Il Palombaro Ciclista e altre leggende metropolitane

Milano Tangenziale Est foto F. Bottini

Ogni dieci anni più o meno, la città di Parigi prosciuga il Canale Saint-Martin. Oltre quattro chilometri che attraversano un bel pezzo di città sulla Rive Droite, originariamente concepito per ragioni igieniche, portando acqua pulita a una città infestata da colera e dissenteria. Ma nei suoi due secoli di esistenza, il canale ha svolto diverse – e opposte – funzioni. Una discarica, una enorme pattumiera liquida. Il prosciugamento periodico riserva quindi sempre qualche sorpresa. Via l’acqua, ed ecco comparire tutte le cose buttate o scivolate o scaricate furtivamente nelle migliaia di notti trascorse dall’ultima volta. Al prosciugamento del 2016, la folla si raduna sulle passerelle e sui ponti a guardare le squadre di pulizia al lavoro che avanzano nel fango tra i detriti. Ce ne è per tutti i gusti. Materassi, bauli e valigie, segnali stradali, coni spartitraffico. Una lava-asciugatrice, un manichino da sartoria, tavoli e sedie, vasche da bagno, water, vecchie radio, personal computer. Molti veicoli di vario tipo, nessuno pensato per navigare nell’acqua, estratti dal pantano. Carrozzine per bambini, carrelli della spesa, almeno una carrozzella per disabili e parecchi ciclomotori.

Oggi le vie che si affacciano sul canale nel Decimo Arrondissement, sono tra quelle più alla moda di Parigi, ricche di caffè e ristoranti. Ma di notte sembra tornare un po’ dell’atmosfera umida e malsana del passato, quando il quartiere era popolare e a dir poco disordinato, spesso usato come sfondo per qualche film noir o storie poliziesche. In quella narrativa pulp, dalle tenebre del canale Saint-Martin emergevano sempre segreti. Tutta la vicenda narrata da Georges Simenon in Maigret e il Corpo Senza Testa prende il via quando viene recuperato un corpo sotto il Quai de Valmy. Nessun resto umano nelle pulizie del canale 2016, ma in una chiusa su a nord si è comunque trovata una pistola, e più tardi negli inventari dei reperti è spuntato anche un fucile.

L’articolo più corrente sul fondo del canale – a parte bottiglie di vino vuote e telefonini – restano le biciclette. Nel 2007, Parigi aveva varato il programma di condivisione Vélib’, con 14.500 mezzi a noleggio in tutta la città. Man mano calava il livello delle acque nel canale svuotato, si iniziavano a vedere quegli scheletri di Vélib’ a decine, mezzi piantati nel fango del fondo. Tantissimi altri tipi di biciclette anche, di varie forme e colori ed epoche, qualcuna con l’aria di essere stata parecchio vandalizzata prima della sepoltura definitiva sott’acqua. Ruote piegate e contorte, telai senza ruote. O telai e ruote intatti ma manubri decapitati come il misterioso cadavere di Maigret.

Qualche bicicletta può anche essere caduta nel canale per caso. Ci sono parecchie situazioni in cui può capitare che un mezzo senza alcuna intenzione finisca in acqua. Ciclisti persi nel buio o disorientati dalla nebbia che sbandano sul percorso. Ubriachi che scivolano da un ponte. Ladri che scappano inseguiti dalla polizia e si buttano dentro pedalando. Chi è più fortunato o abile riesca anche a trascinarsi – a volte insieme alla bicicletta – sulla terraferma, ma succedono anche cose molto più tragiche. Basta un’occhiata agli archivi dei giornali per trovarci titoli cupi: «Ragazzo annegato nel canale ritrovato insieme alla sua bicicletta»; «Una donna caduta pedalando oltre il parapetto del ponte annega»; «Durante il blackout elettrico pedala lungo il canale e finisce annegato un operaio di Gloucester»; «Ciclista annega, ma come?». Qualche anima depressa pedala deliberatamente verso le profondità. Nell’autunno 2016, una trentottenne lascia una lettera di addio nell’appartamento di DeWitt, Stato di New York, dove abita, non lontano da Syracuse. Poi raggiunge un vicino parco dove pedala inoltrandosi nel lago con una mountain bike. Il corpo, ancora in sella alla bicicletta, sarà ritrovato una settimana più tardi.

