Spazi pubblici e discriminazione urbana: Robert Moses e le piscine del New Deal a New York

Introduzione

Nel 1986, durante il secondo anno del mio dottorato di ricerca alla Michigan State University, mi capitò di frequentare gli interessanti quanto impegnativi corsi di politiche pubbliche di Jack H. Knott. Knott era diventato professore dopo una lunga esperienza negli uffici ministeriali del governo federale. E aveva una grande passione per capire e analizzare il funzionamento dei vari livelli amministrativi, da quello federale, allo statale e al locale. Ma cosa ancora più importante la sua competente guida spesso introduceva approfondite discussioni sulla responsabilità delle decisioni pubbliche, utilizzando come esempio il caso di New York City e di Robert Moses.

Fra i numerosi testi in bibliografia obbligatoria per gli studenti inscritti figurava il capolavoro di Robert A. Caro, The Power Broker: Robert Moses and the Fall of New York (1974). Vincitrice del Premio Pulitzer, questa opera saggio ricostruiva la vicenda di Robert Moses, a parere di molti la persona in assoluto più potente di New York per lunghi decenni del ‘900, vero e proprio architetto di questa leggendaria città americana. Tra i fatti più singolari che emergono dal magnum opus di Caro, quello che Moses non fu mai eletto ad alcun ruolo pubblico, riuscendo però ad accumulare cariche di spropositato indiscutibile potere, che gli consentirono di riplasmare radicalmente la città di New York, lasciando una indelebile impronta su come la conosciamo oggi. Paradossalmente emerge anche dal libro come le documentate decisioni pubbliche di Moses prese in nome del «miglior bene» dei cittadini di New York, comprendessero anche vere e proprie devastazioni di comunità di colore, e danni alle esistenze di milioni di persone, senza doverne rispondere a nessuno.

Lo scopo del presente saggio storico-amministrativo è triplice. In primo luogo vorremmo mettere in luce la figura di Robert Moses in quanto urbanista visionario, in particolare per quanto riguarda le infrastrutture di balneazione e nuoto, coperte o scoperte, di New York City. In secondo luogo, vorremmo capire meglio le intenzioni delle sue scelte più significative e le loro contraddizioni per i servizi alle varie fasce di popolazione, tra cui anche quelle di colore. Infine, ed è forse l’obiettivo più importante, intenderemmo analizzare cosa accade quando autorità e potere amministrativo locale operano senza adeguati controlli, verifiche incrociate, contrappesi.

Robert Moses, un profilo

Moses nasce a New Haven, Connecticut, nel 1888 e cresce nella zona orientale di New York City. Laureato a Yale nel 1909, frequenta poi studi universitari superiori a Oxford, e poi alla Columbia, conseguendo un Dottorato nel 1914. Moses diventerà un instancabile attivissimo amministratore, autoritario urbanista, costruttore, in un cero senso anche politico, che lascia una traccia indelebile e controversa su New York City specie come Commissario ai Parchi per 26 anni. Ma i suoi avversari e molta stampa lo dipingono anche come «Un furfante, dittatore non eletto che piegò la città al suo volere e alle sue opere di cemento pietra e acciaio». Moses comincia il suo lungo percorso di maratoneta del potere durante il governatorato di Al Smith nei primissimi anni ’20, e lo terminerà solo con la destituzione imposta dal Governatore Nelson Rockefeller nel 1968. Di grande rilevanza anche il fatto che Moses nel suo efficientismo è una delle prime persone a considerare praticamente New York non come area urbana a sé stante, ma componente di una più vasta regione metropolitana. Da qui io considerarlo a tutti gli effetti un personaggio di avanguardia della moderna pianificazione urbana e territoriale.

