Il primo dibattito internazionale sull’urbanistica (1916)

Il diffuso interesse per la pianificazione urbana del giorno d’oggi in Europa e America indica chiaramente quanta sensibilità esista sul tema, e non solo tra chi abita nei centri maggiori, là dove in genere si realizzano i più grandi imponenti e costosi progetti di trasformazione, ma anche chi vive in cittadine minori o addirittura villaggi vorrebbe essere più informato sull’argomento, dedicare tempo ed energie allo studio dei modi per rendere le proprie comunità luoghi più piacevoli e interessanti. Congressi e mostre molto visitati sul tema si tengono tra America ed Europa, si pubblicano a ritmo serrato libri e articoli di rivista sull’argomento, oggi c’è un giornale interamente dedicato al tema, Town Planning, tiene riunioni annuali la nostra National Conference on City Planning of the United States, a far incontrare numerosi ingegneri, architetti, paesaggisti, che tutti si potrebbero definire urbanisti professionisti, insieme a quei funzionari e amministratori che hanno manifestato interesse all’argomento, e di recente il British Town Planning Institute ha organizzato a Londra parecchi incontri e discussioni.

Sempre a Londra nel 1910 si tenne la grande conferenza internazionale sull’urbanistica, insieme ad altre di taglio più locale, da Berlino a Lipsia e così via. Al Congresso delle Città di Ghent del 1913, si dedicò molto spazio all’argomento, e la speciale mostra organizzata dal Professor Patrick Geddes di Edimburgo (materiali poi andati perduti con l’affondamento nel 1914 della nave Emden che li stava trasportando in India) ne testimoniava eloquentemente, soffermandosi soprattutto sugli aspetti sociologici. Un’altra interessante mostra si tenne a New York alla fine del 1913, con molti più materiali di quanti ne consentisse lo spazio disponibile. Anche mettendo in conto tutti questi incontri e discussioni, e tutto quanto è stato scritto a proposito, sembra permanere comunque una notevole incertezza su cosa significhi urbanistica o progettazione urbana. Alcuni la considerano soprattutto l’ideazione di effetti spettacolari con gruppi di edifici o complessi monumentali, spazi aperti, apertura di ampi viali o allargamento delle vie esistenti, riorganizzazione di infrastrutture di trasporto e stazioni, in sintesi la costruzione o ricostruzione di città e metropoli. Urbanistica così sarebbe la correzione degli errori e difetti nella costruzione della città, anziché un lavoro più fondamentale che ha come oggetto centrale quello di prevenirli, quegli errori e difetti. Cos’è quindi l’urbanistica?

Ne sono state scritte numerose definizioni, brevi o lunghe, alcune a sottolinearne il lato architettonico ed estetico, altre gli aspetti più sociali. Poche ne qualificano però il versante più propriamente tecnico. Mr. George McAneny, già Presidente municipio di Manhattan e del Board of Aldermen di New York, afferma: «Urbanistica significa semplicemente prepararsi al futuro sviluppo della città. Orientare nelle direzioni più adeguate gli impulsi sociali verso una vita diversa. Osservata superficialmente può apparire solo legata agli aspetti fisici, come il tracciamento di strade, la realizzazione di parchi, la costruzione di linee di trasporto rapide. Ma il suo significato è di gran lunga più profondo, un piano urbano adeguato può influenzare potentemente lo sviluppo sociale e culturale della popolazione. È la solida base su cui poggia una comunità serena e soddisfatta».

Secondo Charles Mulford Robinson: «Urbanistica è perseguire l’efficienza adattando le varie parti della città alle varie funzioni. Adattare significa anche lavorare sull’aspetto esteriore perché la città serve la vita, è una casa e un luogo di lavoro, ha aspetti fisici, sociali, commerciali, industriali, poi la stessa efficienza economica vuol dire certamente qualcosa di più che non vivere per far soldi».

Arnold W. Brunner afferma: «Principio base dell’urbanistica è aumentare l’efficienza della città come luogo di lavoro. Nessun uomo d’affari preveggente penserebbe mai di realizzare un impianto senza prevederne un eventuale ampliamento futuro o trasformazioni simili, mentre nella costruzione di una città, che rappresenta la nostra opera più complessa e importante, spesso si procede a casaccio, senza prevedere il cambiamento e la crescita. Ne risultano la confusione e la congestione che tanto bene tutti conosciamo».