Per le biciclette nel Canale Saint-Martin: pare di poter supporre ragionevolmente che lì dentro non ci siano finite né per incidente né per tragiche circostanze. Per chi è incline a scatti di teppismo – chi magari di passaggio è colto compulsivamente dal senso di transitorietà delle cose e dell’esistenza – una bicicletta lì da sola può costituire una tentazione irresistibile. La di ffusione di programmi come Vélib’ moltiplica la presenza di mezzi per le strade nelle città del mondo, che rappresentano una riserva di caccia per i vandali, visto che non appartengono neppure a qualcuno individuabile. L’introduzione delle bici senza postazione fissa, parcheggiate sul marciapiede anziché fissate alle rastrelliere, ha eliminato qualunque serio ostacolo a queste forme di auto-espressione, che vanno dal contorcimento di ruote o telai, strappo di cavi e via dicendo. Qualcuno decide di andare anche oltre con approccio più muscolare: solleva la bicicletta oltre una ringhiera contemplando il panorama di lampioni e fermate dell’autobus, e la scarica tra le fresche fronde dei rami degli alberi sottostanti come uno pterodattilo in cerca di nido.

Il lancio della bicicletta in acqua è una specialità sportiva, fonte di particolari soddisfazioni. Sulle clip filmate del social, compaiono questi praticanti nell’atto di farle rotolare giù da terrapieni fino a un lago, oltre i parapetti di cemento dei ponti, verso gorghi spumeggianti di rapide e cascate. C’è una clip in cui un adolescente ostenta davanti all’obiettivo una vecchia ciancicata BMX azzurra. «Mike, ecco la tua bici – dichiara – stava nel mio garage e non so che farmene. E così la butto nel laghetto dal trampolino dei tuffi. Spero tu non ti offenda». Poi il ragazzo prende la rincorsa, e la scaglia verso l’acqua rimbalzando su e giù dall’asse. Si sentono strilli e scoppi di risate in sottofondo mentre l’obiettivo inquadra l’affondamento, la ruota posteriore che pare esitare in superficie prima di andar giù con un piccolo mulinello: un delitto da cartoni animati. Mentirei se dicessi che non è abbastanza divertente.

Come ovvio, per molti divertente lo è sul serio. In certi casi diventa una specie di diffusissimo sport competitivo locale. Un signore inglese di Peterborough, Cambridgeshire, ricorda che negli anni ’60 i ragazzi del posto rubavano biciclette da usare per andarsene un po’ in giro a caso, concludendo la scappatella col rituale del lancio dentro il fiume Nene. Una pratica scoperta quando «Una imbarcazione si arenò sulla cima di una montagna sommersa di biciclette».

Ad Amsterdam, una volta le biciclette annegate erano tanto ammucchiate dentro i 165 canali della città, che strisciavano di continuo anche sul fondo piatto delle comuni imbarcazioni che ci si muovono. La soluzione venne individuata nel fietsen vissen: «pesca delle biciclette». Ai tempi che furono esisteva la figura dello spazzino semiprofessionista che vagava in barca a remi con un palo munito di gancio, a ripescare i rottami rivenduti poi come tali sul mercato. Negli anni ’60, l’ente di gestione dei corsi d’acqua di Amsterdam si assunse la responsabilità di questi ripescaggi. Oggi esiste un vero e proprio settore municipale municipale specializzato e dotato di imbarcazioni con verricello idraulico. Il problema non è più grave come appariva un tempo, ma si recuperano ancora oltre 15.000 biciclette ogni anno dal fondo dei canali. Uno spettacolo caratteristico di Amsterdam che non manca mai di attirare piccole folle: il braccio metallico che esce sgocciolante dall’acqua carico di ruote telai e manubri con cestino. Poi tutto viene caricato sulle chiatte e portato ai centri di di riciclaggio. Si racconta che parecchio del materiale ricompaia poi sotto forma di lattine di birra.