Nella sua quarantennale carriera nelle posizioni chiave del potere burocratico della città (riuscì a coprire contemporaneamente fino a dodici diversi incarichi), costruì opere a ritmi e dimensioni che non hanno precedenti, ispirandosi tra gli altri alle idee anni ’20 di le Corbusier per la ricostruzione di Parigi. Usando strumentalmente la centralità dell’automobile e le linee di finanziamento dell’era del New Deal, Moses realizzò parchi, superstrade, giardini zoologici, piscine, centri civici, stadi sportivi, complessi culturali, 13 nuovi ponti, 658 campi da gioco, 700km di parkway, 150.000 alloggi pubblici, e l’Esposizione Mondiale del 1964-65, gestendo somme stimabili ai valori attuali ad oltre 150 miliardi di dollari. Notorio anche il disprezzo di Moses per lo slum of New York, e secondo molti la sua graduale cancellazione diventò il punto di convergenza e sintesi delle diverse cariche decisionali occupate, tra cui quelle per la Casa e i Trasporti. Che nei quartieri comprendevano anche le realizzazioni dei progetti di piscine.

Fra le opere più note spiccano Jacob Riis Beach a Brooklyn, Jones Beach State Park a Long Island, la Belt, la Grand Central, Cross Island, Henry Hudson Parkway, e appunto tanti impianti per il nuoto. Il «metodo della ruspa» di Moses (agire in fretta pensando alle conseguenze solo dopo) nelle trasformazioni urbane gli valse le opposizioni del conservazionismo. La sua immagine pubblica ha cominciato ad essere ampiamente discussa dopo la pubblicazione di The Power Broker di Rober A. Caro, vincitore del Premio Pulitzer. È morto di infarto all’età di 92 anni.

Urbanista visionario

Parlando di Robert Moses è inevitabile suscitare controversie. Il nome tuttora accende i newyorchesi, con accuse di razzismo e segregazionismo. L’abitudine di filtrare la storia interpretandola troppo schiacciata sul presente porta a un genere di revisionismo del tipo di chi chiede che ne venga «cancellata la memoria» ufficiale a New York City, rimuovendo il suo nome da parchi o opere pubbliche. In un ricordo restato inedito degli anni ’50, del militante Charles Abrams, dal titolo «Robert Moses contro Robert Moses» al contempo si riconoscono le importanti realizzazioni per la città ma si stigmatizzano anche azioni terribili. Abrams non può non constatare la capacità di Moses di portare a termine progetti enormi, ma al tempo stesso ne denuncia l’assenza di visione: «Grazie a Moses, New York City oggi ha molo più verde e spazi aperti pubblici. Ma si deve a lui anche che tanti bambini per andare in quei parchi debbano attraversare tane corsie delle sue superstrade. Moses non ha mai avuto un’idea di urbanistica, era semplicemente lui a comandare, decideva tutto in città».

Robert Moses e le politiche federali di trasformazione urbana

Il Presidente Franklin D. Roosevelt istituì la Works Progress Administration (WPA) con un ordine esecutivo datato 6 maggio 1935. Faceva pare del suo New Deal per far uscire il paese dalla Grande Depressione, riformando il sistema finanziario ed economico. Un approccio innovativo alle opere pubbliche rivolto a disoccupati o sotto-occupai anche cronici. Il tasso di disoccupazione nel 1935 superava il 20% ed era indispensabile una risposta a questa situazione destabilizzante per tutta l’economia. Nell’arco degli otto anni di operatività il WPA occupò circa 8,5 milioni di americani (prevalentemente maschi) nella costruzione di scuole, ospedali, strade e altre opere di pubblica utilità, comprese le piscine. WPA era concepita esattamente per dare sollievo alla disoccupazione e al massimo nel 1938 si stimava garantisse lavoro a oltre 3,3 milioni di persone. Per non parlare del sostegno alle arti, in cui vennero impiegate decine di migliaia di attori, musicisti, scrittori e altro.

Le politiche federali e la Commissione Parchi di New York

È grazie alla WPA, che a New York City alla vigilia del Labor Day 1936 erano operativi undici enormi complessi di balneazione pubblica. Due attivati all’interno di centri ricreativi risalenti alla Progressive Era; altri nuovi, e quegli edifici monumentali in mattoni erano decantati capolavori di architettura moderna. Ogni complesso comprendeva almeno tre vasche scoperte – più grandi per il nuoto sportivo più piccole per la balneazione, realizzate secondo i più avanzati criteri tecnici e sanitari di settore. È stato scritto valutando l’impatto di questo impegno di Moses che:

«L’accoglienza divenne ancora più positiva con le temperature estive record, con le piscine che inauguravano ogni settimana e i newyorchesi in fila per le cerimonie, promosse sulla stampa locale. Furono più di 1,79 milioni gli utenti delle nuove piscine nell’estate 1936; di cui oltre 600.000 bambini con meno di 14 anni, ammessi gratuitamente la mattina delle giornate feriali».