J. P. Hynes ci propone questa definizione: «Urbanistica vuol dire anticipare lo sviluppo della città e provvedere in proposito, da un punto di vista legislativo, sociale, economico, prima che il costi per rispondere adeguatamente alla domanda della popolazione diventino proibitivi. Quel che succede quando non lo si fa è ben esemplificato dal traffico e dal sovraffollamento, dall’insufficienza dei servizi pubblici, dall’assenza di risorse finanziarie, tutto dovuto all’assenza di programmazione».

George B. Ford afferma quanto segue: «Chiamiamo urbanistica la scienza e l’arte di realizzare le trasformazioni pratiche generali di città e cittadine. Previene il ripetersi nella formazione dei nuovi quartieri degli errori compiuti in quelli più vecchi. Consente di sfruttare ciò che di buono è stato compiuto nelle altre esperienze. Stabilisce la maggiore o minore urgenza di rispondere ad alcune necessità, e di farlo secondo un programma articolato precisamente per fasi. Inoltre focalizzandosi su alcuni aspetti ne garantisce risultati concreti».

Vorrei concludere con una definizione mia che uso molto di frequente, e che ha il merito della brevità: urbanistica è semplicemente esercizio di preveggenza per promuovere un ordinato sviluppo della città e del suo circondario secondo criteri razionali con riguardo a salute, bellezza ed efficienza, e con attenzione al progresso commerciale e industriale. Là dove gli abitanti di qualunque paese in genere tendono a considerare le proprie istituzioni e abitudini superiori a quelle di altri, e a manifestare in qualche modo intolleranza, pare esserci un atteggiamento del tutto particolare riguardo invece alle città straniere e alla loro urbanistica. Per esempio gli inglesi ammirano molto quegli ampi viali e i complessi edilizi delle città tedesche, mentre i tedeschi restano affascinati dai villaggi giardino realizzati dagli inglesi accanto ai propri impianti industriali, anche se nessuno ha mai costruito case migliori per artigiani, e organizzate più gradevolmente, di quanto non accada nelle colonie della Krupp a Essen. Chi scrive di urbanistica in America tende curiosamente a lodare in modo spropositato l’urbanistica del Vecchio Continente, paragonandola di continuo con quella delle proprie città considerata inferiore. Paragoni negativi certo spesso giustificati, e pure sono anche state fatte cose ammirevoli nelle città degli Stati Uniti.

Che questa tendenza sia da attribuire a una sorta di modestia nazionale, che spinge il popolo di un paese ad ammirare e lodare ciò che viene fatto in un altro? Forse no, dato che la modestia nazionale è qualità rara, che non si manifesta quasi mai. Questo atteggiamento parrebbe piuttosto dovuto alla disposizione quasi universale ad essere attratti, ad ammirare spontaneamente tutto ciò che ci appare nuovo, almeno finché non arriva ad infrangere decisamente certi criteri e costumi profondamente radicati e divenuti abitudine. Quando nelle città americane si costruivano i primi edifici sviluppati in altezza ne parlavamo come di mostruosità. Gli architetti, con l’eccezione di chi aveva la fortuna di essere incaricato di qualcuno di quei progetti, si mostravano particolarmente indignati di veder così violate le più sacre tradizioni estetiche. Man mano quei progetti miglioravano di qualità e bellezza, gli architetti restavano comunque molto critici, e fu soltanto quando dall’estero si iniziò a notare quella bellezza, che noi notammo di aver prodotto qualcosa di ammirevole. Il fatto che realizzare edifici di venti, trenta, quaranta piani lungo vie di larghezza normale, abbia avuto gravi effetti deleteri su traffico e altri aspetti, come luce e aria, oltre a sconvolgere i valori dei suoli urbani, appare oggi assai evidente da New York e altre città, che oggi combattono con quei problemi di controllo di altezze, masse, composizione, e di cui tratteremo oltre. Gli edifici alti in sé, il loro aspetto, non pare condannabile. Un noto architetto ha elencato tre punti a loro favore: la bellezza nel contesto, la caratteristica estetica particolare nazionale, l’essere divenuti espressione artistica di una spinta commerciale.

