L’auto senza pilota ha un futuro prossimo o no?

Immaginiamoci di dover condurre una ricerca sociologica e di mercato su un ideale campione di automobilisti, con domande sull’inquinamento, i parcheggi, il tempo perso nel traffico, l’accettabilità o meno di alcuni limiti al traffico, da quelli di velocità alle zone pedonali e via dicendo. Ma poi immaginiamoci anche che quel nostro campione di automobilisti si collochi culturalmente dalle parti della prima Guerra Mondiale, in una area metropolitana di tipo industriale come ne stanno esplodendo in tutto il mondo a quell’epoca, con le aspirazioni e sensibilità conseguenti. Che idee avrà mai, questo automobilista tipo, di cosa è il «problema dei parcheggi» così come lo conosciamo noi dopo un secolo di soluzioni tecnologiche, standard urbanistici, discussioni infinite sull’utilità o meno delle piazzole a livello terra, o in silo sovrapposte, o sottoterra, o dentro o fuori dai complessi edilizi? Certo potrà provare a proiettare abbastanza consapevolmente i suoi problemi quotidiani di guidatore di veicolo nella città ancora invasa dai carri a trazione animale, in qualche scenario futuro che gli viene prospettato dagli intervistatori, ma nulla sa cosa attende il destino del suo guidare, della esperienza di farlo, delle risposte pubblico-private che si ammucchieranno nelle generazioni successive. In sostanza quella intervista a campione più che delineare scenari futuri può rappresentare una fotografia dell’oggi, delle aspirazioni attuali di una certa parte del mercato (gli utenti-clienti), e condizionare da par suo le azioni dell’offerta, gli investimenti, le risposte dei decisori pubblici.

Il mercato? Quale?

Perché nonostante spesso facciano di tutto per indurci a dimenticarlo, anche la virtuosa dinamica della pura interazione tra domanda e offerta, specie in un campo complesso (intricato è dir poco) come quello della mobilità urbana, si compone al minimo alla pari tra le tre componenti dell’offerta di innovazioni, dei destinatari più o meno consapevoli e desiderosi di quelle innovazioni, del soggetto legislativo-normativo che cerca di prevedere ed evitare prevedibili problemi. Oggi la questione detta in breve «Auto senza pilota» appare abbastanza equilibrata su quel versante della tripartizione. C’è da un lato la tecnologia di guida computerizzata applicata al tradizionale veicolo individuale-familiare, dall’altro l’attesa da parte di tanti soggetti-segmenti del mercato in sostanza già pronti col portafoglio virtuale in mano, e dall’altro ancora il regolamentatore pubblico che mette i paletti per la sicurezza stradale e le responsabilità giuridiche. Finisce tutto lì? Ma nemmeno comincia, e lo sanno molto bene già i produttori, le case automobilistiche che pure hanno (spesso un po’ contro voglia) tanto investito in quella direzione. Perché si profila una rivoluzione innanzitutto interna al settore: non più fabbriche di automobili da vendere ai piloti, proprio perché i piloti non ci sono più, sostituiti dall’autopilota intrinseco al veicolo. Un costruttore di auto senza pilota in pratica ha già cancellato lo sbocco di mercato del suo prodotto, se lo guardiamo da una prospettiva tradizionale. E si capisce la riluttanza degli enormi conglomerati di interessi (anche sindacali-occupazionali e politici, naturalmente) a iniziare sul serio a marciare in quella direzione.

Primi passi sperimentali

Ci hanno provato abbastanza goffamente in tanti, a ipotizzare «scenari futuro dell’auto senza pilota» in stile cartone dei Pronipoti, dove non cambiava nulla tranne appunto il veicolo che si muove da solo, da casa all’ufficio al supermercato alla scuola. E invece cambiava molto altro: spariva la proprietà familiare (perché la macchina diventa un oggetto assai costoso, perché diventa molto più comodo delegare questa proprietà coi suoi oneri ad altri); spariva tutta l’infinita rete degli indispensabili servizi materiali sottesi, dalla forza motrice, alle manutenzioni, e anche dei servizi immateriali, assicurativi, burocratici, di registro; spariva di fatto anche la città sotto le ruote di questi veicoli, visto che le infrastrutture di flusso e sosta progettate in un secolo di connubio umano-meccanico diventavano di colpo assurde come un tappeto persiano antico sul fondo di una piscina olimpionica. E tutto questo senza neppure citare il massiccio spostamento della domanda di mercato verso cose esterne anche a qualunque versione dell’auto: dalla mobilità dolce e assistita resa possibile e ovvia da una diversa organizzazione urbana, a quella aerea su cui si stanno sviluppando tanti altri investimenti proprio nel parallelo campo driverless. E con tutte queste insondabili varianti in campo, e tante tante tante altre, che ce ne facciamo di una pur sistematica scientifica disciplinarmente legittimata indagine sociologica su un caso urbano particolare? Ce ne facciamo esattamente tanto quanto le interviste agli automobilisti del 1910 e dintorni sul problema del parcheggio al centro commerciale la vigilia di Natale 1954. Ovvero proviamo nel nostro piccolo a scandagliare il mercato, che è una azione utile come un’altra.

Riferimenti:
John Kellet, Raul Barreto, Anton Van Den Hengel, Nik Vogiatzis, How Might Autonomous Vehicles Impact the City? The Case of Commuting to Central Adelaide, Urban Policy and Research, ottobre 2019
Immagine di copertina: screenshot da Youtube, «Why Don’t We Have Self-driving Cars Yet?» 

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