Riflettendo sui motivi per cui Moses considerava una priorità progettare e costruire proprio le piscine, contando anche che Moses fosse da sempre un appassionatissimo nuotatore: «Certamente questo porre al primo posto gli impianti per il nuoto rispetto ad altri lavori pure finanziati da WPA, dipendeva dalla particolare sensibilità di Robert Moses: era stato un atleta del nuoto competitivo e apprezzava vedere i newyorchesi impegnati in un’attività organizzata nel tempo libero». Molti impianti erano realizzati anche per funzionare fuori stagione con attività diverse, dalla pallacanestro al tennis da tavolo alla pallavolo e pallamano. Nelle piscine più piccole si organizzavano quando asciutte i pattinatori anche i partite di hockey. E le strutture al coperto come spogliatoi e simili si «riciclavano» a palestra o addirittura sale da ballo per ragazzi. Tra le innovazioni introdotte da Moses spiccavano adattabilità e flessibilità nei progetti e costruzione per un uso multiplo. Nel 1966, fu anche promosso un progetto pilota di «vasche portatili» in alluminio con telai in legno. Con una profondità di 90-100 cm e un costo di circa 25.000 dollari ciascuna. Queste piscine portatili si rivolgevano ai quartieri sottoserviti di tutte le aree della città, in modo analogo a quanto già in uso per le classi scolastiche. Proprio la facilità di spostamento serviva ad andare là dove si verificava via via il bisogno.

Accuse di razzismo per la localizzazione e gestione di piscine

Per tutta la durata delle sua gestione del servizio piscine in quanto Commissario ai Parchi di New York, Robert Moses venne accusato di discriminazione razziale. Quella più esplicita è di aver deliberatamente scelto già nel programma dei primi undici impianti del 1936 la localizzazione sulla base della composizione sociale demografica dei quartieri. Secondo alcuni autori le piscine andavano in zone con maggioranza assolutamente bianca, a scoraggiare una utenza afroamericana. E anche altri impianti intesi per l’utenza dei neri, come quello di Colonial Park, poi ribattezzato Jackie Robinson Park, erano comunque scomodi da raggiungere. Altri hanno osservato come dei 255 campi da gioco realizzati negli anni ’30 durante la gestione Moses, solo due fossero in quartieri principalmente abitati da neri. Lo sesso biografo Caro scrive come stretti collaboratori di Moses affermassero che per scoraggiare l’utenza afro-americana alla piscina Thomas Jefferson, nell’allora prevalentemente bianca East Harlem, si manteneva addirittura l’acqua fredda.

Robert Moses, da responsabile dei parchi collaborava con il sindaco Fiorello LaGuardia per assicurarsi i finanziamenti federali, peraltro quelli in assoluto più cospicui del paese durante il New Deal. Il sostegno WPA serviva ad accrescere i servizi per il tempo libero della città di New York. Ma per quale parte dei cittadini? Negli anni ’30 l’amministrazione federale spendeva oltre 750 milioni di dollari in questo comparto, tra cui migliaia di nuove o rinnovate piscine per nuoto e balneazione. E WPA si inseriva nei programmi del governo per rilanciare l’occupazione, contribuire all’uscita dalla depressione economica.

Nel quadro di questo programma l’artista sostenuto da WPA John Wagner studiava la campagna Impariamo a Nuotare con una serie di manifesti che si attirarono le critiche di chi vedeva in quei progetti discriminazione razziale. Accostare come veniva fatto evidentemente bambini bianchi e bambini neri mostrando la segregazione dominante a York nelle piscine durante il New Deal. Lo storico della società Jeff Wiltse, nel suo libro Contested Waters: A Social History of Swimming Pools in America (2007), descrive quelle immagini dei manifesti «fumettistiche, comunicano l’idea che esista una linea di colore a dividere New York negli anni ’30 per quanto riguarda il nuoto e altri ambiti».

