La strada dritta e le curve dell’asino

«… e non me ne frega un accidente, se lei è stata qui in Italy di solo sei mesi! E’ pagata per un lavoro di grafica, e non per recitare a teatro. Adesso ascolti, e apra bene le orecchie: quella fotografia va eliminata, da tutte le maledette pagine. Non mi importa, se è l’unica foto che avete di quel posto, e meno ancora mi interessano le vostre difficoltà per correggere e reimpostare tutto entro il fine settimana. L’ha stampato lei, sul frontespizio, COORDINATORE PIERRE PAOLI. Ebbene, si lasci coordinare, my unfair lady. Buonanotte».

Foto F. Bottini

Pierre staccò la comunicazione, chiamò il ristorante cinese per farsi portare la cena, e uscì in corridoio a respirare l’odore di moquette e tabacco. Tutti gli altri uffici erano già vuoti da un pezzo, e gli unici rumori dell’edificio erano gli schiamazzi degli addetti alle pulizie, che si chiamavano da un piano all’altro mischiando battute e incomprensibile gergo professionale. Nei bagni vicino al vano scale, già tirati a lucido per il giorno successivo, c’era l’unica finestra apribile del piano: una specie di oblò da sommergibile, o da lavatrice, che lasciava entrare un raggio di sole, il rumore delle auto in fila sullo svincolo, e un sottile odore di asfalto surriscaldato.

Pierre rimase qualche minuto a guardare il traffico, i piloni del cavalcavia, la terra di nessuno che dagli ultimi cartelloni pubblicitari continuava, tra ciuffi di canne e orti abusivi, fino al ponte della ferrovia. Rimasticando il vago sapore di asfalto caldo tornò lungo il corridoio, fino al grande rettangolo luminoso del suo ufficio. La parete a vetri si affacciava su un gruppo di palazzine, coi giardini ben tenuti. Poco più in là, iniziavano i tetti rossi del centro, i campanili, i terrazzi piatti degli edifici più nuovi, le impalcature delle insegne luminose. Qualcuno bussò alla porta.

«C’è una busta per il dottor Paoli. E c’è anche un pacco caldo, che m’hanno chiesto di portare su, visto che già dovevo salire. Firmi qui, per la busta. Per il pacco, buon appetito, e buona sera».

La ragazza, persa dentro una palandrana verdastra, sfilò dal marsupio un bollettario, e rimase a guardarsi la punta delle scarpe da sotto la visiera. Dopo aver recuperato la sua copia della ricevuta, alzò il musetto sporco, per salutare cordialmente:

«Chi glie lo fa fare, a un signore come lei, di mangiare bambù fritti su una scrivania, quando a mezzo chilometro da qui c’è ogni bendidio? Non sono affari miei, ma mi consenta qualche divagazione, dopo dodici ore di sauna sul motorino. Beati voi, con l’aria condizionata … buonanotte».

Ingollato l’ultimo sorso di tè, Pierre sciacquò le mani nel piccolo bagno dietro gli schedari, e tornò alla scrivania. Tolse dal cassetto una bottiglia di tequila, e ne versò tre dita nel bicchiere di carta. Allineate sul piano della scrivania appena ripulito, stavano le quattro versioni del rapporto PER UNA CITTA’ APERTA: una poco più di un pacco di fogli scarabocchiati, la seconda divisa in due fascicoli di fotocopie, un’altra con le prime immagini a colori, e l’ultima, rilegata, con quella maledetta foto a fare da copertina.

Riempito per la seconda volta il bicchiere, Pierre iniziò a scorrere le pagine ruvide, prendendo appunti, e soprattutto cancellando via via la foto della copertina, che era riprodotta su ogni pagina, in alto a sinistra, a fare da sfondo alle intestazioni dei paragrafi.

Foto F. Bottini

Un’immagine molto ben riuscita, a modo suo. C’era un filare di alberi a segnare l’orizzonte, e poco sotto la linea dei primi rami iniziava la striscia, più scura, delle case popolari e di un paio di campanili. In primo piano, le linee curve di un giardino riempivano quasi tutto lo spazio disponibile, ma la cosa che saltava immediatamente all’occhio era un’altra: due ragazzi seduti sulla fontana di pietra, in mezzo a un’aiuola di erbacce. Lui era grosso, coi capelli lunghi arruffati sulla fronte, e lei, sottile, mostrava all’obbiettivo un sorriso pieno di fossette, spalancando esageratamente gli occhi chiari. Lui seduto nella conchiglia della fontana, lei su un indistinguibile blocco di pietra, reggevano insieme un cartello: NOI NON CI SAREMO – NEMMENO VOI.

Pierre prese qualche misura con un righello, e scarabocchiò su un foglio: 21.00 – DA PIERRE PAOLI – LA FOTO DI COPERTINA E DI RICHIAMO PUO’ ESSERE MODIFICATA CON UN MONTAGGIO – IL MATERIALE E’ A PAG. 66, ULTIMA FIGURA A DESTRA.

Infilò il foglio nel fax, compose il numero, e tornò a sfogliare il volume. Dal parcheggio, cinque piani più in basso, iniziò a salire il rumore degli stereo alzati al massimo, dei fuoristrada che entravano e uscivano scavalcando le barriere di cemento, delle prime discussioni tra compagnie di ragazzi.

***

G. non si poteva fare a meno di notarla, nei corridoi dell’università. Pierre, seduto a gambe incrociate su uno dei tanti tavoli sgombri, l’aveva vista passare decine di volte, solo quella mattina, e gli sembrò quasi naturale fermarla per chiedere un’informazione. Lei sorrise, scarabocchiò qualcosa su un taccuino, e gli infilò la pagina strappata nel taschino della camicia. Poi si girò senza una parola, e sparì verso la tromba delle scale.

La rivide un sabato sera, nel locale frequentato dagli studenti fuori sede. Nella sala del biliardo era stato sistemato un proiettore per diapositive, per una assemblea di quartiere. Il pubblico era il solito: politici locali, famiglie con figli al seguito, qualche curioso e i clienti abituali del bar.

Verso le nove, lei salì sulla predella di fianco al pallottoliere segnapunti, e chiese a qualcuno all’altro capo della sala di spegnere la luce. Sullo schermo apparve la prima diapositiva:

«Chiedo scusa ai compagni che già conoscono i termini della questione, ma visto che questa è la prima assemblea pubblica, forse vale la pena di riassumere tutto dall’inizio. Quella che vedete, è una pianta della zona, con riportato il progetto per il quartiere popolare, così come è stato presentato qualche mese fa. Le linee curve in basso a destra, sono le palazzine destinate alla vendita, con gli accessi ai box sotterranei e una specie di circonvallazione, che va a finire chissà dove. Al centro, ci sono la zona a verde, la piazza con i servizi, e l’edificio con gli alloggi sperimentali a pianta variabile».

Foto F. Bottini

«Ecco … vedete, questo qui, che sembra una ciambella col buco quadrato. Il resto, sono le case da dare in affitto, che occupano tutta questa zona in alto. Ce ne sono a tre piani, qui vicino alla piazza, e poi a sei man mano si va verso la periferia, e per ultime queste due torri a dodici piani, che qualcuno del sindacato chiama i funghi velenosi. Vedete che, anche qui, c’è una specie di circonvallazione, raccordata con quella delle case signorili, e che va a finire chissà dove».

La stanza si era riempita completamente, a quel punto, e qualcuno dal buio iniziò a gridare:

«Taglia corto, e vieni al dunque. I lavoratori vogliono case, e voi studenti sapete solo fare chiacchiere!».

