Il localismo economico si alimenta di razzismo

Star Spangled Banner – Woodstock 1969

Nel giugno 1982, con l’occupazione degli Stati Uniti in caduta verticale nel settore automobilistico, due operai bianchi, uno appena licenziato, iniziarono a insultare un cinese incrociato per strada, a Detroit, Vincent Chin. «Sei tu maledetto figlio di puttana la ragione per cui siamo senza lavoro» lo apostrofava uno dei due, Ronald Ebens. Chin, che era lì in un locale a celebrare il prossimo matrimonio, rispose per le rime e ne nacque un litigio. Chin se ne andò dal locale, ma i due lo ritrovarono poco più tardi in un McDonald’s, lo inseguirono per la strada, e lo colpirono con mazze da baseball fino a ucciderlo. L’omicidio di Chin è solo l’esempio più famoso del diffuso perverso odio razzista anti-asiatico seguito alla campagna «Comprate Americano» e in generale al nazionalismo economico degli anni ’70 e ’80, quando le automobili più economiche da comprare e mantenere prodotte in Giappone, Germania, o Corea del Sud sostituivano via via quelle fabbricate negli Stati Uniti.

Campagne pubbliche di sensibilizzazione del genere hanno una lunghissima storia, che si può far risalire addirittura alla Rivoluzione Americana. Alcune élite culturali e politiche invitavano i coloni a non acquistare prodotti dalla Gran Bretagna preferendo invece quelli locali, in una campagna culminata nel Boston Tea Party. Allora come oggi, le politiche di classe e razza del nazionalismo economico sono rozze ed evidenti: quelle medesime élite che caldamente invitano a boicottare certi consumi poi in realtà furbescamente non ci rinunciano affatto (Thomas Jefferson, che pubblicamente sosteneva «Non Importiamo» nel frattempo ordinava a Londra un magnifico pianoforte in mogano per sua moglie) obbligavano lavoratori semi-schiavizzati a produrre «filati e tessuti nazionali» per usare le parole ostentate di George Washington il giorno dell’insediamento.

Lo shopping patriottico rimase poi congelato sino ai primi anni ’30 quando, ufficialmente rispondendo alla Grande Depressione, il magnate dei giornali William Randolph Hearst lanciò sui suoi 27 quotidiani la campagna Buy American. Da decenni lo sesso Hearst lanciava allarmi per il «pericolo giallo» incombente alle porte degli USA, arrivando più tardi alla carcerazione di massa per oltre 120.000 giapponesi e americani di origine giapponese durante la seconda guerra mondiale.

Qualunque campagna presidenziale a memoria d’uomo comprende promesse di rafforzare la produzione nazionale e i posti di lavoro, ma Donald Trump, già alla prima elezione nel 2017, convertiva quelle idee in un suo oscuro mescolare nazionalismo economico e generica ostilità verso gli immigrati. «Seguiamo due semplici regole: compra americano e assumi americani» tuonava il giorno dell’insediamento, in un discorso che il gruppo di lavoro comunicazione comprendente Stephen Miller, allora responsabile immigrazione e oggi Vice Capo Gabinetto, sembrava aver ripreso pari pari dalla campagna di Hearst sui giornali. Già prima dell’elezione l’analista politico-economico Marcus Noland rilevava che «il modo in cui Trump comunica le sue posizioni protezioniste, l’uso di un linguaggio politicamente razzista, anti-immigrati, islamofobo, le pone alla base della propria azione».

Dopo un anno circa del suo primo mandato, Trump inizia a tradurre la retorica in azione, cominciando una guerra commerciale contro la Cina, a colpi di tariffe sull’acciaio, i veicoli elettrici, i pannelli solari. Azioni che preparano il campo per il 2020, quando il fervore di base anti immigrati alimentato da Trump in campagna elettorale trova un nuovo obiettivo nella Cina, dato che risulta facile inventarsi la colpa di aver portato il virus COVID negli Stati Uniti. E ci vuole poco perché quella rabbia non si allarghi a chiunque abbia un aspetto vagamene asiatico, compresi anziani indifesi incrociati per strada.