Una divisione per colori che passa attraverso le piscine nei quartieri della segregazione razziale, ma questa particolare interpretazione dei manifesti manca un punto sostanziale del contesto newyorchese. L’Ufficio Parchi di cui è responsabile Moses, rivolge i propri programmi formativi e di nuoto a bambini bianchi e neri, purché partecipino nei propri quartieri segregati. Senza parlare del fatto che, contro qualunque stereotipo razzista, ciò che i manifesti mostrano sono dei giovani bianche neri che tutti allo stesso modo vengono coinvolti nei programmi pubblici di promozione della salute e della cittadinanza. Sarà forse in altre città che i bianchi segregheranno le piscine pubbliche durante il New Deal, sfruttando i timori razzisti di contatto fisico, con lo sporco, la malattia, la sessualità adolescente.

Robert Moses era davvero razzista?

Una delle accuse più gravi della tesi di Robert Caro, è che Moses fosse motivato dal razzismo in alcuni progetti, nelle decisioni sui quartieri in cui collocare verde e impianti di piscine. Ma molti dei riscontri offerti a prova da Caro sono contestabili. Per esempio, in una intervista a Paul Windels, collaboratore di Moses, viene sollevato il tema dell’acqua tenuta appositamente fredda in un impianto di East Harlem sapendo che i neri la preferiscono più calda: «Se in tutte le piscine l’acqua era tenuta a una gradevole temperatura di ventun gradi, alla Thomas Jefferson non la si scaldava affatto». Caro, richiama questa dichiarazione riflettendo sul fatto che Moses preferisse non far «mescolare» i due gruppi, sia perché temeva (e va detto con qualche ragione) ne derivassero «guai» e conflitti, sia perché per usare le parole di un altro collaboratore: «Beh le conosciamo le idee di di Moses sulle persone di colore». Aggiunge ancora Caro, dell’opposizione di Moses a far mescolare neri e portoricani ai bianchi nella fruizione di servizi pubblici, perché li considerava «sporchi».

Segregazione e localizzazione dei servizi

La segregazione per quartieri nei grandi centri urbani come New York separava già programmaticamente utenti delle piscine bianchi dai neri, attraverso l’organizzazione urbanistico-sociale. Quella spaziale dei quartieri poteva anche essere scomoda o addirittura rischiosa per i neri, salvo nel caso dei due impianti espressamente concepiti per loro. A New York, il commissario ai parchi accettava la segregazione esistente collocando le piscine WPA in quartieri a soverchiante maggioranza bianca come Lower East Side, Greenpoint, o Red Hook. Così se i neri della città avessero voluto andarci a nuotare, c’era prima da attraversare il quartiere bianco, e farlo sentendosi una minoranza sia fuori che dentro l’acqua.

Costruire piscine ad Harlem era complicato per Moses perché ci vivevano fianco a fianco neri portoricani e bianchi. Afroamericani e portoricani, che Moses classificava «persone di colore», dominavano, ma soprattutto nella fascia meridionale abitavano anche molti bianchi. A complicare ulteriormente le cose le precise scelte localizzative degli impianti. Per esempio quello nella zona nera di Harlem a Colonial Park (146a Strada). Un altro più a sud a Thomas Jefferson Park (fra la 111a e la 114a Strada). La prima rivolta a neri e portoricani, la seconda ai bianchi per scoraggiare neri e portoricani residenti nella fascia bassa di Harlem a usare il ben concepito impianto Thomas Jefferson.