G. non sembrò notare l’interruzione, e riprese tra i brusii:

«Al sindacato, dicono anche che i funghi velenosi si possono digerire. Basta mischiarne pochi pochi, in uno stufato grande grande, e vanno giù che è un piacere. Dicono, anche, che loro non hanno niente contro i monumenti, anzi, ma quando l’alternativa è tra qualche rudere e case decenti per i lavoratori, non vale nemmeno la pena di pensarci. Quasi quasi, avevano convinto anche noi, che difendere questi ruderi fosse una grande stronzata. Diamogli una rapida occhiata, ai ruderi».

Sullo schermo iniziarono a scorrere le immagini di fotografie, mappe, disegni antichi e incisioni, vedute paesaggistiche. G. parlava pochissimo, e la sala era animata da commenti interessati, rilassati, divertiti. Il tizio che aveva polemizzato prima, tornò a farsi vivo, ma stavolta lei gli rispose, secca:

«Guarda questa, compagno, e poi continua pure a darmi della decadente revisionista».

Apparve una diapositiva simile a quella che aveva aperto la serata. C’era una mappa della zona, con riportato il progetto del nuovo quartiere … ma non era lo stesso progetto. Dalla sala salì un brusio di commenti, e G. concluse laconica:

«Vedete da voi, che qui non ci sono case popolari per nessuno. Invece della piazza coi servizi, c’è una specie di autostrada, che si raccorda alle rampe che entrano e escono dai box sotterranei. Concludendo: abbattuto quello che resta del giardino storico, questo piano prevede case signorili, un centro sportivo privato, un tratto della circonvallazione, e due torri per uffici. Ve li ricordate, i due funghi velenosi? Sono ancora al loro posto, ma se leggete questa didascalia in alto a destra, vedete chiaramente “torri direzionali”».

«E’ un termine strano, e non tutti forse capiscono di cosa si tratti. Per non farla lunga, lì dentro c’è di tutto, tranne case in affitto. Probabilmente, la sede di qualche grande impresa, o di un ente pubblico, magari mischiati a studi professionali. Allora, vogliamo ridiscuterne, di questa faccenda del giardino storico?».

Pierre, con una manciata di foglietti pieni di note, si era avvicinato alle prime file. Alzò la mano, per intervenire.

***

Sull’orizzonte, oltre la linea scura degli svincoli, brillavano i lampi di un temporale. Il cicalino del fax annunciò un documento in arrivo, e Pierre rimase a guardare un foglio che scivolava nel vassoio, ascoltando distratto la voce all’altro capo della cornetta:

«… e ci verranno anche Walter e la moglie. Non capisco perchè ti vuoi fermare lì fino a domani, visto che il progetto è chiuso. Fai come me, che tutte le sere alle sei in punto stacco, come quel mo­naco amanuense che poi si trovò la parola finita in lettere d’oro …».

Il vaniloquio, fu miracolosamente interrotto da una chiamata sull’altra linea.

Foto F. Bottini

Rientrando di corsa da una spedizione al chiosco delle bibite, Pierre schivò le prime gocce di pioggia infilandosi giù per lo scivolo del parcheggio. Un’ombra, da dietro un pilastro verniciato di giallo, scandì cantilenando: «Spicci, capo?», tendendo un vassoio di carta. Dalla guardiola del turno di notte, un portiere giovane si grattava la fondina, poppando avido da una sigaretta multifiltro. Si accesero le luci, e da un angolo lontano venne il rumore di voci miste a latrati: iniziava l’ultimo giro di ronda, prima della chiusura notturna.

In ufficio, la segreteria telefonica lampeggiava un messaggio. Era la tizia del fax, che ostentando il solito accento esotico lasciava detto:

«Queste sono le prime prove, ma credo meglio di così non è possibile, in poco tempo. Se vuole che il lavoro comincia domani, deve preparare prima della mattina un nuovo testo. E’ meglio, che sia su floppy disk, ma se non ha una copia può lavorare sulle pagine. Per favore con la penna, non crayon. Per noi è un giorno in più, may be due. Good ..».

Pierre fotocopiò una mezza dozzina di articoli, e con il pennarello giallo iniziò a segnare i passi più significativi. Non era difficile, trovare frasi cariche di tensione, da usare per rico­struire il clima dell’epoca … e che non parlassero di G. Il lavoro era impegnativo al punto giusto, come verniciare uno steccato ascoltando la radio. Dagli altoparlanti nascosti dello stereo, Bob Dylan canticchiava «… it’s all over now, baby blue ..».

La giornata era incredibilmente tersa, fuori, come sempre quando i temporali finivano prima dell’alba. Il ragazzo nella guardiola del parcheggio sotterraneo stava passando le consegne ad un tipo di mezza età, e Pierre rimase ad aspettare appoggiato ad un pilastro, mentre quei due si scambiavano battutacce. I semafori erano ancora spenti, e ci volle una manciata di minuti per attraversare il quartiere, fare un mezzo giro attorno al centro, ed imboccare la superstrada per la zona industriale.

Lasciato ad un guardiano armato fino ai denti il pacco con i dischetti, gli appunti e un promemoria, Pierre guidò il suo piccolo fuoristrada contromano per qualche decina di metri, giù per una rampa della tangenziale, fino ad infilare un varco nella siepe che immetteva direttamente nella corsia di sorpasso opposta, deserta. L’orizzonte era quasi completamente illuminato, quando l’auto svoltò nel piazzale della prima stazione di servizio, sull’autostrada per i laghi.

***

Non era un tipo semplice, G., ma Pierre non poteva fare a meno di seguirla come un cagnolino. Lei aveva piccole manie autoritarie, e lui cercava di non farci troppo caso, anche quando non capiva perchè mai ci si dovesse svegliare alle cinque, e distribuire un volantino davanti a cancelli impossibili, cacciati in fondo al nulla. Gli amici, strizzavano l’occhio:

«Quante volte te la fai al giorno, la contadinella? E’ vero, che ingoia tutto?».

Comunque, il lavoro era piuttosto interessante, e molto seguito dall’università e dal quartiere. Quasi per caso, G. aveva scoperto che uno dei progetti più interessanti degli ultimi anni era solo un paravento, da sventolare davanti alla stampa, mentre sottobanco si mettevano le fondamenta di una gigantesca speculazione. Il giardino barocco, o quel poco che ne restava, poco a poco stava diventando centro di gravitazione per le ricerche di docenti e studenti, uniti ai comitati di quartiere nel programma PER UNA CITTA’ APERTA.

Foto F. Bottini

Le riunioni, la battitura a macchina dei documenti e degli articoli, riempivano quasi tutto il tempo che non se ne andava nella lettura di altri documenti, nella compilazione delle rassegne stampa, nello studio di qualche manuale tecnico o giuridico. Pierre era soddisfatto, e dopo due anni di lavoro non faceva gran caso alle volgarità dei vecchi amici. Lui e G. si erano sistemati in un ex laboratorio tipografico, con poco spazio per mangiare, dormire, lavarsi, e quasi tutto il resto per studiare, discutere, riunirsi.

La vacanza a Londra cominciò benissimo: seduti sul pavimento della casa occupata, rimasero a bere birra e a discutere fino a tardi, poi a fare l’amore improvvisando sdolcinature in inglese, poi ancora rannicchiati nei sacchi a pelo, a guardare l’alba che illuminava le sagome enormi e lontane delle gru allineate sui moli. Anche qui, c’erano riunioni a non finire, ma viste le difficoltà con la lingua e l’ambiente Pierre e G. avevano finito per preferire i parchi e i locali alternativi.

Non era difficile conoscere gente, lì, e dopo qualche giorno G. si era trasferita. Pierre, rientrando la mattina presto, aveva trovato un foglietto puntato sul sacco a pelo:

«Scusa se ho preso in prestito qualcosa. Poi ci mettiamo d’accordo. Jaime mi sconvolge, mi attira, e per adesso lo seguo. Arrivederci all’università».