Questo aprile, Trump alimenta ulteriormente dichiarando guerra praticamente al mondo intero, con le spropositate tariffe in risposta a presunte cattive intenzioni degli altri paesi e di nuovo promettendo grandi investimenti nella produzione interna. Appare chiaro quanto economicamente distruttive siano quelle minacce: mettono in subbuglio tutto il sistema delle relazioni commerciali di lunga data, devastano la possibilità di programmarsi sul lungo periodo delle imprese, mettono a rischio l’export agricolo, affondano i mercati finanziari, minacciano iper-inflazione. Ma è essenziale soprattutto capire come opera questa brutalità nei confronti degli immigrati: e soprattutto come, indipendentemente dagli esiti delle guerre commercial, questa sinergia provochi altre ondate di violenza popolare o istituzionale. Mentre cerchiamo di rispondere a queste politiche con alernaive progressiste, la storia del nazionalismo economico popolare coi suoi risvolti razzisti ci deve fungere da monito. La vera risposta non è un ritorno distruttivo a un regime di liberi scambi, ma una revisione che metta in primo piano i lavoratori, tutti i lavoratori.

«Compra americano e spendi americano» proclamavano i giornali di Hearst nel dicembre 1932. «Teniamo i soldi americani in America per i cittadini americani». Vignette, personaggi celebri coinvolti, editoriali, ogni giorno ribadivano quei concetti. La propaganda di Hearst esplicitamente metteva insieme prodotti stranieri e lavoratori stranieri. «Abbiamo diritto sia di evitare certe importazioni pericolose per i nostri valori e ideali americani – tuonava un editoriale – sia di escludere l’immigrazione che rappresenta una minaccia agli stessi ideali e criteri». Prodotti e persone pericolosi che distruggevano la nazione secondo erano soprattutto giapponesi, nonostante all’epoca ci fossero solo poco più di centomila discendenti nippo-americani. I giornali coniarono allegramente il termine peggiorativo Jap, mentre dissertavano di oscure importazioni di lampadine, attori cinematografici, ostriche o «viscidi pesci alieni» di sospetta provenienza giapponese.

L’immaginario popolare si animava di visioni apocalittiche, ondate di asiatici e prodotti dall’Asia ad alluvionare gli Stati Uniti. Lo storico Lothrop Stoddard – membro sia del Ku Klux Klan che della Società Eugenetica Americana – già negli anni ’20 avvertiva col suo best-seller The Rising Tide of Color Against White World-Supremacy, di «brulicanti razze colorate» che attraverso le migrazioni avrebbero spazzato via la popolazione bianca. Nel quadro della sua campagna Comprate Americano, Hearst lanciava una serie di cinque saggi di Stoddard in cui si spiegava la minaccia asiatica alla supremazia bianca (colonne in seguito affidate a una regolare rubrica di Benito Mussolini.)

Quelle campagne sui giornali promuovevano pericolosa ostilità verso gli immigrati durante la Depressione. Il Ministro del Lavoro, William Doak, in un vibrato sostegno a Comprate Americano nel 1932, dichiarava che «il nostro dicastero si impegna a tener fuori dal paese lavoratori stranieri che possano competere con quelli americani». In quei primi tempi della Grande Depressione, Doak si immaginava espulsioni forzate, dette Repatriation, fino a un milione di messicani anche naturalizzati americani, e poi deportazioni di decine di migliaia di filippini, e altri specie colpevoli di attivismo sindacale. La campagna Comprate Americano sparì per trent’anni, nascosa dal dominio americano sull’economia globale del dopoguerra. In quel periodo era il libero scambio, non il protezionismo, a favorire sia le imprese che i lavoratori americani. Ma poi negli anni ’70 e ’80, quando soprattutto le tre grandi imprese dell’auto Ford, GM, e Chrysler, si spostavano all’estero verso mercati del lavoro più convenienti e meno vincoli ambientali, ecco tornare in auge la propaganda Comprate Americano, ed ecco ancora i toni vendicativi contro i giapponesi e tutti gli asiatici presenti nel paese, che rubavano il lavoro. Si susseguivano le notizie di violenze dei lavoratori dell’auto di Detroit contro i veicoli di importazione sfasciati a colpi di mazza.