Ad Amsterdam, come a Parigi, nessuno può dire con certezza come e perché tante bici finiscano in acqua. I responsabili cittadini pensano ma abbastanza vagamente soprattutto a vandalismi e furti. Anche l’alcol ha la sua parte ed esiste una sorta di ecosistema all’opera: si recupera una bicicletta dal canale, la si ricicla in una lattina di birra, il cui contenuto viene ingurgitato da un frequentatore delle sponde, che tornandosene a casa da una notte di bisboccia intravede un’altra bici, e preso da irresistibile impulso la lancia nel canale. Lo scrittore Pete Jordan, nel suo affascinante libro su Amsterdam, In the City of Bikes, dedica parecchie pagine a questi lanci di mezzi dentro l’acqua, che colloca in parte anche dentro la tumultuosa storia politica locale. Negli anni ’30 i comunisti accusavano i fascisti di buttare le loro biciclette nel Prinsengracht, il «Canale del Principe»; durante l’occupazione nazista, i partigiani invitavano i cittadini a buttare le biciclette dentro i canali invece di farle confiscare dai militari. Jordan cita anche il racconto olandese del 1963, Fietsen naar der maan (In Bicicletta sulla Luna), dove il lancio in acqua viene descritto come forma elaborata di furto, in cui il ladro prima nasconde nelle profondità di notte la refurtiva, poi torna a ripescarla la mattina dopo per rivenderla sul mercato.

La situazione di Amsterdam forse si spiega meglio con qualche cifra. Si calcolano due milioni di biciclette in città e poco meno di cinquanta chilometri di canali complessivamente: è la logica a dirci che in qualche modo le due componenti debbano mescolarsi una all’altra. Quando un cittadino di Amsterdam vuole liberarsi di un vecchio rottame cosa c’è di meglio della comoda discarica dentro l’acqua? Il giornale Trouw definiva i canali di Amsterdam «quelle tradizionali pattumiere dentro cui trasportiamo in gita sulle barche i turisti». Ma non si tratta certo di un fenomeno soltanto olandese. Nel 2014, l’ufficio parchi di Tokyo notò la presenza di specie ittiche non locali nel laghetto al centro della zona verde di Inokashira, nell’area occidentale della città. Quei pesci, si pensava, erano finiti lì scaricati da qualcuno e causavano danno ambientale; l’ufficio decise di prosciugare il lago per eliminarli. Ma una volta tolta l’acqua, venne rinvenuta una diversa inusitata specie invasiva: decine e decine di biciclette. Grande sorpresa per molti, a Tokyo. Da tempo gli addetti alle pulizie e igiene urbana lamentavano il gran numero di biciclette abbandonate per le strade sui marciapiedi o nei parcheggi. Ma buttarle nell’acqua – ovvero nasconderle – era davvero un gesto impensabile. E quante altre biciclette stanno acquattate dentro le profondità oscure delle acque del mondo, tra pozze laghi e canali, nel Danubio, nel Gange, nel Nilo, nel Mississippi?

Ragionevolmente, parecchie, e in quantità crescenti visto il diffondersi dei programmi di bike-sharing. Nel primo anno di gestione Vélib’ la polizia di Parigi ha ripescato decine di quei mezzi dalla Senna. A Roma un operatore della condivisione si è ritirato dall’attività perché troppe biciclette finivano dentro il Tevere. «Troppe bici senza postazione fissa finiscono sott’acqua» lamentava il Boston Globe nel 2018, poco dopo l’attivazione dei programmi di condivisione in città e area metropolitana. Nel febbraio 2019, a New York, è ricomparso improvvisamente un mezzo Citi Bike che aveva evidentemente trascorso parecchio tempo dentro lo Hudson, agganciato regolarmente alla sua rastrelliera di Manhattan, Upper West Side. Il telaio incrostato di molluschi, i raggi ricoperti di alghe. Venne richiesto dal sito web Gothamist a un ecologo esperto di Hudson di stimare quanto tempo poteva aver trascorso sott’acqua la bicicletta. «A giudicare dai gusci delle conchiglie incrostati sul manubrio possiamo calcolare che questa Citi Bike sia rimasta dentro il fiume almeno dallo scorso agosto, forse da giugno» giudicava lo specialista.