Il Professor Patrick Abercrombie, sulle pagine della Town Planning Review, propone una serie di interessanti commenti sulle realizzazioni e obiettivi dell’urbanistica nei vari Paesi, di cui vale la pena riassumere. La Svezia ha approvato quella che forse è la prima legge organica urbanistica, basata sull’obbligo per ogni città di predisporre un proprio piano. I risultati della sua applicazione possono essere soggetti a critiche, come quella secondo cui l’insistere su viali troppo larghi ha prodotto schemi stradali monotoni, e in qualche caso sovrapposti alle partii antiche più irregolari delle città. La Germania ci offre forse i risultati più moderni rispetto ad altre nazioni, eppure se dovessimo giudicare in base alle leggi, le città tedesche sono dotate di poteri molto limitati: ma nel paese l’urbanistica sta nelle tradizioni, nessuno ne mette in dubbio l’utilità. Tra i risultati di maggiore rilievo spiccano: lo Zoning, che ha contenuto la realizzazione di case d’affitto troppo alte; la pratica di convertire i tracciati delle antiche fortificazioni in strade di circonvallazione, come fatto a Brema e Colonia, ma vistosamente mancato a Berlino; l’attenta conservazione dei centri storici come a Francoforte e Norimberga; l’acquisizione di ampie superfici di terreni extraurbani, che a Strasburgo si calcolano nell’equivalente di cinque metri quadri per abitante, a Ulm dell’80% dell’area totale della città, e suburbi, a Berlino in tre volte la superficie urbana. La «Lex Adickes» conferisce alle autorità municipali il potere di risuddividere terreni che, se lasciati nell’assetto originario, sarebbero praticamente inutili per comporre un sistema di strade, e di organizzarli poi in porzioni adeguate. La legge, che affronta una difficoltà rilevata in tanti altri Paesi, fu introdotta da un sindaco, di cui porta il nome.

L’Austria si può dire sostanzialmente tedesca quando a soluzione di problemi urbanistici, ma il caso della Capitale Vienna fa storia a sé. La Ringstrasse, lungo le ex fortificazioni interne, è una delle vie più mirabili al mondo. È stato realizzato un secondo anello lungo le mura esterne,a cui segue più oltre una fascia verde e un’altra di colline boscose. La Francia ha dedicato più attenzione a realizzare materialmente le proprie città, che non alla loro organizzazione, badando ad aspetti architettonici e monumentali, meno a quelli pittoreschi. Nessuna città possiede un sistema viario di espansione migliore di quello di Parigi, anche se parecchi di quei boulevards furono originariamente concepiti come percorsi privati della nobiltà. Forse tra le più notevoli realizzazioni urbanistiche l’Avenue de l’Opera col suo spettacolo di arredi. Alla programmazione del traffico la Francia ha inoltre dedicato molti studi. L’Inghilterra si può considerare piuttosto indietro rispetto a ciò che chiamiamo urbanistica moderna, specie per gli aspetti monumentali. Praticamente nessun importante edifico concepito con una collocazione adeguatamente grandiosa in tempi recenti, mentre si nota l’assenza di provvedimenti all’altezza dei problemi del traffico, ma la casa privata religiosamente protetta per generazioni rappresenta lo spirito motore di un decennio di urbanistica.

In Belgio la forte individualità dei singoli centri, Bruxelles, Anversa, Ghent e Bruges, è notevole. Recenti piani di trasformazione per Bruxelles riprendono comunque una ispirazione da Parigi. L’Italia ha in qualche modo mantenuto il passo in urbanistica e leggi relative. Le città italiane hanno un potere di esproprio giudicato da qualcuno addirittura eccessivo, utilizzato molto saggiamente per realizzare opere pubbliche. Nelle città sudamericane di Rio de Janeiro e Buenos Aires si realizzano alcuni ambiziosi progetti, tra cui spiccano le aperture di viali e strade panoramiche, tali da rendere queste città tra le più belle del mondo. In America del nord spiccano tre caratteri dell’urbanistica: in primo luogo la devozione al sistema a griglia stradale ortogonale, descritto da qualcuno come «un incubo tecnico che copre tutto di grossi quadrati indipendentemente dal paesaggio naturale e dislivelli, e che fa rimpiangere i tempi in cui non c’era alcuna pianificazione»; in secondo luogo, il gran numero di progetti monumentali messi in campo di recente, molti dei quali davvero belli e imponenti, accompagnati da riusciti interventi sul traffico; terzo, l’approccio scientifico agli spazi per il tempo libero con notevoli avanzamenti nelle città americane.