I soldi rimasti dopo il «prestito» erano molto pochi. Pierre ripartì il giorno successivo, e chiuso nell’ex laboratorio tipografico, nella città deserta delle ultime settimane estive scrisse, studiò, progettò.

G. si fece rivedere nel primo pomeriggio di un giorno di sole, accompagnata da due amiche cariche di documenti, e con piglio gentile ma autoritario chiese di essere aggiornata. Per i due giorni successivi, mentre una pioggia dalla temperatura incerta riempiva le buche di acqua torbida, nello stanzone dei dibattiti ci fu un gran viavai: ricercatori rapaci, mezze calzette ansiose, abbondante contorno di occasionali amici e parenti.

Foto F. Bottini

Per due giorni, con un nodo alla bocca dello stomaco, Pierre lavorò come cameriere, segretario, cuoco, brillante conversatore. Il terzo giorno, raccolse un paio di scatoloni di libri, vestiti, e tolse definitivamente il disturbo.

Si rividero in pieno inverno, nei giorni bui della prima metà di gennaio. Lavoravano ancora allo stesso progetto, e dopo un paio di settimane e molte diffidenze tornarono a sorridere, a scherzare, a scambiarsi battute incomprensibili per gli altri.

Adesso a tutti e due interessava soprattutto laurearsi. C’erano ancora quattro, forse cinque, mesi a disposizione, e G. come al solito aveva già pianificato tutto: lei avrebbe tenuto i contatti con l’università e il quartiere, mentre Pierre avrebbe dovuto produrre a spron battuto disegni, relazioni, articoli, fotografie. Il successo era assicurato, e G. per assicurarlo ancora di più gli aveva sorriso, radiosa:

«Qui ti annoieresti, tra gli incontri, le proiezioni e tutto il resto. Lascia a me questa noia, e concentrati piuttosto sulla parte creativa. Nell’ingresso, ci sono tutti i materiali che ti servono, inscatolati insieme a un po’ di vestiti tuoi, che ho trovato in giro per casa. Te li do, perchè qui ci sarà un bel po’ di trambusto, d’ora in poi, ed è meglio che tu continui a lavorare a casa di tua madre, in quella bellissima stanza con il bagno personale e i rampicanti alla finestra …».

***

Il piccolo fuoristrada si fermò sobbalzando, al centro della piazzola in terra battuta. C’era silenzio, e faceva quasi freddo, ma pisciare guardando l’alba sulla pianura era sempre una gran cosa. Lungo la strada bassa, ancora immersa nel buio, due autobus si inseguivano a pochi tornanti di distanza, spazzando le cime degli alberi con le luci dei fari. Pierre si fermò per un caffè all’ultimo crocicchio, e poi iniziò guidando lentamente la strada in terra battuta, fino all’imbocco del sentiero. Sul piccolo spiazzo, c’erano due auto conosciute, e un’altra nuova, parcheggiata male vicino al letto del torrente.

Foto F. Bottini

Sul pianoro di fronte alla baita, mezz’ora di sentiero più in alto, sdraiate sulla panca di tronchi illuminata dal sole, sonnecchiavano due ragazze. La più magrolina si alzò in piedi, e schermandosi gli occhi con la mano gridò verso il fondo del prato: «Siamo del Comitato Fascia Sud. E’ possibile, piantare una tenda qui?». Pierre le raggiunse, ansimante, dopo due o tre minuti, e mentre si aggiustava sulla testa il cappello di tela notò l’altra, ancora sdraiata: capelli rossi, pelle chiara, fisico giovanilmente giunonico. L’aveva già vista da qualche parte, probabilmente alle riunioni del Comitato, in quello stanzone triste vicino all’ambulatorio. Qui, sullo sfondo verde del pascolo, quella ragazza faceva un altro effetto. Comunque, Pierre non se la sentiva di discutere nulla, e bofonchiando qualcosa indicò un angolo del prato, in alto, vicino ai margini del bosco. Poi camminò fino alla porta della baita, aprì con cautela, attaccò sullo specchio un messaggio, e trascinò lo zainetto fino alla branda sul soppalco. Due minuti più tardi, sbirciando attraverso il vetro polveroso le due ragazze che trafficavano con teli e paletti, si addormentò.

A mezzogiorno Pierre, in calzoncini e T-shirt, decise che valeva la pena di affrontare una sudata: giù fino all’Ultima Thule del parcheggio, e ancora su, con le bottiglie e il proiettore. Lasciò un altro messaggio appiccicato allo specchio, e bilanciandosi soddisfatto sulle caviglie iniziò a scendere di buon passo il sentiero. Un’ora più tardi, nell’ombra fresca dell’ultimo bosco di larici, il telefonino suonò, e una voce sconosciuta scandì ansimando:

«Vai veloce, che la pappa si fredda. Ti aspettiamo in cima al prato».

Il comitato di benvenuto, di fronte alla baita, era degno di un filmato pubblicitario. La rossa giunonica lo aiutò a togliersi lo zaino:

«Io sono Carola, anche se di vista già ci conosciamo, no? Adesso siediti, e buon appetito!».

Verso le tre, il cielo iniziò a coprirsi, e in meno di mezz’ora la montagna era completamente avvolta dalle nubi, e stava iniziando a piovere. Mentre qualcuno accendeva il camino, Pierre preparò lo schermo e le diapositive: immagini nuove, della mostra sul progetto, ed immagini vecchie, che raccontavano una storia di dieci anni: i primi comitati di quartiere, i cortei contro la lottizzazione dei giardini, i vari progetti, e quelle buffe acconciature della gente, accovacciata per terra alle riunioni, o in cima a qualche muro a sventolare cartelli.

«… questo è il progetto finto, che abbiamo pensato di sistemare all’ingresso. Non so se lo sapete tutti, ma siamo anche riusciti a recuperare un plastico, di questa roba, che occuperà il posto d’onore al centro dell’atrio, di fianco allo schermo gigante. Pensate che Vanetti, solo continuando a sostenere che questo era il vero progetto, e non un trucco, è riuscito in tre anni a cambiare appartamento, due automobili, e forse sarà candidato alle prossime elezioni. Adesso, c’è una serie di progetti alternativi, che gli studenti dell’università avevano presentato lavorando insieme al quartiere. Qualcuno è disegnato benissimo, ma la maggior parte non vale niente. Forse, per essere chiari, conviene spiegarli uno per uno. Non ci vorrà molto».

La pioggia picchiava sul tetto e sui vetri, ma non abbastanza forte da disturbare la piccola conferenza, nell’improvvisato auditorium di fianco al camino. Le domande di chiarimento erano tantissime, e Pierre dopo un’ora dimenticò la baita, il fatto che si trovava tra amici per festeggiare una vittoria, ed alzando la voce contro il rumore dei tuoni rispose secco ad una domanda:

«Questa è un’obiezione di destra, se mi consenti. Ben venga l’apertura alle forze locali, dei comitati e delle altre associa­zioni, ma la città non può funzionare come un circuito stampato, diviso per compartimenti stagni, collegati solo da qualche striscia …».

***

«Questa è un’obiezione di destra, se mi consenti. Ben venga l’apertura alle forze locali, ai comitati e le altre associazioni, ma la città non può funzionare come un circuito stampato, diviso per compartimenti stagni, collegati solo da qualche striscia …».

G. consultò rapidamente il fascicolo che aveva spalancato di fronte, e concluse:

Foto M. Peretti

«C’era un’analisi anche sul versante della domanda, tutta bella e scientifica, piena di tabelle, alla fine del secondo volume. Però, di questo possiamo parlarne più tardi, dopo aver risolto le questioni di burocrazia. Mi pare ci sia un sacco di gente che aspetta di laurearsi, là fuori, e visto che questo lavoro ormai ha un suo spazio nella ricerca dell’Istituto, sulle faccende operative credo possiamo aggiornarci ad altra sede, se il resto della Commissione non ha niente da ridire. Cioè, volendo discutere il mio progetto, precisiamone magari qualche aspetto tecnico…».