Gli esponenti del sindacato United Auto Workers (UAW), rappresentante delle Tre Grandi, favorivano volentieri quel risentimento popolare; l’ostilità al Giappone avrebbe messo in secondo piano le critiche alla loro leadership troppo passiva verso le imprese, inefficace contro gli spostamenti delle produzioni all’estero. Il Sindacato Unito promosse anche direttamente, pur su piccola scala, ostilità nei confronti del Giappone. Un cartello comparso nel parcheggio della sede sindacale centrale di Detroit recitava «SPAZI UAW RISERVATI ESCLUSIVAMENTE A VEICOLI USA E CANADESI. SI PREGA DI SPOSTARE ALTROVE QUELLI DI IMPORTAZIONE». Nel maggio 1981, Solidarity, organo ufficiale dell’Unione, pubblicava un’immagine dal titolo «L’Invasione dei Trattori», in cui una intera flotta di veicoli agricoli battenti bandiera giapponese usciva dall’oceano invadendo le coste USA.

Ridivenne popolare l’uso del termine Jap, insieme ad altri stereotipi razzisti, e dilagavano riferimenti a Pearl Harbor o alla bomba atomica. C’è un’altra immagine comparsa su t-shirt, tazze, o mostre di armi, dove sotto un fungo nucleare sta scritto «FABBRICATO IN AMERICA. SPERIMENTATO IN GIAPPONE». Quello stesso anno mentre un gruppo di ragazzine scout di origine giapponese vendeva biscotti fuori da un negozio il titolare commentava: «Li prenderei solo da ragazzine americane». Pochi mesi dopo diventava best-seller Sole Nascente di Michael Crichton, fantascientifico giallo che raccontava la catastrofe di una invasione economica giapponese.

Con identica ipocrisia entravano in campo anche le imprese. Nel 1985 Wal-Mart lanciava l’iniziativa «Riportiamoci a casa gli USA» in cui si impegnava a proporre in speciali scaffali, segnalati da gigantesche bandiere nazionali, prodotti americani, e prediligere fornitori in grado di creare posti di lavoro locali. Nel 1992 affermava di averne promossi 41.000 di quei posti, contribuendo a mantenere nel paese miliardi di dollari. Ma un servizio Dateline messo in onda da NBC lo stesso anno rilevava come le giacche proposte dalle scansie Compra Americano fossero prodotte da bambini di undici anni in Bangladesh. Contemporaneamente Wal-Mart sottopagava i propri 365.000 dipendenti non sindacalizzati dei negozi, devastava con concorrenza sleale la rete della piccola e media distribuzione USA, alimentando produzioni outsource in tutto il mondo.

Le guerre commerciali di Trump già hanno resuscitato l’ostilità latente contro il Giappone. «Non vendiamo una sola auto al Giappone» tuonava dagli schermi di FOX News l’ospite Jeainne Pirro (oggi procuratore a Washington, D.C.) lo scorso aprile. «Guardate per le strade e vedrete Mitsubishi, Honda, Mazda, Subaru». Poco dopo Miller su Twitter denunciava drammatica «53 MILIARDI annui di deficit negli scambi automobilistici col Giappone» per non parlare di quelli con Europa e Corea del Sud. «I nostri alleati chiudono le porte al mercato delle nostre auto, invadendo il nostro nazionale».

Mentre addirittura la conservatrice National Review precisava come i veicoli Made in USA non vendano in Giappone perché non offriamo segmenti di loro interesse: auto sicure, che consumano poco, e ingombrano altrettanto poco nelle strade strette. Ma se poi le guerre commerciali di Trump si sono rivelate poco popolari – addirittura divisive dentro il suo stesso schieramento – l’ostilità anti-immigrati insita nel nazionalismo economico è passata. Mentre Trump arranca tra aggressioni commerciali alla Cina e ci riprova col Giappone, sta salendo di nuovo un fanatismo anti-asiatico? Non sono certo i lavoratori stranieri ad aver fatto abbassare gli stipendi e peggiorare le condizioni nell’ultimo mezzo secolo. Gran parte della colpa si può attribuire al vantato regime di libero scambio oggi colpevolizzato da tanti: un insieme di politiche che spalancava le porte alla rete transnazionale dei grandi interessi per investire in tutto il mondo, alla ricerca delle peggiori condizioni di lavoro e criteri ambientali, mettendo i lavoratori dei vari paesi gli uni contro gli altri in una «concorrenza al ribasso». Dagli anni ’70 in poi gran parte della produzione nazionale di acciaio, automobili, componenti elettriche ed elettroniche si è trasferita all’estero.