Marta Gutman in un articolo dal titolo «Race, Place, and Play, Robert Moses and the WPA Swimming Pools in New York City» pubblicato nel 2008 dal Journal of the Society of Architectural Historians chiarisce ulteriormente quesa percezione del Moses razzista quando afferma: «Resta aperto il problema del perché Moses costruisca due piscine ad Harlem, forse per consolidare una visione razzista dello spazio pubblico nei quartieri? La sua spiegazione rivolta a un politico conservatore è di una soluzione pragmatica a ciò che definisce “problemi razziali”. Ma forse la sua spiegazione risulta più chiara da una conferenza tenuta nel 1939 alla Harvard, più tardi pubblicata col titolo Theory and Practice of Politics:

«A New York, nel quadro delle realizzazioni per il tempo libero, il Settore Parchi progettò e, grazie al sostegno dei fondi federali per l’occupazione realizzò, dei poli di quartiere, ciascuno dotato di grandi impianti di piscina, utilizzabili per altre diverse attività anche nei mesi di chiusura invernale. Uno di quarti impianti era localizzato in una zona a prevalenza di italiani. Sui confini della zona risiedono dei portoricani mentre più a nord comincia la fascia nera di Harlem. All’apertura della piscina apparve immediatamente evidente che gli italiani non avrebbero accettato quelli che definivano “spagnoli”. Naturalmente ciò era contro spirito e lettera sia della Costituzione dello Stato che della Legge sui Diritti Civili, ma che cosa potevamo fare? Non ricorrere alle forze dell’ordine dato che era impossibile garantire un costante controllo di pattugliamento, e i conflitti si verificavano soprattutto fuori dalla zona del parco. Poco più tardi aprì un’altra piscina nella zona nera, e i portoricani decisero di frequentare quella. I neri di Harlem erano ostili solo ai bianchi, il nostro problema pratico era risolto e restava formalmente rispettata anche la lettera della legge sui diritti».

Robert Caro aggiunge che Moses scelse di usare soltanto addetti bianchi ai servizi e vigilanza, per limitare ulteriormente la presenza di neri o portoricani nelle piscine. C’è poi la questione dell’acqua mantenuta fredda alla Thomas Jefferson per scoraggiare utenti colored più che bianchi, ma sta di fatto che l’utenza degli impianti era divisa da linee di razza, oltre al dover attraversare certi quartieri bianchi per raggiungere una piscina.

Contro la tesi del Moses razzista

Contro l’idea di un Moses bigotto ultraconservatore, sopratutto nell’ultimo ventennio sono emerse posizioni diverse. C’è almeno il tentativo di concedere il beneficio del dubbio là dove ce ne può essere uno. La storica dell’architettura Marta Gutman sottolinea la corrispondenza tra la collocazione delle piscine e quella dei parchi già esistenti. Oltre a verificare come le vasche a East Harlem siano dotate esattamente quanto le altre di impianti per riscaldare l’acqua (anche se non sappiamo come e quanto siano stati usati). Kenneth Jackson, storico alla Columbia University e autore di Robert Moses and the Modern City: The Transformation of New York City (2008), sosiene decisamente che «non esistono prove a sostegno delle tesi di Caro sul razzismo che sarebbe insito nel carattere di Moses, o sugli effetti spropositati dell’opera contro gli afroamericani»..

Prosegue Jackson: «Quando inizia ad occupare posizioni di grande responsabilità negli anni ’20, il pregiudizio sulla base del colore della pelle rappresenta un dato di fatto in tutta l’area metropolitana. Nel cuore di Harlem, la più famosa zona nera del mondo, i ristoranti, i teatri, i negozi, trattano gli afroamericani come cittadini di seconda categoria. Mentre Moses prova a costruire piscine e giardini alla portata delle famiglie nere, comodamente accessibili coi mezzi pubblici. E a ben vedere non cerca invece [come molti hanno scritto n.d.t.] di realizzare scavalcamenti stradali troppo bassi per farci passare gli autobus, impedendo così alle famiglie nere che su quegli autobus viaggiavano di raggiungere il mare a Jones Beach, né ha abbassato la temperatura dell’acqua di qualche piscina».

In una considerazione più generale sul razzismo presunto di Moses, Jackson osserva come «La questione più importante non sia tanto il pregiudizio di Moses – che senza dubbio esiste – quanto la frequenza con cui influenza la sua opera». Da questo punto di vista la quantità di lavori pubblici realizzati è tanto grande da compensare più che abbondantemente queste eventuali trascuratezze nei servizi per i quartieri neri. E a prescindere dalle opinioni e programmi degli urbanisti, le architetture affermano la propria funzione sull’arco della propria esistenza: oggi le piscine di Moses hanno finito per trovarsi in quartieri multietnici e servono quelle comunità tanto diverse dalle originali».