Pierre, relegato in un angolo del tavolo, la ascoltò parlare a proposito, e a sproposito.

La primavera tardava, quell’anno. Dopo la laurea Pierre non aveva le idee molto chiare: G. era praticamente irreperibile, e al comitato di quartiere sembrava che nessuno volesse parlare con lui. Rientrando verso l’una, un venerdì, trovò una lettera.

Ciao, come stai? Io non so più cosa mi sta succedendo. Le persone attorno a me sono molli ed impenetrabili, qui al paese. … Vediamoci, per favore. I miei salgono la prossima settimana, per il giuramento di mio fratello, ed ho ancora la chiave del vecchio deposito. Pensavo di passare, a recuperare qualche copia dei progetti, e anche gli scatoloni del mio vecchio negozio di erboristeria, prima che i topi si mangino tutto. Dato che non so come funzionano l’acqua e la luce, lì, vorrei che tu mi dessi una mano. Per favore, non telefonare: i miei non ti hanno mai sopportato, e questa è una mia personale scappatella. Magari, l’ultima che mi posso permettere … ma non voglio annoiarti. Venerdì prossimo, alle sei, io sarò davanti al cancello del giardino, sul lato opposto alla fermata dell’autobus. Cerca di esserci, per favore. Baci. G.

Alle sei di venerdì, sul piazzale sconnesso pioveva fitto, e qualcuno aveva rotto il lampione sopra il cancello del giardino. Pierre guidò con cautela, attraverso le pozzanghere, l’auto che aveva chiesto in prestito a suo padre, fino a parcheggiare a ridosso del muro, strisciando la portiera contro le foglie incartapecorite dei rampicanti. L’ultimo autobus ripartì, lasciando mezza dozzina di pendolari a godersi l’umido, e G. a trascinare le sue enormi borse sopra l’acqua scura delle pozzanghere, verso il lato opposto della piazza. Pierre la raggiunse dopo una gimcana tra buche e sbarramenti, gridando attraverso il finestrino:

«Arrivano i nostri! Restate fermi dove siete, un mezzo di soccorso vi sta raggiungendo!».

Lei salì in macchina, sbuffando:

«Merda, merda, merda! A te, alla tua città, agli industrialotti che scavano questi buchi nella terra, e ai loro servi che sono felici di fare i pendolari e di bagnarsi al semaforo, mentre aspettano di andarsene a casa a guardare la televisione …».

Al vecchio deposito, Pierre iniziò a sentirsi a disagio. Erano quasi le nove, e nonostante avesse lasciato detto a casa che avrebbe dormito fuori, stava seriamente pensando di tornarsene in macchina, e mollare quella pesantona megalomane al suo destino. Lei, sbucando da una porta laterale, gli scombinò tutti i programmi:

«E’ ancora aperta, la pizzeria di Nino? Potremmo andarci, a prendere qualcosa».

Fu una cena relativamente allegra, e Pierre iniziò a sentirsi meno a disagio, dopo tanti mesi. Al terzo giro di birre, stavano ridendo come pazzi di Vanetti e delle sue vene gonfie sul collo, quando G. cambiò improvvisamente tono:

Foto F. Bottini

«Fortunato, tu che sei rimasto qui. Io, tornata al paese, a malapena esco di casa. C’era un concorso in comune … e quando mi sono presentata con tutti i documenti un tizio mi ha presa sottobraccio, per spiegarmi che la mia candidatura non era opportuna. Torno a casa furibonda, e scopro che erano stati i miei, a imbeccare quell’idiota. Dopo un paio di settimane, inizia a girare per casa un tipo sui quarant’anni, e tutti fanno di tutto per lasciarci soli nella stessa stanza. Era il mio promesso sposo, capisci? … adesso, facciamoci un’altra birra, e poi andiamo a scopare da qualche parte, alla faccia sua».

Pioveva ancora forte, quando l’auto si fermò al riparo di un cipresso sbilenco, circondato da un laghetto fangoso. Pierre era piuttosto imbarazzato, nonostante le birre, e rimase a guardare dal finestrino, aspettando il seguito. G. gli prese la mano, infilandoci dentro qualcosa:

«Tienile strette, e mettitele in tasca, perchè tra una decina di minuti non risponderò più delle mie azioni. E non guardarmi con quella faccia! Questa roba è forte, ma giù da noi è l’unica alternativa, e ha anche messo d’accordo compagni e fascisti. Piuttosto, reggi qui».

Lui, ficcandosi in tasca le mutandine di pizzo azzurre, rimase come un allocco a reggere l’accendino, guardandola mentre rimboccava la manica sinistra e sistemava il laccio sopra il bicipite.

***

Carola stava seduta a gambe incrociate ai piedi del lettino, e il sole attraverso i vetri polverosi le illuminava i capelli rosso Tiziano. Pierre rimase con gli occhi socchiusi, a guardare le vene bluastre che formavano un fitto reticolo sotto la pelle chiara. Avrebbe voluto andare ad appoggiarle la testa in grembo, per chiacchierare un po’ guardando l’ombra che lentamente si ritirava dal pascolo, ma finse di continuare a dormire. Lei si stiracchiò, raccolse i vestiti, e con un silenzioso, fluido movimento, scomparve giù per la botola nel buio del corridoio. Mentre stava per riaddormentarsi, la vide risalire il prato verso la tenda canadese piantata ai margini del bosco.

Alle nove, il telefonino iniziò a sibilare. Alla quarta chiamata consecutiva Pierre capì che il fine settimana non era mai ini­ziato. Raccolse in fretta le cose indispensabili, lasciò un biglietto adesivo sullo specchio, e quasi di corsa scese i gradini di pietra, fino all’erba alta e al ronzio delle api. Alla fine di un largo giro, raggiunse l’imbocco del sentiero ai margini del bosco, e all’ombra dei primi alberi senza smettere di camminare chiamò un ristorante in città, e poi il padiglione delle esposizioni. Al trafelato direttore che gli rispose al telefono, propose calmo:

Foto F. Bottini

«Anche se può sembrarle inusuale, direi che possiamo garantire a chi la desidera una mezza giornata libera, lunedì mattina, o in altra data da concordare. Sempre che, beninteso, l’allestimento sia completato oggi entro l’ora di pranzo. Se ci sono dei problemi, me lo dica subito, dato che sto tentando di far coincidere le esigenze di qualche dozzina di persone … Grazie» .

Tre ore più tardi, guardando il parco dalla terrazza dove era stato allestito il rinfresco, Pierre pensò che, tutto sommato, non era stata una cattiva idea quella di lasciar perdere il fine settimana. Vanetti girellava come un forsennato tra i vari capannelli, sventolando il calice di champagne come fosse l’ago di una bussola, in grado di indicargli le politiche vincenti della settimana. A sorpresa, fasciata in un sari bianco, Carola lo raggiunse di fianco alla balaustra, sorridendo gentile a destra e a manca:

«Per fortuna, la moderna tecnologia ci consente di stare tutti insieme, visto che automobili e telefoni sono una cosa accessibile. A molti, se non a tutti. Comunque hai fatto bene, a scendere: io mi sono beccata una specie di uragano, nel bosco … adesso sorridimi, anche se non ti va».