Medesimo problema rilevato a Melbourne, a Hong Kong, a San Diego, Seattle, Malmö̈, e tante altre città. In Gran Bretagna, sono state recuperate miriadi di biciclette a noleggio dai canali di Londra e Manchester, e dai fiumi Tamigi, Cam, Avon e Tyne. Nel 2016, il Canal & River Trust, responsabile del controllo sui corsi d’acqua di Inghilterra e Galles, ha pubblicato delle sorprendenti riprese subacquee in cui dei pesci nuotavano serenamente in banchi su uno sfondo di ruote di bicicletta tra le alghe fluttuanti.

I casi più drammatici di lancio in acqua delle biciclette ci arrivano però dalla Cina. Tra il 2016 e il 2017, gli allora principali operatori bike-sharing del mondo, Ofo e Mobike, recuperavano migliaia dei propri mezzi senza postazione fissa dai fiumi. Un video ampiamente circolato mostrava un signore che sopra una frequentatissima passerella pedonale lanciava biciclette dentro il fiume Huangpu a Shanghai. Altre clip virali coglievano l’istante di altri momenti come la demolizione di biciclette da parte di bambini, o una donna anziana che le sfasciava a mazzate. Le bici in condivisione erano rubate per privarle degli accessori, e poi scaricate sotto le auto nei parcheggi, o dentro qualche cantiere di costruzioni, o incendiate. Vandalismi che avevano indotto delle riflessioni in Cina. «È abbastanza normale ascoltare qualcuno che descrive il bike-sharing come specchio mostruoso della società che ne evidenzia caratteri nascosti» scriveva il New York Times nel 2017. Forse alcune verità sui nostri tempi. Il signore filmato mentre lanciava biciclette a Shanghai era un migrante da Hong Kong, che al giornalista poi raccontava di averne distrutte altre a mazzate di Mobike. Diceva di essere infuriato con quell’operatore che violava la privacy degli utenti: «I sensori sui mezzi rilevano informazioni personali, dove andiamo per esempio».

In teoria, una attività di bike-sharing dovrebbe rendere una città più gradevole e accessibile, equa, sostenibile. Nella realtà molte di quelle operazioni sono pubblico-private, sostenute da banche internazionali il cui logo si legge anche sui parafanghi. Il comparto delle biciclette senza postazione fissa è dominato da compagnie che hanno invaso le strade e i marciapiedi di mezzi, anche prima che esistesse qualunque rete di controllo. La gran parte dei sistemi dockless funzionano su app molto standardizzate che non danno alcuna garanzia di privacy. Vengono raccolti dati personali e i mezzi sono dotati di GPS a collegamento wireless che seguono ogni spostamento a intervalli di pochi secondi. Una bicicletta che spia il ciclista: un vero ribaltamento logico per il mezzo che ai tempi eroici del XIX secolo si presentava promettendo una sconfinata prima inimmaginabile libertà personale.

In Cina, esistono oltre 70 compagnie startup di bike sharing senza postazione, sostenute da finanziamenti per oltre un miliardo di dollari di venture capital, e ciò ha significato milioni di mezzi scaricati nelle città fra il 2016 e il 2017. L’offerta annegava letteralmente la domanda e quelle biciclette finivano per ammucchiarsi. Nelle periferie di Pechino, Shanghai, Xiamen e altre metropoli, migliaia di mezzi, spesso intonsi, a riempire lotti inedificati, mucchi alti parecchi metri in mezzo ai quartieri. Posti soprannominati «cimiteri delle biciclette» che nelle immagini dei droni spesso finiscono per ricordare più dei campi di fiori, con quei colori brillanti giallo arancio o rosa sparsi su ettari di superficie, come tappeti sul territorio. Chi ha qualche memoria storica evocherà forse le possibili immagini di una antica archetipa bolla speculativa, quella della «invasione dei tulipani» nella repubblica olandese del XVII secolo.

