Fauna urbana e relative patologie (mentali)

La borrelliosi, o malattia di Lyme dalla cittadina del Connecticut in cui fu rilevata per la prima volta negli anni ’70, si manifesta inizialmente con un eritema cutaneo di piccole dimensioni, che poi si estende gradualmente a ricoprire ampie superfici. All’eritema si accompagnano anche spossatezza, rigidità, febbre, mal di testa, a cui seguono, se non si interviene adeguatamente, gonfiori delle articolazioni, complicazioni neurologiche, disturbi cardiaci, artrite cronica, e tante altre cose piuttosto tremende. Causa della malattia è il batterio Borrelia burgdorferi, e all’origine della trasmissione c’è la puntura di una zecca, del tipo che infesta particolarmente i branchi di cervi. Secondo la manualistica corrente (riportata anche dalla scheda su Wikipedia) i luoghi nei quali è più facile essere infettati sono le zone montane e boscose, dove si va a fare escursioni, arrampicate, camping all’aperto immersi nella natura. Questo fino a prima che fossero pubblicati i risultati di una ricerca pluriennale della Binghamton University su un vasto territorio campione di circoscrizioni ambientalmente molto differenziate. Come spiega il responsabile del progetto, l’Accademico delle Scienze prof. Ralph M. Garruto, quella faccenda dei boschi e pascoli è meglio dimenticarsela, la trasmissione avviene soprattutto: «Dove ci sono più persone, più traffico, e si verificano di fatto più punture infette, non certo quando si sta nei grandi spazi montani con uno zaino in spalla».

Lasciando ovviamente che la ricerca faccia il suo corso, le dovute verifiche e tutto il resto, non ci vuol molto però a sottolineare come si tratti, ancora una volta, di uno degli innumerevoli segnali che qualcosa non funziona più, nel nostro ideale articolare un ipotetico «dualismo città-campagna», specie nelle forme che toccano non soltanto l’immaginario corrente, ma addirittura alcune forme istituzionalizzate di governo, programmazione, servizi sociali. Qui in Italia ricordiamo un po’ tutti anche quella raccapricciante fotografia di un lupo scuoiato e minacciosamente appeso a un palo stradale insieme ad una scritta che invita a «prevenire il problema». In modi analoghi a quanto proposto (e a volte accettato da autorità irresponsabili) in certe aree suburbane, dove per «prevenire» l’invasione di alcune specie si consente la caccia con armi non da fuoco, archi e balestre, anche tra le abitazioni e nei giardini, magari difendendo col sangue altrui le petunie della Zia Pina dal terribile ungulato predatore di tenere succose foglioline ornamentali. Pur in forme estreme, queste manifestazioni altro non sono se non un prodotto di certo strabismo, incapace di cogliere l’autentico senso di quello che con qualche superficialità si chiama «urbanizzazione planetaria». E che come pure dovrebbe indicare un comune buon senso e spirito di sopravvivenza, non va immaginata come edificazione e asfaltatura dell’intera crosta terrestre.

Ma nemmeno, come fanno in tanti, in troppi, pensare di costruirsi una realtà alternativa guardando a un passato ideale, quando la città (e l’urbanità) finiva a ridosso delle mura o sui margini di una circonvallazione, lasciando spazio al cosiddetto contado, o natura selvaggia, insomma alla selva oscura dove cambiano le regole, o dove di regole non ce n’è affatto. La vita urbana si è allargata da tempo ben oltre le superfici impermeabilizzate e l’ombra delle ciminiere, e secondo un flusso uguale e contrario anche la natura si è infiltrata nelle infinite nicchie messe a disposizione dalla città. Continuare a pensare a due universi così distinti e quasi incomunicanti, da trattare l’uno in un modo e l’altro a sé, pare non solo sbagliato, ma molto molto controproducente, come chi scopa la polvere sotto il tappeto o nasconde le vittime dei suoi efferati delitti seppellendole in giardino. Città e natura devono convivere, non come avveniva in passato l’una accanto all’altra, ma una dentro l’altra, cercando reciprocamente equilibri diversi. Certo senza immaginare branchi di lupi che, come nelle scene di un racconto di Jack London ubriaco, scorazzano tra i turisti hipster di qualche replica High Line, magari sbocconcellandone un paio perché bisogna pur campare. Ma di sicuro, nemmeno trincerandosi dentro qualche caserma griffata del tipo che certi architetti hanno imparato a chiamare chissà perché riqualificazione urbana. Anche lì potrebbe aspettarci una zecca con la malattia di Lyme, se non impariamo a fare urbanistica preventiva seriamente.

L’articolo è stato pubblicato nell’aprile 2017 con pochissimi aggiustamenti nelle Opinioni degli Opinionisti di Eddyburg – Qui su La Città Conquistatrice anche qualche nota in più, ad esempio, a proposito di Bio-diversità Urbana

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