Carola fu straordinaria, per tutto il pomeriggio, nel dirottare anziani notabili, intrattenere giovani attivisti, guidare matrone curiose tra i pannelli della mostra. Pierre, sollevato dai problemi di bassa cucina, diede il meglio di sè offrendo cocktails a tecnici e giornalisti. Era buio da un pezzo, quando lui e Carola si ritrovarono soli di fianco alla balaustra, a guardare le squadre di pulizia muovere lente nei viali del parco le loro luci gialle:

«Non so come avrei fatto, senza di te, oggi. O dovrei dire, senza di voi? Intendo, che non ho capito del tutto come mai non ci siamo incontrati prima, visto che tutti qui sembrano conoscerti, tranne il sottoscritto, che può vantare solo una manciata di ore in una capanna di tronchi …».

Lei sorrise a qualcuno sull’altro lato della terrazza, e mormorò tra i denti:

«Non c’è fretta, e per quanto ti riguarda mi conosci anche troppo».

A cena, parlando con i rappresentanti del comitato, Pierre scoprì che nessuno sapeva molto, di Carola, salvo il fatto che era sbucata all’improvviso nelle riunioni, qualche mese prima. Verso mezzanotte, parcheggiato il piccolo fuoristrada in una via secondaria, ammucchiò alla rinfusa vestiti e cartacce dentro due grosse borse, e respirando l’aria pulita camminò fino ai gradini della portineria. Stranamente smagrita dal giubbotto di pelle nera, ma inconfondibile per i capelli fulvi e il petto da pin-up, Carola leggiucchiava una rivista, seduta di fianco alla porta di vetro.

***

G. sonnecchiava sul divano, mentre Pierre tentava di pensare a un modo qualunque per scaricarla. L’aveva aiutata a vomitare l’anima, reggendole la fronte in mezzo ad una pozzanghera lurida, e tornati in macchina lei si era aperta una birra, solo per vomitarla sul cruscotto dopo due o tre curve. Prima di crollare addormentata, russando contro il finestrino, l’aveva insultato in tutti i modi:

«Smidollato di merda! E piantala con quella ragionevolezza revi­sionista, che non ti porterà da nessuna parte … eh no … da qualche parte ti ha portato: a fregarmi per bene, usando la mia tesi per guadagnarti il pezzo di carta, vero? E chissà che fatica, a fartelo rizzare, prima! Per fortuna, io sono la terroncella che ingoia tutto, come dicevano quei fascisti dei tuoi amici … Ma andate a farvi fottere, tutti quanti …».

Foto F. Bottini

Ora, Pierre stava sfogliando i materiali per la tesi, che G. prima di uscire per la pizzeria aveva cavato da un armadio pieno di polvere: fotocopie di vari formati, copie carbone di appunti e relazioni, rotoli di mappe scarabocchiate a pennarello. Faceva freddo. Da uno stipetto nell’angolo cucina, prese una mezza bottiglia di grappa ed un fondo di caffè solubile, e dopo averli mischiati in un caldo beverone di conforto accese la radio, tenendo il volume al minimo. Sui vetri incrostati del portone l’acqua scendeva a torrenti, e Pierre iniziò a scorrere i ritagli di giornale, quasi tutti con la foto di lui e G. seduti sulla fontana di pietra, in mezzo a un’aiuola di erbacce.

Non ci aveva mai capito molto, Pierre, delle infinite riunioni in cui G. si impegnava con una quantità di associazioni, politici locali, circoli più o meno strambi per la tutela delle tradizioni popolari, o comitati di ordine pubblico. Ora, riguardando quelle carte che credeva di conoscere a memoria, scopriva un mondo insospettato. Nei lunghi mesi che lui aveva passato sul tavolo da disegno o in biblioteca, G. l’aveva, semplicemente, imbeccato. Pierre terminava un disegno, e lei telefonava per congratularsi:

«… e non lo dico solo per la qualità delle immagini, perché i complimenti te li farei anche senza aver visto niente. E’ l’idea che ci hai messo, la cosa più importante. Pensa, che anche Vanetti è rimasto di stucco … almeno, fin quando si è accorto dell’angolo in alto a destra. Sai di cosa sto parlando: la rampa di accesso alla circonvallazione, l’ingresso della scuola, e soprattutto la distanza tra il terrapieno e la recinzione del giardino …».

Foto F. Bottini

Mentre G. russava sul divano e al portone d’ingresso bussava il diluvio universale, Pierre sfogliò mappe, relazioni, cartelle di ciclostilati, fino a scoprire due raccoglitori gialli, identici a quelli che stavano appoggiati sul primo ripiano della libreria, in camera sua. Nel primo, dentro buste di plastica, c’era una raccolta selezionata dei materiali che aveva appena finito di sfogliare. Nel secondo, una copia della loro tesi di laurea, e un altro documento, più o meno uguale, con un titolo più o meno simile. Cambiavano, solo, il tipo di rilegatura e il numero delle pagine. Pierre si versò due dita di grappa, andò ad aprire una finestra in cucina, e tornò ad aspettare l’alba, sfogliando le pagine umide raccolte da una spirale di plastica.

C’erano parti della tesi, riassunti della rassegna stampa, disegni scelti tra quelli allegati alla tesi, ed altri recuperati da progetti precedenti, con piccole modifiche. Pierre conosceva a menadito ogni dettaglio di quelle tavole, e gli ci volle un attimo per accorgersi delle differenze. Più tempo, impiegò a leggere i testi di commento e gli allegati, mentre una rabbia sorda gli saliva in gola.

***

«Vuoi bere qualcosa? Io mi prendo una birra, ma qui c’è di tutto, se ti va. Sono stanchissimo. Non so come avrei fatto, senza te a deviare i colpi bassi, ma tra mezz’ora al massimo sarò addormentato. Se vuoi fermarti qui, non fare complimenti, anche se non potrò essere di molta compagnia …».

Carola stava iniziando a diventare invadente. Nel giro di ventiquattr’ore si era autonominata cuoca, amante, associata di studio per le pubbliche relazioni, ed ora anche amica di lungo corso, seduta ad aspettare sui gradini. Pierre, onestamente, aveva molto poco contro di lei, salvo la continua sorpresa per la sua ubiquità. Guardandola trafficare con lo shaker, si chiese da dove era sbucata, e cosa mai voleva, davvero. Smise di chiederselo dopo una decina di minuti, mentre si addormentava sul divano.

«Dream up, dream up. Let me fill your cup, with the promise of a man…».

A bassissimo volume, gli altoparlanti dello stereo ripassavano per l’ennesima volta lo stesso nastro. Erano le sette, e Pierre rimase ancora qualche minuto al caldo, sul divano, rannicchiato sotto la coperta a scacchi. Carola, probabilmente, se ne era andata quasi subito, la sera prima. Sul piano di marmo dell’angolo bar, c’era lo shaker mezzo pieno, con un bicchiere vuoto … e un foglio di carta infilato sotto. Tenendo la coperta sulle spalle, Pierre camminò sul pavimento freddo fino alla cucina, dove sciacquò bicchiere e contenitore, arricciando il naso mentre l’odore di alcool saliva dallo scarico. Il messaggio era piuttosto lungo, scritto a macchina o con una stampante. Solo data, ora, firma e poche annotazioni erano scritte a penna, con un vistoso inchiostro verde.

Pierre si fece una lunga doccia bollente, un lungo caffè bollente, e ripiegò con cura la coperta a scacchi prima di infilarla nella cassapanca.

«Are you ready for the country? Because it’s time to go..»,

lo stereo continuava a rigirare lo stesso nastro, quando erano le otto di una giornata campale. Il sole batteva sui tetti delle auto, in coda sulla rampa d’uscita del parcheggio sotterraneo. Pierre si infilò in tasca la letterina di Carola, accendendo l’autoradio per ascoltare il notiziario e la rassegna stampa.