Certo la bicicletta non è l’unico mezzo di trasporto che sia stato soggetto a cicli di grade diffusione e vandalismo. In anni recenti per esempio il fastidio dei cittadini pedoni contro i monopattini elettrici che scorazzano sui marciapiedi. Se ne racconta un po’ in tutto il mondo: a Los Angeles, monopattini ficcati dentro gabinetti pubblici, o sepolti sotto la sabbia, buttati nell’oceano; a Colonia, dei sommozzatori hanno scoperto centinaia di questi mezzi sul fondo del fiume Reno, che rilasciavano inquinanti dalle pile di alimentazione. La «scooter rage» ha indotto operatori come Bird o Lime a introdurre nuovi modelli concepiti per prevenire chi volesse tagliare cavi dei freni, rimuovere codici QR, o altri atti di sabotaggio.

Che si possono anche considerare delle specie di gesti di ribellione in una guerra più ampia: la battaglia mondiale per il diritto alla strada che ha raggiunto il massimo negli ultimi anni, quando le città ripensano il proprio rapporto con l’automobile, introducono infrastrutture ciclabili, adottano piani di bike sharing e altre iniziative per promuovere «micromobilità». Tra le innovazioni principali le e-bike – biciclette con motore elettrico – la cui incredibile popolarità fa pensare ad una vera e propri rivoluzione, che per la bicicletta ripete forse su scala maggiore quella del primissimo boom di fine ‘800. Soltanto in Cina, di biciclette elettriche ne circolano 300 milioni, e il recupero locale del settore bike-sharing dopo il crollo di alcuni anni fa si basa in gran parte sul passaggio all’elettrico delle flotte in condivisione.

Ma ecco ancora all’opera i sabotatori. A Peterborough, dove un tempo i monelli lanciavano l ebici rubate dentro il Nene, è stata sospesa l’attività di un operatore di e-bike in condivisione l’anno scorso, dopo che i vandali avevano provocato migliaia di sterline di danni ai mezzi, tra cui uno che interessava in un colpo solo 50 bici. Una ricerca del 2021 sul sistema globale di bike-sharing rileva «una crescita dei vandalismi e furti che potrebbe facilmente impedire la crescita del settore». In ogni caso, la bicicletta danneggiata – o incendiata o buttata in un fiume o ammucchiata insieme ad altre in una discarica – ci dice parecchio sul XXI secolo anche se si tratta di qualcosa dal significato non molto chiaro. Qualunque cosa ci riserbi il futuro, bisognerà contare i morti tra le biciclette.

Naturalmente di cimiteri delle bici ce ne sono sempre stati. Passeggiando per qualche desolata periferia industriale è facile incappare in un deposito di rottami, e guardando solo un po’ meglio distinguere biciclette e loro parti componenti, confuse dentro a cumuli di altri detriti. Di quei depositi di rottame ce ne è uno piuttosto grosso a un solo isolato dal mio appartamento di Brooklyn. Per tutto il giorno c’è quell’enorme ragno metallico che fischia e stride e stritola metallo, caricando e scaricando chiatte da carico dal vicino canale Gowanus. Il materiale viene depositato dentro forme e schiacciato poi in balle da oltre due quintali. Qualche volta ho notato parti di bicicletta dentro quelle balle rettangolari: telai ruote e altri dettagli, schiacciati come resti fossili. Parecchi anni fa, a quel deposito venne appioppata una multa da 85.000 dollari, quando il Settore Ambiente dello Stato di New York ha scoperto oltre 100 casi di «metal spillover», ovvero che si era lasciato cadere qualcosa dentro il canale. Magari anche il viscido Gowanus – così come il Canal Saint-Martin, o i pittoreschi grachten della vecchia Amsterdam – serba qualche tesoro di biciclette nascoste appena sotto il pelo dell’acqua.