Il rozzo nazionalismo economico proposto come soluzione all’outsourcing presumerebbe di innescare un circuito virtuoso in cui i profitti riportati con le tariffe «protettive» siano reinvestiti dentro gli USA. Ma nessuna impresa o capitale professa particolare lealtà per i lavoratori americani: gli unici obblighi sono di garantire le rendite più elevate, ovunque. A ben vedere hanno operato molto attivamente per politiche, come il North American Free Trade Agreement, tali da rendere molto lucrativo lo sfruttamento del lavoro globale. Oggi quella supposta epoca d’oro del dominio industriale-commerciale USA non esiste più da tempo. Si basava sulla capacità americana di scavalcare la concorrenza industriale di altri paesi dopo le devastazioni economiche della seconda guerra mondiale, sostenuta del sistema militare globale che per decenni ha scoraggiato le capacità di paesi meno sviluppati di imporre alleanze regionali, alternative di prodotto, strategie socialiste.

Il metodo della ruspa demolitrice di Trump non è certo in grado di invertire le forze che hanno plasmato l’economia del mondo; né le sue spietate tariffe potranno indurre i capitali a convogliarsi di nuovo verso la produzione americana. Come ha scritto Benjamin Wallace-Wells sul New Yorker, «Gli affari richiedono stabilità per i grandi investimenti di capitale che richiede la realizzazione di nuovi impianti produttivi in questo paese, non certo un clima di continue decisioni contraddittorie e brusche svolte». Ma che ne sarebbe poi di quei «solidi lavori operai» che i sostenitori delle tariffe sperano di riportare nelle zone deindustrializzate come Detroit? Val la pena ricordare che i posti nelle acciaierie, fabbriche di auto, o componenti elettriche degli anni ’30 e ’40, che garantivano pensioni, servizi sanitari, ferie pagate, erano stati una conquista duramente ottenuta dai sindacati, in un’epoca in cui quelle organizzazioni avevano anche l’appoggio governativo.

Troppi lavoratori USA sono diventati vittime del falso nazionalismo anti-immigrati, in una visione del mondo dove il nemico non è l’anti sindacalismo aziendale ma altri lavoratori. Anche le organizzazioni hanno abboccato all’esca: la settimana precedente la «Giornata di Liberazione» delle tariffe di Trump in aprile, l’United Auto Workers lodava le iniziative presidenziali. «Approviamo vivamente l’amministrazione Trump per la sua entrata in campo a porre fine ai disastri del libero scambio che hanno devastato la classe lavoratrice per decenni» dichiarava il massimo esponente Shawn Fain. Condannare alcuni effetti del libero scambio è una cosa, ma le sperticate lodi a Trump— apparentemente per conquistarsi il consenso dell’ala destra del sindacato ed essere rieletto — fanno sì che Fain legittimi sia l’autoritarismo presidenziale che prevarica i poteri federali, sia il pericoloso nazionalismo. Anche dirigenti Democratici, tra cui Tim Kaine o Elizabeth Warren, hanno tentato impossibili equilibri, insistendo sul fatto che alcune tariffe erano positive, ma certo non queste. Però in assenza di una visibile e decisa linea politica e di massa contro Trump si tratta di commenti quasi di approvazione, che non delineano politiche industriali alternative.

Quali potrebbero essere queste politiche? Appare chiaro come non si possa certo tornare a quell’immaginario regime di libero scambio che mette le classi lavoratrici del mondo l’una contro l’altra. Né al nazionalismo economico dove spietate imprese siano libere di sfruttare senza limiti i lavoratori. Stiamo soltanto ricominciando dopo tanto tempo a discutere sulle possibili politiche di libero scambio progressiste, a considerare l’economia nel suo insieme, non solo l’industria. Qualunque visione progressista di un sistema economico più equo deve partire da un sistema di scambi che ponga al centro di qualunque accordo i diritti dei lavoratori nei vari paesi, e accolga gli immigrati per il loro sostanziale contributo agli Stati Uniti.

Il Sindacato Unito dei Lavoratori dell’Auto, gli va riconosciuto, ha già proposto un salario minimo operaio per Stati Uniti, Messico, Canada, da introdurre nel prossimo accordo internazionale USMCA che succede al NAFTA. «Non dovrebbero competere al ribasso gli uni contro gli altri» commentava il Presidente Fain. Per tradurre in pratiche queste ambiziose visioni però occorre un movimento di massa dei lavoratori più deciso e alleato delle forze politiche progressiste del paese, e certo non solo del paese ma anche oltre i confini.

da: Boston Review, 16 maggio 2025; Titolo originale: Dangerous Products and People – Traduzione di Fabrizio Bottini

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