L’auditorium, al palazzo delle esposizioni, era stracolmo: le solite autorità, professionisti del settore e studenti, ma sopratutto delegazioni dei comitati. Era decisamente sorprendente, vedere paffute casalinghe pasticciare con le cuffie della traduzione simultanea, mentre ansimando borbottavano qualcosa ad impeccabili studiosi in tweed e velluto, che le guardavano estasiati prendendo appunti. Dopo gli interminabii saluti dei politici, e le misteriose precisazioni di un paio di burocrati, in sala la luce si abbassò prima dell’intervento di Pierre. Sullo schermo apparve la prima diapositiva:

«Forse, vale la pena di riassumere tutto dall’inizio. Quella che vedete, è una pianta della zona, con riportato un progetto per il quartiere, di dieci anni fa. Le linee curve in basso a destra, sono palazzine, con gli accessi ai box sotterranei. Al centro, ci sono la zona a verde, la piazza con i servizi, e un edificio difficile da spiegare oggi, con appartamenti a pianta variabile. Le case popolari occupano tutta la parte alta della diapositiva, e là in mezzo vedete una macchia strana. Il Centrino. Si chiama così, perchè alle prime riunioni le signore del quartiere non volevano credere che quel segno, tanto bello sulla mappa, stesse a indicare il Giardino, che tutti conoscevano come pericoloso intrico di erbacce, macerie, ed edifici pericolanti. Proprio da qui, è partito il lavoro che finalmente, a dieci anni di distanza, possiamo considerare in parte concluso. Ma vediamo la prossima immagine …».

«… è facile per tutti capire, adesso, che senso ha il Centrino. In fondo aveva ragione, la signora che tanti anni fa gli ha dato quel nome, e che probabilmente è in sala stamattina: quel vecchio giardino è stato la cosa più bella, appoggiata al centro di questo quartiere, e tutto il resto, che è cresciuto e gli crescerà attorno, dovrà fare i conti con le sue linee curve, i salti di livello, l’andamento capriccioso del muro di cinta. Chi dieci anni fa pensava di raderlo al suolo, per farci case popolari o tangenziali, è servito a puntino. Compreso il sottoscritto, che però almeno si è accorto di essere dalla parte del torto, esattamente nove anni e sette mesi or sono. Grazie per l’attenzione, e buon proseguimento».

Un applauso piuttosto intenso salutò la conclusione dell’intervento, mentre le luci si riaccendevano e il coordinatore dei lavori annunciava una pausa. Pierre raccolse gli appunti dal leggio, e scambiando pacche sulla spalla scese a recuperare i raccoglitori di diapositive dal proiezionista.

La mattinata continuò, tra interventi e chiacchiere di corridoio, fino alla pausa per il pranzo. Dopo aver aspettato invano che Carola si presentasse come relatrice di qualche comitato ambientalista, Pierre iniziò a scrutare la platea dalla sua poltroncina, e poi a passeggiare su e giù per le gradinate coperte di moquette blu. La sala ora era completamente vuota, ma di Carola, nessuna traccia, tranne quello strano foglietto lasciato a macchiarsi sotto lo shaker. Pierre se ne ricordò per puro caso, mentre scostava col piede un volantino buttato per terra sulle gradinate. Scese al guardaroba, recuperò il foglio dalla tasca interna del soprabito, ma sulla soglia fu trascinato via da un gruppo di laureandi, verso la sala dei rinfreschi. Un numero indefinito di brindisi, formalità, e interessanti discussioni ed obiezioni, trascinarono la giornata fino al tramonto, alla chiusura del palazzo delle esposizioni, e ancora al tavolo di un ristorante, ad un ultimo caffè davanti al ripiano di marmo, mentre dagli altoparlanti Neil Young continuava a ripetere dalla sera precedente

«Are you ready for the country? Because it’s time to go..».

Erano quasi le due, quando Pierre finì di sciacquare le tazze, si versò due dita di brandy, e sdraiato sul divano iniziò a leggere la letterina di quella intraprendente, incredibile, al momento irreperibile, rossa.

Vergate in una calligrafia microscopica, banale tanto quanto era curioso il colore verde dell’inchiostro, c’erano data, ora, e qualche scusa per averlo lasciato al freddo sul divano. La noterella si concludeva con un secco:

«ti lascio addosso una coperta, visto che già dormi. Forse, avrei voluto restare con te, ma per fortuna mi hai tolto dall’imbarazzo. Non è l’imbarazzo che credi tu, comunque. Leggi la parte dattiloscritta, e poi giudica tu, visto che non mi sembri un mostro. Mi farò viva io, comunque vadano le cose. Auguri. Davvero. C.».

Pierre, vagamente incuriosito, raddrizzò il foglio, dove un nastro piuttosto consunto aveva stampato:

«Sono laureata in giurisprudenza, ma questo non ha grande interesse, almeno per la prima parte del messaggio. Quello che più interessa, qui, è la mia appartenenza ai comitati di quartiere per l’ambiente, il verde, e via dicendo … insomma: conosco tutti, ma nessuno conosce me. In quel forno soffocante che tu chiami camera, dentro la baita in montagna, mi sono fatta un’idea di te. Un’idea che completa quella che mi ero fatta frequentando le riunioni del comitato, studiando i documenti, ascoltando i pettegolezzi. Non so, se ho cambiato la mia opinione su di te, ma di sicuro non ho cambiato la mia opinione sul progetto che tu e le casalinghe militanti avete battezzato Centrino: è una buona cosa, che nasce da pessime intenzioni».

Il sibilo della caffettiera in cucina interruppe la lettura, e quasi contemporaneamente dal fax iniziò ad uscire un messaggio, che iniziava con: NEL CASO L’AVESSI PERSO ALLEGO COPIA DEL MIO AMICHEVOLE MESSAGGIO. LEGGILO: NE VALE LA PENA. Seguiva, una copia sbiadita di «Sono laureata in giurisprudenza, ma questo non ha grande interesse …». Pierre trangugiò qualche sorso di caffè, e proseguì nella lettura man mano il foglio stampato si srotolava nel vassoio del raccoglitore:

Foto F. Bottini

«… mio fratello aveva dieci anni più di me, ed è stato ammazzato in galera sei mesi fa. E’ per via delle sue sfortune giudiziarie, che ho studiato giurisprudenza, ma per caso la cosa mi ha portato oltre, fino ad incontrarti, ad una serie infinita di riunioni: universitarie, di quartiere, o a quegli spettacolini pseudoculturali, dove ti presentavi armato di papillon e terminologie esoteriche. Mio fratello – ti chiederai – cosa c’entra? C’entra, eccome, visto che i suoi guai con la giustizia erano tutti legati alla polvere bianca: piccoli furti, piccolo spaccio, e tutto quanto ti puoi immaginare, se te lo puoi immaginare. L’ultima volta che sono andata a trovarlo, mi ha dato una lettera, indirizzata a una ragazza che deve essere stata piuttosto importante nella sua vita. Le chiedeva scusa per un sacco di cose, e soprattutto per averle rifilato roba sporca, e poi per non averla cercata abbastanza. Quella ragazza, era di una famiglia piuttosto conosciuta al paese, e molti altri l’hanno cercata, senza trovarla, per quasi dieci anni. Io ho iniziato in ritardo, giusto perché a mio fratello avevano tagliato la gola con un cucchiaio, ma per puro caso ero iscritta all’università qui da voi, e frequentavo una certa pizzeria».

Pierre trangugiò in fretta l’ultimo sorso di caffè, e lasciando che il fax continuasse a srotolare il messaggio si riempì la tazza di brandy, raccattò dal ripiano di marmo il messaggio originale, e rannicchiato sul divano iniziò a leggere la seconda pagina:

«… Nino è morto da parecchio, ma da buon paesano raccontava qualsiasi pettegolezzo a chiunque, quando la cosa riguardava gente di qui. Una delle ultime chicche, che parenti e amici si ricordano senza nemmeno saperlo, è il suo racconto di quando una ragazza di buona famiglia ha cenato con pizza e birra, giusto un paio di giorni prima di sparire nel nulla. Non era sola, davanti a quella pizza, ma Nino li confondeva tutti, quei ragazzi dell’università: capelli lunghi, camicioni a scacchi … ma non ci è voluto molto per chiedere alla segreteria i tabulati con i gruppi di studio, e poi passare all’albo professionale, e ai comitati di quartiere …».