Per quanto ne so dentro il canale potrebbe esserci anche una delle mie ex biciclette. Mi viene in mente che di tutte quelle che ho avuto negli ultimi vent’anni, l’unica di cui ho qualche traccia è quella nera che sta ora legata a un lampione sotto casa. Naturalmente, nulla so di quelle che mi sono state rubate. Ma neppure ricordo di averne mai data via una, o venduta; e nemmeno buttata in un cassonetto. Sono sicuro di averne lasciate una o due nelle cantine di appartamenti da cui ho traslocato. Le altre chissà. Dove finiscono le biciclette da morte? Si tratta di un bene durevole, ma anche di una cosa facile di cui liberarsi, se non si bada troppo a comportamenti antisociali. Nel nostro mondo ricco e consumista una bicicletta si acquista con poco, e se si rompe, o se ne ha una nuova, un proprietario trova abbastanza normale abbandonarla da qualche parte, a disposizione di chi volesse portarsela via, inclusa la nettezza urbana.

Poi ci sono quelle biciclette buttate nei posti più reconditi, dove finiscono per degradarsi col tempo e le intemperie. Nelle città si vedono abbandonate ma chiuse a chiave, con catene arrugginite o lucchetti di sicurezza assicurate a pali o recinzioni. In genere passano avvoltoi a prelevare pezzi utili, una ruota, tutte e due, il manubrio. Un tristissimo spettacolo quello dei rottami mezzi saccheggiati. Catene penzolanti da brandelli metallici, schegge catarifrangenti sparse sull’asfalto, raggi e cavi dei freni che spuntano in fasci simili alle capigliature metalliche di qualche personaggio dei cartoni animati. Mi viene in mente quella canzone del grande Tom Waits sulle Biciclette Rotte: «Biciclette rotte / vecchie catene contorte / manubri arrugginiti / fuori sotto la pioggia… / come scheletri / buttati tra le erbacce». Metafore – la canzone è su un amore finito – che però come descrizione funzionano benissimo. Se le biciclette rotte tra le erbacce sono come tutte le altre, fatte di acciaio e leghe di alluminio, in qualche modo arrivano dal sottosuolo, dalle rocce scavate in miniera. E adesso pezzettino per pezzettino sottoterra provano a tornarci: le scaglie ruggini del ferro o biancastre dell’alluminio ossidato soffiate via dal vento o dilavate da un temporale.

Qualche bicicletta abbandonata può vivere una seconda esistenza. Il cortile dei rottami vicino a casa spedisce le sue balle metalliche al riciclaggio. Lì si dividono e ripuliscono i materiali, poi infilati nella fornace e sciolti, poi ancora purificati. Alla fine gettati o laminati e rimessi in circolazione. Acciaio e alluminio sono tra i più riciclati materiali del pianeta. Come succede a Amsterdam, un telaio può ricomparire come lattina per una bibita, o confezione alimentare di altro tipo. Si usano acciaio e alluminio riciclati anche per l’arredo urbano, o la costruzione di case. Per non parlare di automobili, aeroplani, e si: anche di biciclette.

Il mistico che si nasconde in me ama immaginarsi città fatte di vecchie biciclette: ciclisti che pedalano su mezzi reincarnazione di altri abbandonati in passato, passano sotto grattacieli costruiti coi materiali riciclati da altri telai, mentre nel cielo sfrecciano aerei composti nello stesso modo. Il riciclaggio dei metalli può danneggiare l’ambiente, ma anche alcuni prodotti collaterali si possono riciclare. Le scorie dallo scioglimento di alluminio vengono usate mescolate insieme all’asfalto o al cemento. In alcuni tratti di strada quindi anche la superficie su cui spostiamo è in un certo senso un cimitero delle biciclette, e chi pedala per una escursione domenicale lo fa sulle ossa dei defunti.

da: The Guardian, 28 luglio 2022 – Titolo originale: Bicycle graveyards: why do so many bikes end up underwater? Traduzione di Fabrizio Bottini

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