Se pare interessante notare i caratteri dell’urbanistica nei vari Paesi, così come interpretata da studiosi del settore, non si deve dimenticare che i principi fondamentali che sostengono l’urbanistica sono ovunque i medesimi, anche se può essere diverso il metodo di espressione. Metodo derivante da usi o tradizioni, o da faticose ricerche tanto ammirevoli quanto più innovative rispetto a quello a cui siamo abituati, ma come osserva A.T. Edwards «l’interpretazione locale risulta invariabilmente di secondo piano». E aggiunge: «Se esiste un’urbanistica in Inghilterra, o in Germania, o in Francia, certamente non ne esiste una inglese, tedesca o francese, così come non esistono versioni nazionali delle scienze». Forse si potrebbe dire che l’urbanistica così come oggi viene interpretata in America si rivolge particolarmente a progetti su aree definite, gestiti da una singola personalità o gruppo di architetti, paesaggisti, ingegneri associati. L’evolversi graduale magnifico di una città, così come avveniva un tempo in Europa, attraverso il faticoso lavoro di molti individui e successive generazioni, tutte fortemente impegnate, da noi è cosa pressoché sconosciuta.

Appare perduto quello spirito che aveva prodotto i centri antichi del Continente. La voglia di fare un buon lavoro, anziché risolvere tutto troppo in fretta e in economia, oggi lascia il posto alla tentazione di lavorare il meno possibile ricavandoci il massimo tornaconto. Una paga calcolata sul monte ore anziché sulla effettiva qualità e quantità di lavoro. E quell’idea di buon lavoro fine a sé stesso e alla propria qualità, la devozione di chi lo dedicava a intagliare le colonne di una cattedrale o altri dettagli che il nostro sguardo occasionale forse neppure coglie, appare oggi a molti una sentimentale debolezza. Tornerà mai quell’antico spirito? Potranno mai gli antichi centri dell’Europa continentale essere riprodotti nel medesimo spirito? Esiste una deplorevole assenza di originalità in molti dei piani urbani continuamente invocati. Chi li progetta pare piuttosto propenso a riprodurre quegli slarghi o «grandiose piazze» che sono tali da indurre meritata ammirazione là dove sono stati realizzati, ma che rifatti in una moderna città americana sono decisamente incongrui. Gran parte delle cittadine sono così ammirate per qualche specifica qualità legata alla loro storia e contesto, alla collocazione dentro il paesaggio, alle tradizioni degli abitanti, alla loro operosità, magari addirittura al colore dei materiali da costruzione utilizzati. Nella vecchia cittadina inglese classicamente grigia un colore vivace appare fuori luogo. La « città rosa di Inverness» possiede un fascino tutto particolare per il colore della pietra degli edifici. Oggi è possibile usare ovunque materiali importati da lontano, anche dall’estero, e quel tipo di armonia cromatica non esiste più. Tentare di trapiantare un po’ del pittoresco di Rothenburg nella pianura di Long Island, o le praterie della valle del Mississippi, pare assurdo. Una piazza «veneziana» a Pittsburgh o a Omaha sarebbe a dir poco grottesca. Werner Hegeman l’autorevole urbanista berlinese avverte i colleghi americani: «non copiate così l’Europa».

Un piano urbano razionale ha uno sviluppo inevitabilmente graduale, e nonostante l’impellente istinto attuale di porre immediatamente rimedio ai problemi nei piani per le città britanniche, americane o anche dell’Europa continentale, si tratta di obiettivi troppo ambiziosi, di dimensioni superiori a quelle di individui, gruppi, o addirittura generazioni; al punto che esiste il rischio di far così desistere gli sforzi, e ripetere gli errori del passato. Afferma il Professor Eberstadt: «Una urbanistica che corre troppo in fretta o cerca percorsi brevi, può trasformarsi in un pericolo anche peggiore del lasciare al caso la crescita delle città». Il movimento urbanistico, così come lo si intende oggi in America, può considerarsi nato nel 1893, dalla profonda impressione esercitata dalla «White City» concepita dal genio dello scomparso Daniel H. Bumham e da un piccolo gruppo di persone, per l’Esposizione Internazionale di Chicago. Possiamo dire che quella efficace serie di complessi monumentali dalle forme armoniose era qualcosa di mai tentato prima, e anche se si trattava di edifici temporanei il loro effetto è stato molto più permanente, e l’influenza della loro pianificazione ancora visibile nei più grandiosi progetti di centri civici realizzati da quel momento. Ogni importante evento segue ormai in qualche misura quel modello, vuoi per i giochi d’acqua, i canali, l’uso spettacolare dell’illuminazione elettrica, con risultati magnifici e un forte impulso a quanto chiamiamo urbanistica.