***

Foto F. Bottini

Il temporale era finito, e un vento freddo scuoteva i vetri malfermi delle finestre. Pierre si svegliò con la bocca impastata, e i piedi gelati dall’aria che filtrava sotto il pavimento sconnesso. Dalla radiolina portatile usciva solo un vago ronzìo, e sul divano c’era una coperta arrotolata. Forse, la stronza se ne era andata a dormire in qualche angolo più caldo e comodo. Pierre si stiracchiò, trangugiando il caffè freddo, scuro, amaro e pieno di grappa svaporata: faceva schifo, ma era perfettamente a tono con l’ambiente e la compagnia. Aspirando forte dalla sigaretta francese senza filtro, andò a pisciare nel bugigattolo in fondo al corridoio, e sulla via del ritorno iniziò a sbirciare nelle camere. Erano tutte vuote, e sui pochi materassi ancora praticabili c’erano solo tracce di polvere e umidità. Le uniche tracce di vita recente, nell’ex magazzino, erano la lampadina accesa sopra il tavolo pieno di documenti, la tazza con la bottiglia e il posacenere, e quella coperta arrotolata sul divano. Pierre la ripiegò, e la ripose insieme alle altre nell’armadio di metallo verniciato, prima di uscire nell’aria gelata, nell’angolo d’ombra buio del cavalcavia.

Il sole stava sorgendo, da qualche parte oltre il terrapieno, ma era come guardare un televisore da lontano. Pierre camminava solo per scrollarsi di dosso il sonno, la sbronza, e la rabbia. Il rumore di un autotreno in manovra sullo svincolo gli fece alzare gli occhi verso i pilastri del ponte, dove una gobba turchese interrompeva il grigio uniforme illuminato dai lampioni. Pierre inspirò profondamente, prima di gridare verso il cielo chiaro:

«La stronza. La stronza. La stronza!».

Corse su per il sentiero appena tracciato, fino all’ansa del canaletto di scolo da cui sporgeva la giacca a vento. Teneva i pugni serrati, pronti a colpire qualsiasi cosa, ma non trovò niente, salvo una giacca vuota. Mezz’ora più tardi, dietro un cespuglio qualche metro più in basso, inciampò quasi per caso nella sua ex amica. Stava a pancia in giù, aggrappata come un gatto ad un cespuglio, con gli occhi spalancati a guardare chissà cosa. Iniziò a piovere, e sotto le prime gocce Pierre la trasportò fino alla macchina parcheggiata davanti al magazzino. Verso le otto, aveva fi­nito di ripulire il sentiero, il magazzino, e l’abitacolo dell’auto. Guidò con cautela attraverso le pozzanghere, lungo la strada sterrata sotto il terrapieno, fino all’imbocco della vecchia scalinata di pietra.

Continuava a piovere forte, quando lasciò cadere il cadavere dentro il buco sbrecciato della cisterna, lasciando che il torrentello d’acqua si trascinasse giù la giacca, la borsa, la siringa e tutto il resto. Il piede di porco fece il resto: dopo un paio d’ore, i muri sconnessi erano crollati dentro il buco circolare, e le vecchie pietre si stavano cementando nel bagno di argilla franata dal belvedere. A segnare il luogo, restava solo una fontana di pietra, in mezzo a un’aiuola di erbacce, ai margini di un laghetto fangoso che prima o poi si sarebbe asciugato e coperto di cespugli.

Verso mezzogiorno, Pierre era ancora ubriaco, e disorientato. Aveva ripulito l’auto e le scarpe, ed aveva iniziato a guidare lungo la circonvallazione, parlando da solo:

«Stronza. Stronza. Stronza. Così dovevi finire, come una scema! E io a cercarti, a coccolarti, a leggere quei fogli dove mi prendevi in giro … dicono che la gente si scava la tomba da sola, ma stavolta la tomba te l’ho scavata io, con la collaborazione di un temporale …».

Foto F. Bottini

Parcheggiò sul piazzale di uno dei nuovi supermercati, ed entrò a godersi l’aria condizionata. Dopo un quarto d’ora, uscì quasi asciutto, con un grosso sacco di pop-corn, pane e formaggio, qualche birra. Dopo mezz’ora di vagabondaggi sulla circonvallazione, tornò al vecchio magazzino, e per tutto il giorno rimase a pensare a cosa aveva fatto, dalla sera precedente. Niente di particolare: una puntata al vecchio magazzino per raccogliere i materiali della tesi di laurea, poi un lungo pisolino sul divano, e per finire una puntata al comitato di quartiere, per vedere che aria tirava. Vedendolo entrare carico di mappe e documenti, Vanetti iniziò a scherzare:

«Per fortuna ci siete voi, ragazzi, con i vostri progetti, altrimenti noi povere forze sociali saremmo già morte e sepolte da un pezzo!».

Pierre si passò la lingua secca sul palato, borbottando:

«E avreste avuto tombe meravigliose. Noi le progettiamo bellissime. Ho dei documenti per la Commissione Ambiente, che sarebbe il caso di discutere, prima o poi. Posso lasciare un messaggio in bacheca?».

Dopo essere risalito in macchina, Pierre sentì la tensione scendere, mentre saliva un forte, confortante, mal di testa. Parcheggiò l’auto davanti a casa, ripetendo a bassa voce, tra i denti:

«Tombe meravigliose? Il giardino! … Tombe meravigliose? Il giardino!».

Si addormentò tardi, ripetendo per l’ennesima volta sottovoce le frasi che avrebbe raccontato ai poliziotti. Fuori, continuava a piovere forte, e Pierre tra una frase e l’altra si immaginava l’argilla franare giù dalla scarpata: a riempire spazi, a scavare solchi pieni di ciottoli e rottami, ad impastare definitivamente la vecchia cisterna al nuovo terrapieno.

***

Sul vassoio metallico del fax, si erano srotolate tre pagine. Le prime due, erano la copia esatta del dattiloscritto che Carola aveva lasciato sul ripiano di marmo la sera precedente. La terza, era un breve appunto, stampato con caratteri e margini diversi:

Foto F. Bottini

«Quando mi sono studiata giornali e documenti vari, ho notato una differenza tra le tue proposte e quelle dei vari comitati, e non è una differenza di poco conto. Credevo fosse una faccenda tecnica, che i comuni cittadini non capiscono, ma due o tre persone mi hanno assicurato che quella è un’invenzione tua, e solo tua. Sto parlando, della “fascia di rispetto” che circonda il giardino: venti metri sul confine della zona residenziale, e cinquanta dalla parte del cavalcavia. Chiamala intuizione femminile, ma questa tua ostinazione (non me la sogno, l’ho letta su una rassegna stampa che copre dieci anni di storia del quartiere) sulla fascia di rispetto mi sembra l’unico elemento di vera novità, tra il progetto originario e quello che state presentando in pompa magna, con spettacolini, rinfreschi … e la sottoscritta a fare da entraineuse. Chiamala ancora intuizione femminile, ma la cosa non mi torna. Credo ci sia qualcosa, sotto. E magari, qualcosa che ha a che fare con quella ragazza, cliente di mio fratello, che ha mangiato una pizza con te da Nino, prima di sparire nel nulla. Mi farò viva io. C.».

