Abbiamo tutti un gran bisogno dei nostri concittadini (1961)

The Death and Life of Great American Cities, di Jane Jacobs, Random House

In una delle più memorabili caricature di Max Beerbohm, c’è George Bernard Shaw con la sua idea del mondo: il disegno mostra il celebre drammaturgo – con una espressione a metà tra l’imbronciato e il ghigno sarcastico – che guarda a testa in giù. In alcuni casi quel tipo di osservazioni sono gratificanti; in altri, indimenticabili. Comunque le cose vengono osservate da una prospettiva diversa, specie quando restituite in modo irriverente, linguaggio arguto, e un approccio da «non facciamo prigionieri» rispetto ai vari individuati cattivi, o buoni, del caso, tra strategie e tattiche. È utilizzando al meglio tutte queste sue capacità che Jane Jacobs riesce a concludere un impressionante tour de force di reinterpretazione dei problemi e bisogni della metropoli contemporanea.

Per il lettore occasionale ignaro di tutti quei problemi, attraversare il territorio della pianificazione regionale, del suburbio a bassa densità, della ricostruzione delle aree centrali, nuovo verde, piazze, strade, case popolari, moderna progettazione di quartieri attorno a spazi comuni per ridurre l’impatto del traffico, farlo seguendo economie di scala, e tanto altro ancora, significa capire che potremmo avere città migliori e più efficienti. Ma osservare quei progetti riempie Jane Jacobs (collaboratrice di Architectural Forum) solo di disgusto. Le grandi città, ragiona, sono piene di estranei. Abitanti ed estranei devono poter usare le vie in piena sicurezza. Ma quella sicurezza non potrà mai essere garantita dal controllo della polizia. Serve un complesso meccanismo sociale per arrivarci quasi automaticamente. I cui «attori pubblici» sono coloro che abitualmente controllano la via, negozianti, custodi delle portinerie, abitanti e passanti un po’ più consapevoli della media, intenti a controllare a varie ore della giornata ciò che succede. Cosa possibile, solo se esiste una variegata mescolanza di attività, dentro edifici diversi per epoca e caratteristiche.

L’idea di Jacobs è che le persone in quei quartieri tanto vivaci preferiscano abitarci anziché solo passarci. Giovani o anziani hanno bisogno di un ambiente del genere. E invece noi progettisti, ci rimprovera, non vogliamo capirlo, visto che continuiamo a proporre grandi centri civici, zone residenziali a bassa densità, complessi residenziali segregati per fasce di reddito. Tutti questi spazi, lamenta Jacobs, insieme producono quel tipo di centro città anonimo che attira grandi masse di traffico per poche ore, decadendo poi a zona morta e pericolosa. Peggio ancora, i nuovi edifici con affitti speculativi troppo elevati espellono tante attività considerate marginali, dal negozio o lavoratorio che intraprende i primi passi, all’esercizio un po’ esotico e colorato, piccoli bar e ristoranti, tutto ciò che può apparire eccentrico, bohème, intellettual: ma che secondo l’autrice aggiunge fascino interesse e vitalità a un’area.

Per rigenerare quartieri o «distugurizzare il tugurio» reinserendo anche zone degradate nel tessuto della città, Jacobs ci propone di fare cose che tanti esperti di settore consigliano invece di evitare: attirare molte attività diverse che saranno in grado di generare usi attivi e complessi dello spazio; ridurre le dimensioni degli isolati; mescolare di più edifici di dimensioni diverse, tipologie diverse, età e condizioni; sostenere la concentrazione delle persone. Molti tra i capitoli più interessanti di questa riflessione si caratterizzano per l’intelligenza di alcune idee di rivitalizzazione applicate a zone come Wall Street o Central Park dopo il calar del sole, usando come modello di riferimento il Greenwich Village dove l’Autrice abita. Altri esempi fuori da New York comprendono il North End di Boston, Georgetown a Washington, Rittenhouse Square a Philadelphia, «Back of the Yards» a Chicago, o Telegraph Hill a San Francisco.

Leggendo il libro si ricava la forte impressione di una sorta di nostalgia per un’epoca felice prima che scendessero in campo l’idea di Città Giardino o gli entusiasti dei grattacieli. Concetti, specie nelle forme spurie assunte nella pratica, a cui Jacobs attribuisce tanti errori delle nostre città. E la cosa apparentemente assurda è che queste criticabili idee e concetti esprimono la crescita di ricchezza delle famiglie sempre alla ricerca di più spazio per sé e i bambini. I progressisti che le hanno concepite, forse prevedendo la medesima fame di spazio, sono di fatto accusati di non aver compreso a fondo quel bisogno di stili di vita più complessi e sofisticati.

Che Jane Jacobs abbia ragione o torto su questo punto, è certamente vero che le risposte ai bisogni nelle città si sono rivelate inadeguate; e anche i progressisti stanno ripensando alle visibili reazioni negative a tale inadeguatezza. Il senso del libro, la sua importanza, è esattamente questa. Fonde le ragioni di uno scontento in una sorta di programma in grado di costituire una forte scossa. Poco importa se esattamente come i progressisti che critica, anche Jacobs mostra pochissima simpatia per chi vorrebbe abitare in modi diversi da lei; e poco importa anche se parecchio del suo programma (le procedure urbanistiche ad esempio) pare desunto direttamente dalle medesime idee e pratiche che critica; o se tante delle sue amate proposte, precise o più vaghe che siano, appaiono romantiche e «utopiche» quanto quelle che respinge. Lo stesso vale per ciò che nel libro viene consapevolmente schivato o evitato, la a volte un po’ ostentata distorsione della teoria, l’evidente preferenza per l’osservazione empirica di ciò che conferma le proprie tesi. In breve, salvo per quanto riguarda eventuali vittime tra i puristi accademici, poco conta quanto esista o meno il vero il falso o un «metodo scientifico». Come del resto accade quasi sempre nelle opere importanti.

Il libro di Jane Jacobs dovrebbe spingere gli autentici progressisti a impiegare il proprio zelo per l’urbanità e la grande città moderna. Inteso in questo senso, potrebbe imporsi come un equivalente del classico di Lewis Mumford, La Cultura delle Città. Con cui condivide certamente virtù e difetti. Non altrettanto corposo e comprensivo è certamente più brillante, ottimista, meno accademico ma più declamatorio. Lo stile è netto, efficace, pungente, coinvolgente; e come tanti suoi illustri predecessori il libro è ricco di passaggi davvero illuminanti, così come di eccessi di generalizzazione. Un grande libro, così come una grande persona, costituisce una svolta strategica nella storia, la cui grandezza consiste nell’esistere. Con tutti i suoi limiti e difetti, questo è il libro scritto da Jane Jacobs. Il lettore potrà essere d’accordo o vivacemente dichiararsi contro, ma pochi alla fine riusciranno a guardare le proprie vie e quartieri come prima, con la medesima sensibilità di prima. Dopo tutto è proprio la diffusa scarsa sensibilità, specie da parte di chi può decidere, ciò che funziona male nelle nostre città.

da: The New York Review of Books, 5 novembre 1961; Titolo originale: Neighbors are needed – Traduzione di Fabrizio Bottini

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