Indipendentemente dal razzismo o meno che le avrebbe ispirate quelle piscine restano dei monumenti in grado di conferire dignità, addirittura grandiosità, ai quartieri in cui si trovano. Ovvero che Moses credeva nello spazio pubblico e nella sua migliore concezione. Nell’estate 1936, inaugurava una nuova piscina la settimana. Tutte architettonicamente notevolissime; ciascuna diversa dall’altra, le più grandi in grado di ospitare migliaia di persone per volta. Alcune, come l’impianto Crotona a East Tremont, o il McCarren a Greenpoint, veri capolavori in stile autenticamente modernista. Secondo la storica dell’architettura Gutman, Moses riuscì «a integrare edifici monumentali moderni nella vita quotidiana della città … un caso pressoché unico negli Stati Uniti del New Deal»

Una ricostruzione critica del profilo di Robert Moses

Per la storia sociale nel caso di Moses si tratta di distinguere la realtà da certa narrazione, nel caso delle sue realizzazioni natatorie e la loro presunta ispirazione razzista. Una di queste contraddizioni sarebbe nel duplice ruolo di massimo responsabile dei Parchi e dei Trasporti. Narra la leggenda urbana che Moses avesse realizzato passaggi troppo bassi della strada verso Jones Beach per farci passare i bus che trasportavano persone di colore. Ma l’evidenza è contraddittoria. Nelle grandi città degli Stati Uniti come New York, negli anni ’20 e ’30 tutte le politiche dei trasporti sono orientate all’uso montante dell’automobile. Ma la nostra questione base rimane se Moses per via della sua discriminazione verso neri e portoricani abbia intenzionalmente o meno compiuto quella incredibile omissione di atti di ufficio nel classificare Jones Beach di fatto «area solo bianca». Per gran parte del XX secolo New York è una città a forte predominanza bianca. Il parco statale di Jones Beach viene istituito negli anni ’20, quando gli afroamericani costituiscono circa il 3% della popolazione cittadina. Al 1945, i portoricani presenti in città ancora si calcolano in circa 13.000. All’inaugurazione di Jones Beach nel 1929, New York City è per oltre il 95% bianca — per capirci molo più bianca di quanto non sia lo stato del Maine oggi. In quell’epoca qualunque trasformazione urbana e territoriale non può essere che automaticamente rivola a una cultura e società bianca. Accade però che il vero e proprio odio concentrato verso la figura di Moses, ignorando la vera storia della città di New York finisca per dare troppo credito ad alcune voci raccolte e che avevano alimentato la critica del biografo Robert Caro in The Power Broker.

La prospettiva dell’amministrazione urbana

Se esaminiamo in prospettiva il quarantennio abbondante in cui Robert Moses esercita il proprio potere di amministratore notiamo che manca qualcosa: la rappresentanza. Mentre parallelamente invece cresce da parte dei cittadini sia la domanda di partecipazione che di diretto controllo dei servizi pubblici (tra cui quelli per la cultura e il tempo libero). Un articolo sul tema, Undermining Governmental Legitimacy: Failed Expectations of Community Accountability, sostiene che «tra gli obiettivi centrali della governance spicca lo stabilire e sviluppare i rapporti coi cittadini, i loro bisogni, i loro valori, le loro aspettative, e la forza di tali rapporti dipende dalla verificabile qualità del collegamento fra responsabilità amministrativa, fiducia, e autorità nell’esercizio del potere». E alla base di queste affermazioni sta una analisi di quanto fatto da Moses, specie nel massimo momento della sua gestione negli anni ’60. In modo molto simile altri notano come Moses «abbia messo a disposizione dei laboriosi cittadini molti dei servizi di trasporto e tempo libero di cui avevano enorme bisogno; ma al tempo stesso abbia vistosamente avocato a sé tuo il meccanismo decisionale che appartiene alle istituzioni democratiche».

