Borgo Vione: immerso nel verde, e nella paranoia

Campagna lombarda, una cascina in disuso, e un cantiere aperto. Sembrerebbe l’ennesima ristrutturazione-riuso, magari discutibile, invece è molto peggio …

Non sono un esperto di thriller, e quindi non saprei se la tecnica ha un nome preciso: c’è un particolare stridente che compare solo un attimo, poi la narrazione-scena prosegue. Poi magari la macchina da presa torna indietro, o il racconto si riavvolge su sé stesso per infilarsi giù per le tonalità tetre che caratterizzano il genere. A Vione mi è successa una cosa del genere.

Il nome lo conoscevo esattamente nello stesso modo in cui lo conoscono i frequentatori di eddyburg.it a cui è capitato di leggere l’accorata descrizione dell’architetto Daniele Garnerone, «Vione, monumento perduto del paesaggio agrario» (2008 vedi tag Vione a piè di pagina). Mozziconi di edifici e pilastri, qualche ala ancora integra, mattoni antichi che spuntano dai campi e con la grande campitura agricola si integrano. O meglio si integravano finché quella campitura agricola aveva senso produttivo: adesso sono lì a fare un po’ di poesia al tramonto, quando dagli svincoli delle superstrade si imbocca qualche scorciatoia, o la nuova lottizzazione immersa nel verde non è ancora servita dalla strada adeguata, e tocca adattarsi alla poetica ma semi impraticabile ex poderale. 

Appunto il nome, come nei thriller, è la prima cosa che mi è scivolata veloce davanti agli occhi, scritta non nitidissima illuminata un istante dai fari, prima che lo sguardo tornasse attento sui bordi della strettissima strada. È tornato quel nome, qualche tempo più tardi, a fari spenti in pieno sole e con un po’ più di calma. Il complesso abbandonato si trova in una posizione particolare: su un lato i campi aperti, fino allo skyline orrendo-metropolitano dei baracconi cementizi di Pieve Emanuele; sull’altro solo a qualche centinaio di metri i ponticelli pedonali berlusconiani di Milano 3, con le classiche dune erbose artificiali che isolano gli edifici dalla strada e viceversa. Salta subito all’occhio per contrasto, invece, come l’antico complesso agricolo non sfugga affatto a un rapporto diretto con lo spazio circostante, che è la sua ragione di vita, quello che gli dà da lavorare e mangiare.

Ma adesso basta, silenzio, vuoto. Segni di cantiere, una piccola variante stradale che allontana il traffico di passaggio dalla recinzione della cascina, e cartelli coi nomi di un costruttore, striscione appeso in fondo a un inopinato slargo di ghiaia, con un sito internet dedicato. 
Ed è al sito internet, che si fa la scoperta: altro che ristrutturazione, magari agriturismo, centro congressi dove non si sa mai cosa raccontare ecc. No, lì si sta preparando il morbido nido per il paranoico del terzo millennio. La promozione parla chiaro.

La città non è più quella di una volta, dove si girava tranquilli, senza il rumore, l’inquinamento, «e soprattutto troppe persone con origini ed abitudini diverse». Quindi il nostro uomo bianco doc, come in certi romanzetti di fantascienza pulp dozzinale, trascina squaw e cuccioli via dalla babilonica decadente metropoli, a riscoprire i veri valori dello «spirito di rispetto e solidarietà» che insomma tutte queste persone di origini e abitudini diverse non hanno, diciamocelo! 

Citazionismi a parte, l’immagine che esce dal sito della promozione immobiliare è quella di una gated community per paranoici milanesotti coi soldi, ben oltre la logica piuttosto chiusa ma ancora relativamente urbana delle prime cittadelle berlusconiane anni ’70. Omogeneità sociale, dichiarato disprezzo per il casino che si è lasciato alle spalle (ma che continua a mungere per gonfiarsi il conto in banca of course). Dalle ex risaie spunta la sua Alamo nazional-elitaria, dove il silenzio è interrotto solo dalle «risate dei bambini che giocano in piena autonomia, ma costantemente sotto controllo». E soprattutto, pare di intuire, senza il rischio di mescolarsi con certa gente dal colore della pelle ambiguo. In perfetto stile ambientalista valligiano destrorso, non mancano i riferimenti spengleriani all’alimentazione biologica di produzione locale, «a disposizione degli abitanti del borgo» che così scimmiottano anche in questo una specie di dominio feudale sulla campagna. 

Giudizio critico: questo non è un ritorno alla campagna, ma l’ululato di gente che conto in banca a parte il marxiano (direi addirittura marziano) idiotismo della vita rustica non se l’è mai scrollato di dosso. E adesso lo sbandiera pure su internet spacciandolo come nuova filosofia di vita. Ma non c’è qualche passaggio, che so, della Convenzione di Ginevra, che proibisce di scrivere certe coglionate? E soprattutto di promuovere ospedali psichiatrici per pazienti volontari dopo la legge Basaglia? 

Per chi volesse qualche particolare in più e aggiornato: Giorgio Ghiglione, Com’è vivere in una gated community, Vice.com maggio 2016

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