I britannici, tanto entusiasti della materia, paiono averne una concezione fondamentalmente legata agli spazi non ancora edificati, al fine di evitare errori passati, anziché a migliorare le città esistenti; e quando ciò si rivela impraticabile, a creare piccoli spazi di qualità. Si cerca di conservare ciò che ancora non è stato degradato anziché concepire costosi piani di ricostruzione e magari fare nuovi errori, come troppo spesso accade ahimè negli Stati Uniti. Della legislazione urbanistica britannica e dei suoi principi di base parleremo con dettaglio in altri capitoli. Molti sono convinti che gran parte del problema urbanistico abbia radici sociali, la casa, gli spazi per la ricreazione e il divertimento, il controllo o la proprietà pubblica di servizi e reti, realizzazione e gestione di mercati, raccolta e smaltimento di rifiuti, tutela della salute collettiva, ospedali, assistenza ai poveri, ai malati di mente, lotta alla criminalità: tutte le attività di una città moderna sarebbero parte dell’urbanistica. Si tratta però a ben vedere di azioni legate agli aspetti amministrativi anziché di progetto quali consideriamo nel presente volume, e anche se qui ne trattiamo e consideriamo l’importanza, è nostro intento correlarla esclusivamente alla costruzione materiale dello spazio cittadino, senza distruzioni inutili o sprechi, verso una vita migliore per tutti. Esistenza più semplice da ottenere quando avviene dentro a spazi ben concepiti.

C’è stata un’epoca in cui si pensava prevalentemente che la città fosse un male necessario, che fosse qualcosa di innaturale e orribile pensare di concentrare così tante persone dentro confini ristretti. Walter E. Weyl, sullo Harper’s Magazine aprile 1915, spiega come la concezione stessa della città dei «padri fondatori» fosse improntata al negativo. Nella loro opinione si trattava di un «luogo di masse turbolente, empie, impudenti, ammasso di gente con poca voglia di lavorare, criminali e perdigiorno, senza religione. Una piaga sul corpo della società, un tumore che risucchia i tessuti sani. Una città assimilata alle corti reali, agli eserciti, alle coorti dei mendicanti, a masse straccione insolenti; era la campagna la vera culla delle virtù repubblicane e democratiche, della semplicità; Jefferson, che aveva in mente gli squallidi agglomerati del vecchio mondo, si congratulava del fatto che l’America fosse rurale. Mentre la città grande o piccola che fosse viveva come un parassita delle campagne, e vi risiedevano principi padroni sfruttatori. Roma depredava l’Egitto senza restituire nulla in cambio. Mentre la città moderna scambia servizi proporzionalmente a quanti ne riceve. Trasforma nelle fabbriche i prodotti delle campagne, e li distribuisce a scala nazionale economicamente interdipendente».

Nella situazione sociale attuale, con una divisione del lavoro sempre più specializzata, in cui ciascuno fa una cosa sola molto bene, mentre dipende da altri per ciò che non sa affatto fare, la vita urbana diviene condizione naturale. Se poi saranno le grandi città a crescere ulteriormente come avvenuto nel passato recente, è cosa di cui dubitare: certe previsioni basate su un tendenza simile possono essere fuorvianti. Molto probabile, quasi certa, è la crescita della percentuale di popolazione urbana, ma è anche improbabile che continui a crescere a ritmi sensazionali quella dei centri maggiori. Sarebbe assai auspicabile un certo grado di decentramento, più cittadine di dimensioni contenute, e meno di quelle grandi, anche se in alcuni casi i centri sono così prossimi da rendere economicamente favorevole unirsi per alcuni obiettivi metropolitani,dalle reti idriche e fognarie, all’ordine pubblico alla salute. […]

