Novavax solo negli USA. Prima di quello stop clinico il top manager Stanley Erck dichiarava che «potrebbe essere il vaccino più venduto della storia». Ma nella terza fase di sperimentazione sui pazienti anziani non si è rivelato efficace. Il prezzo delle azioni Novarax in poche ore dopo la notizia è crollato da 8,34$ a 1,40$.

Episodi del genere rendono più che guardinghi gli investitori. Oggi i vaccini costituiscono meno del 5% del mercato complessivo di prodotti farmaceutici, e la ricerca e sperimentazione in materia la fanno in pochissimi: Sanofi Pasteur, GlaxoSmithKline, Pfizer, AstraZeneca, Merck, Johnson & Johnson, più qualche minore. Dopo quel miliardo per lo sviluppo iniziale ci sono da considerare i costi di produzione e distribuzione. Il bisogno di un margine rispetto all’investimento iniziale. «Non c’è niente da fare se non esiste dall’altra parte un mercato, si stanno solo buttando via dei soldi, e insistendo si finisce per far fallire una compagnia – continua Almond – non esiste una specie di complotto per far ammalare le persone non vaccinandole e lucrare sulle cure, è che tutto non è affatto facile».

Ho provato a ricontattare Sebastian Johnston per sentire se c’erano novità sul suo vaccino. Mi ha raccontato di avere conferma di nuovi finanziamenti da Apollo Therapeutics, startup sostenuta da AstraZeneca, GSK, Johnson & Johnson. Coi quali il suo laboratorio potrà testare nuove tipologie di rinovirus. Johnston è convinto che se si arriverà a confermare l’efficacia con almeno una ventina di tipi, esiste un’ottima probabilità di protezione da tutti gli altri. Le ricerche dureranno un anno e mezzo, «E poi saremo al punto in cui si tratta di coinvolgere le grandi compagnie».

Superate le ultime fasi, approvato dagli organismi pubblici, un vaccino inizierebbe coi soggetti più a rischio – dagli asmatici alla sindrome COPD, oltre ai soggetti anziani più fragili – per poi allargarsi al resto della popolazione. Col tempo, man mano crescerà la quota di soggetti vaccinati sino a raggiungere una massa critica, il virus smetterà di circolare essendo interrotta la catena del contagio con l’immunità di gregge. Ma siamo ancora molto lontani da quella situazione: l’80% dei prodotti farmaceutici che funzionavano sulle cavie poi non supera il test clinico sugli esseri umani. Ma di sicuro per la prima volta da decenni si sta facendo seriamente ricerca a un vaccino al rinovirus, ci lavorano vari soggetti dalle grandi compagnie alle università ad altri che con diversi approcci mirano al medesimo risultato. Conclude Johnston: «Si comincia a credere che sia possibile».

da: The Guardian, 6 ottobre 2017; Titolo originale: Why can’t we cure the common cold? Traduzione di Fabrizio Bottini

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