Partecipazione pubblica come garanzia contro gli abusi di potere

È fuori questione che Robert Moses sapesse gestire benissimo qualunque cosa dal principio alla fine. Il suo elenco di trasformazioni cittadine, che comprendono tra l’altro le numerose strutture per il nuoto, è a dir poco ciclopico. Le numerose perplessità per questo o quell’aspetto sono altro rispetto al modo in cui il potere di decidere veniva concentrato, e le decisioni prese mentre cresceva invece l’esigenza della partecipazione dei cittadini. In un’epoca in cui qualsiasi progetto può essere mantenuto fermo per anni di assemblee pubbliche, revisioni di consigli e comitati, gruppi di rappresentanza, interessi, uffici tecnici, per non parlare dei tribunali e dei ricorsi legali, è difficile non provare qualche forma di nostalgia, ritengono alcuni, del metodo «decidiamo e costruiamo» tipico di Moses, notoriamente indifferente a certe forme di partecipazione e contestazione. Un metodo forse non democratico, e probabilmente neppure giusto ed equo. Ma occorre pur sempre qualcuno in grado di valutare il quadro generale e prendere certe decisioni per l’interesse generale. Probabilmente il vero problema di Moses era di non riuscire a vedere oltre quel quadro generale. Troppo sintonizzato sull’enormità di New York per avere la pazienza necessaria ad affrontare qualcosa di un po’ più piccolo.

Prima dell’insediamento del sindaco John V. Lindsay a New York nel 1965, il community engagement era comunque un fenomeno sporadico, e in particolare per quanto riguarda i gruppi etnici o le fasce più povere della popolazione. Prima dell’elezione di Lindsay, Robert Moses rappresentava uno dei poteri più importanti della città; è dopo il 1973, che Moses viene escluso dalle cariche decisionali insieme ad altri personaggi analoghi: «Il Sindaco Lindsay era molto propenso a favorire gli aspetti partecipativi nelle trasformazioni urbane. Dopo l’epoca di Moses in cui l’opinione pubblica veniva sostanzialmente ignorata, adesso si volevano coinvolgere le comunità nelle decisioni politico-amministrative».

Si deve aggiungere come «Moses prendeva spesso le proprie decisioni sulla base di analisi e conoscenze non rese disponibili all’opinione pubblica e manovrando i processi di deliberazione amministrativa». Detto in altre parole, Moses aveva sempre schivato il coinvolgimento pubblico sfruttando le proprie capacità tecnico-politiche e la propria reputazione di esperto nella gestione dei grandi progetti per New York City. In sintesi, man mano cresceva il suo potere, aumentava anche la relativa indifferenza rispetto a chi quel potere doveva subirlo. L’ambizione a svolgere un interesse pubblico era controbilanciata dall’opposta ambizione di farlo secondo metodi propri senza consultare nessuno, esagerando sino al punto di «punire» chi gli si opponeva.

Alcune conclusioni

Robert Moses fu sicuramente un capacissimo pubblico amministratore molto sintonizzato sul «pensare in grande» a una visione commisurata a molte aspettative degli abitanti di New York City. Secondo molti critici i suoi metodi erano certamente abbastanza singolari ma efficaci. D’altro canto Moses fu anche definito dittatoriale, avido di potere, vendicativo, in tutte le cariche occupate nella pubblica amministrazione. La sua biografia espone in modo assai chiaro entrambi questi aspetti. Da un lato l’innovatore della pubblica amministrazione locale su un arco di quarant’anni, in grado di esprimere e portare a termine enormi trasformazioni e progressi collettivi. Per contro man mano cresceva il suo potere crescevano anche l’indifferenza, l’arroganza, il disprezzo. Moses fu certamente una personalità complessa, sempre alla ricerca di affermazione e potere, sino a perderlo proprio per la totale impermeabilità alle critiche montanti.

da: International Journal of Aquatic Research and Education, giugno 2023; Titolo originale: Racist or Radical? The Strange Case of Robert Moses and the Building of New York City’s Aquatics Infrastructure – Traduzione di Fabrizio Bottini – Per i riferimenti bibliografici omessi rinvio ovviamente al testo originale dell’articolo scaricabile in Pdf

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