Appare evidente come la necessità di una buona programmazione urbanistica non si limiti alle città maggiori, ma risulti egualmente importante nel caso di quelle più piccole e delle cittadine, che rappresentano una importante occasione. Il piccolo centro produttivo di oggi potrebbe diventare la grande città industriale di domani, quella che oggi è una città minore potrebbe diventare il cuore di un distretto metropolitano nella prossima generazione. In alcuni casi è possibile prevedere la crescita con notevole precisione e programmarla su larga scala. E comunque si pianifichi, è pur sempre possibile poi adattare i progetti a nuove situazioni senza distruggere nulla. La cosa più importante è che il lavoro sia affidato a persone in grado di esprimere visione, con capacità tecniche ed esperienza. Ma non basta: quando un piano è stato ragionevolmente redatto, occorre seguirlo nei suoi caratteri di massima, resistendo alle opposizioni, o alle insistenti richieste di abbandonarlo, di solito da parte di interessi particolari incapaci di guardare oltre il proprio limitato orizzonte. L’ex Presidente Taft, parlando del piano per Washington, afferma:

«Il fatto che George Washington incaricasse l’Enfant, ingegnere militare francese, di progettare la Capitale, è un caso fortunato nella nostra storia. Quel piano di l’Enfant per certi versi assomiglia alla nostra Costituzione Federale. Uno strumento di governo rivelatosi molto adattabile al cambiamento di situazioni, che anche il più preveggente degli uomini non poteva prevedere. La semplice organicità delle sue linee nell’alta interpretazione di Marshall si è dimostrata all’altezza di qualunque emergenza o grave crisi della Nazione. Così allo stesso modo il piano per la città capitale di Washington, l’Enfant e Jefferson è una grande cornice di sviluppo che oggi, più di un secolo dopo la redazione, ancora i migliori architetti e artisti si confessano incapaci di migliorare. Quel piano è stato contraddetto in due o più importanti occasioni, per la cocciutaggine di uomini di potere che non riuscivano a comprenderne le straordinarie qualità. Però invece di lamentare questo fatto, dovremmo ringraziare che cose del genere avvengano tanto raramente, e che si sia comunque in grado di seguire il piano originario sino alla sua completa realizzazione, per trasformare Washington nella più bella città del mondo.

«Ed è possibile perché non si tratta di un centro di affari o produzione, perché la sua ragion d’essere è esclusivamente di offrire una sede per le attività di governo, e una casa al personale amministrativo che ci lavora. Liberando così la città di devolvere le proprie energie ad eventuali satelliti, mantenendo la dignità che ne fa il cuore della sovranità nazionale. … Nella sua storia ha attraversato tempi di cose mediocri. Il piano di l’Enfant si scontrò con l’ostinazione di politici che vollero chiudere la veduta tra Casa Bianca e Campidoglio, realizzando il Tesoro di traverso alla Pennsylvania Avenue. Più tardi, quando il Congresso pareva determinato a considerare al minimo qualunque cosa avesse statura nazionale, restituì allo Stato della Virginia più di venticinque chilometri quadrati sulla sponda meridionale del Potomac River, dimostrando una visione davvero limitata del futuro di Washington».

Qual’è l’idea dominante alla base del movimento urbanistico degli Stati Uniti oggi? Quali sono gli ideali ai quali pensa in media l’urbanista, i modelli che vorrebbe emulare? Sinora ha prevalso la bellezza, come ben dimostra l’uso frequentissimo della denominazione City Beautiful, per fortuna oggi un po’ in declino. Gli ideali derivano da brevi visite in città straniere, e i modelli sono quegli imponenti spazi aperti, larghi viali, ben concepite facciate, e le incantevoli vedute che ne risultano. Cose belle senza dubbio, ma a volte dietro quelle a volte magnifiche facciate e gli ampi viali su cui si schierano sta nascosto il loro prezzo, in forma di squallide condizioni di vita. Werner Hegeman sottolinea come il rifacimento di tante città europee, il cui fascino abbaglia tanti tra noi americani, sia solo ricerca di eleganza: «un pensiero raffinato rivolto ad un’eleganza metropolitana, che ha però avvantaggiato solo alcuni quartieri centrali delle capitali (in fondo le zone attorno all’antico castello) o qualche facciata esterna delle abitazioni. Dietro a cui si celano sovraffollamento misero, assenza di giardini, una intera generazione condannata a boccheggiare. Un’urbanistica che non si è impegnata in piani davvero comprensivi e preveggenti, riguardanti tutti gli aspetti dello sviluppo urbano, concentrandosi solo su uno o due (principalmente estetici) di cui si esagerava l’importanza, producendo più danni dell’assenza totale di urbanistica».

Raramente il nostro studioso itinerante dell’urbanistica europea cerca qualcosa di diverso da questi esempi isolati di bellezza. Certo si ricorda benissimo delle cose brutte delle sue città natali, ha memoria di tutto ciò che c’era di sgradevole, anche quando guarda i risultati di chi ha costruito meglio nel Vecchio Mondo. Una volta tornato si scorda di tutto. E non auspica un giorno in cui si trasformeranno gli spazi tra un complesso modesto e l’altro. Modesti complessi magari anonimi e monotoni, ma che danno alloggio a famiglie di lavoratori, che si guadagnano da vivere ma producono anche la stessa ricchezza che poi si manifesta in quelle pretenziose facciate delle città che ha visitato. Il contrasto tra l’apparenza di quei grandi viali della città degli affari, e le stradine non lastricate e misere delle periferie di tante città americane, è qualcosa che induce riflessione, ma la comodità che si trova nei singoli alloggi a volte più che compensa questa cattiva impressione esterna.

Il basso costo del legname in America, la velocità con cui si possono realizzare i telai portanti delle case, il considerare impropriamente sicuri agli incendi i materiali da costruzione, hanno fatto sì che nelle zone suburbane si realizzassero moltissimi edifici in legno nelle zone suburbane, il cui aspetto standard, che non migliora molto con quel genere di finiture e ornamenti pensati forse per evitare la monotonia, conferisce un’aria di provvisorietà non certo paragonabile all’aspetto solido degli edifici mattoni e pietra del vecchio continente e della Gran Bretagna. È vero che i responsabili urbanistici nel nostro paese hanno tardato a capire l’importanza di una ordinata organizzazione planimetrica stradale, tale da facilitare gli spostamenti tra le varie zone, e che presto dovremo pagare questa mancata preveggenza tagliando nuovi collegamenti, ma si tratta di un problema esistente in tutto il mondo.

Altro aspetto da tenere presente, considerando l’aspetto gradevole dei centri nelle capitali europee, è che siano stati concepiti da regnanti le cui corti attiravano i migliori architetti e artisti dell’epoca, messi al servizio dei principi, già a loro volta persone di grandi idee, ambizioni, per città che affermassero la loro importanza nel mondo. Bastava poi assicurarsi un adeguato Ministro delle Finanze dotato del genio per prelevare dai sudditi i soldi per attuare questi grandi piani, e il gioco era fatto. Perché quando si chiede a qualcuno se è disposto a finanziare di persona questi programmi ambiziosi, spesso si incontra parecchia esitazione. Solo dopo campagne di informazioni si riesce a convincere quanto un piano porti dei vantaggi e sia quindi un investimento, in termini materiali e non. Quando si comincia l’esecuzione di un progetto, lo si deve affidare a funzionari esperti o a una apposita Commissione creata per lo scopo. La forma più adeguata è ovviamente la prima, ma i periodi relativamente brevi in cui i funzionari delle città americane restano in carica, e la propensione di singoli e gruppi a introdurre modifiche di qualche tipo, da considerazioni economiche, o per imprimere un segno personale al piano, spesso favoriscono il ricorso a una commissione speciale.

Ciò non significa che un piano una volta adottato non possa essere in alcun modo modificato. Li chiamiamo progetti comprensivi e definitivi. E se lo sono davvero, comprensivi, devono potersi adattare al mutare delle condizioni, senza che con ciò cambiare lo schema generale. Come notava l’ex presidente Taft, ci sono alcuni pessimi risultati delle modifiche al piano di l’Enfant per Washington, ma lo schema era al tempo stesso tanto semplice e comprensivo che i suoi caratteri base restano intatti: nulla ne conferma l’eccellenza quanto l’azione della Commissione del Congresso incaricata degli interventi sulla Capitale, quando raccomanda che in qualsiasi caso di interferenza col progetto l’Enfant originario, se ne devono ripristinare le linee.

Da: Nelson P. Lewis, The planning of the modern city; a review of the principles governing city planning, Wiley & Sons, New York 1916 – Estratti e traduzione a cura di Fabrizio Bottini
Vedi anche in questa stessa sezione Antologia,
Daniel Burnham e l’incarico per il Mall di Washington

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