Pierre guidò il piccolo fuoristrada fino alla rampa d’ingresso del parcheggio, dove il pacioso guardiano del turno di giorno stava innaffiando i rampicanti. Nell’ufficio al settimo piano, tutto era rimasto uguale, tranne la moquette e i piani delle scrivanie ripuliti, i vassoi della posta e del fax traboccanti di congratulazioni, i tre collaboratori e la segretaria che scherzavano in un angolo, dietro gli armadi dell’archivio.

Durante la pausa per il pranzo, Pierre fece un salto al palazzo delle esposizioni, e poi al cantiere che era stato aperto da qualche ora. Il direttore dei lavori, passeggiando tra le tracce fresche delle ruspe, gli raccontò di oscuri dettagli tecnici, chiedendo fiducioso un parere risolutivo. Lui promise che ci avrebbe pensato su, e dimenticandosi tutto all’istante tornò in ufficio, dove lo aspettava un messaggio registrato sulla segreteria telefonica:

«Un ragazzo del paese, che sa leggere i disegni tecnici, mi dice che il cantiere si è organizzato proprio come avevano richiesto alcuni comitati: non cambia il progetto, ma si inizia a scavare a cento metri dal cavalcavia. C’era un problema di drenaggio … si dice così? Se hai parlato con il responsabile, dovresti già saperlo. Discutiamone stasera, alla griglieria Il Gambero, verso le otto. C.».

«Il Gambero», come Pierre scoprì svoltando nel parcheggio di ghiaia, non era altro che il nuovo nome della pizzeria di Nino. Carola arrivò con mezz’ora di ritardo, e sorridendo placida come non mai ordinò aperitivo e antipasto:

«Tanto vale prenderla comoda, no?».

Aspettò che il cameriere finisse di sistemare sul tavolo i bicchieri e le ciotole con gli stuzzichini, prima di chiedere, premurosa:

«Non ti sarai mica spaventato, per quella cosa? Ti vedo teso, pallido, un po’ aggressivo … Voi quarantenni! Sempre alle prese con problemi seri, al punto da non distinguere gli assassini dagli amici».

Pierre era allibito. Scuotendo il capo, lasciò che fosse lei a pilotare la serata, assecondandola in tutto: dalle ordinazioni strambe, alla puntata in un locale jazz a quasi cento chilometri di autostrada, alle chiacchiere all’alba, bevendo champagne dalla bottiglia, sulla macchina parcheggiata di fianco al chiosco delle patate fritte, nel piazzale vuoto in cima alla collina. Non passava nessuna macchina, quando Pierre scese a pisciare contro uno dei cipressi semisoffocati dall’asfalto. C’era tanto silenzio, da far risaltare anche i passi felpati di Carola, che l’aveva seguito fin lì «perché se rimango sola mi addormento».

Lei si stiracchiò, bilanciandosi sulla balaustra di cemento:

Foto F. Bottini

«Sai, credevo di essere stata fin troppo piena di immaginazione, con quella storia del tuo rapporto con G. all’università, che finiva misteriosamente proprio quando tu iniziavi il lavoro per ampliare la fascia di rispetto. Se fossi stata una brava scrittrice, pensavo, avrei potuto scriverci un giallo, da pubblicare a puntate sul giornalino del paese. Invece, scopro che tu mi batti su tutti i fronti: dalla storia inventata del fratello spacciatore pentito, riesci ad improvvisare nei ritagli di tempo un racconto di amiche morte in posti squallidissimi. Aveva ragione il vostro grande profeta, Le Corbusier, quando raccontava che la strada giusta per la specie umana era quella dritta, e che procedere per giravolte era il destino delle bestie da soma. In fondo, io mi sono divertita a girellare per i sentieri dei somari, prendendo appunti, e prendendomi troppo sul serio. Comunque, come avrai capito, si è trattato di un mio personale divertimento, che non ho raccontato a nessuno. Anzi, visto che ieri sera ti ho visto tanto teso, prendi questa roba. Sono le analisi sulla stampa locale, da cui aveva cavato quella fanta-teoria sul rapporto tra la scomparsa di G. e le battaglie per i limiti della zona a verde. Adesso che ti ho conosciuto, credo non abbia più senso continuare il gioco».

Ancora appoggiato alla corteccia umida del cipresso, Pierre sorrise, e si infilò sottobraccio il raccoglitore giallo. Appoggiandosi a Carola e pizzicandole il sedere, la spinse fino all’auto. Dai piccoli altoparlanti dello stereo, Bob Dylan bofonchiava tra i suoni di vecchi amplificatori:

«… go back from where you came, because the cops don’t need you. And, man, they expect the same».

***

«Lì sopra, ci vanno almeno due metri di ghiaia, architetto. Il drenaggio va benissimo, per adesso, ma con il nuovo sentiero per pedoni e biciclette l’ingegnere ci ha raccomandato di rifare ben bene il fondo. Abbiamo scavato tutta questa striscia, ieri, ed entro stasera sarà tutto pronto per i giardinieri. Basta aspettare un paio di settimane, più o meno, perchè il terreno si assesti. Ci sapevano fare, i muratori di tanti anni fa. Avevano pensato allo strato di ghiaia, ma non potevano immaginare il terrapieno dell’autostrada …».

Alle otto del mattino, l’assistente alla direzione del cantiere era l’unica presenza sul pendio ancora in ombra, e Pierre non impiegò molto a liberarsi di lui. Guidò il piccolo fuoristrada fino ad una chiazza illuminata dal sole, quasi alla fine dello scavo, e scese badando a non camminare sul fango argilloso appena smosso dalle ruspe. Le enormi pale, avevano raschiato senza troppi complimenti vecchi ruderi, cespugli e intere macchie di arbusti, lasciando solo un’arco di duecento metri di raggio, perfettamente liscio, salvo due o tre avvallamenti. In fondo alla piccola depressione su cui Pierre si stava affacciando, tra mozziconi di radici e angoli di vecchie pietre, sporgeva un brandello di stoffa imbottita. Uno scroscio di pioggia, o semplicemente il vento asciutto, l’avevano ripulito dal fango, fino a mostrare il disegno a rombi delle cuciture, e il colore turchese, che spiccava vistoso contro lo sfondo ocra dello scavo.

Il walkie-talkie dell’assistente al cantiere lampeggiò, e poco dopo una voce sconosciuta stava quasi gridando:

«Architetto, stia attento alla luce gialla. Quando si spegne, può accendere il motore. Si ricordi di non andare oltre la linea segnata con le paline bianche e rosse, altrimenti le ruote sprofondano e noi non rispondiamo più di niente …».

Pierre manovrò il piccolo fuoristrada in retromarcia, giù per la stradina vagamente segnata dalla ruspa. Era pesante, Carola, anche senza i suoi vestiti di lana grezza e la bigiotteria vistosa. Rotolò rimbalzando sulla parete di terra compressa, fino a fermarsi sopra la piccola gobba di stoffa imbottita turchese.

Foto F. Bottini

Pierre stava prendendo gusto a quel lavoro ripetitivo: abbassare la pala, raccogliere la ghiaia, e lasciarla cadere sul fondo dell’avvallamento. Dopo cinque o sei passaggi, guidò la grossa macchina fino al lato opposto dello scavo, di fianco all’aiuola con la fontana, e badando bene a non sfiorare il perimetro segnato da picchetti raccolse terra e macerie, da scaricare nell’avvallamento dove, tanti anni prima, c’era stata una piccola cisterna. Il pulmino con gli addetti parcheggiò sul lato opposto dello scavo, e qualcuno gridò qualcosa agitando una mano.

Il sole picchiava forte, quando Pierre sbucò in cima alla collina, ai cancelli d’ingresso del cantiere. Appoggiò il walkie-talkie sulla scrivania della guardiola, insieme ad un biglietto di ringraziamento. Da un cassone di metallo, in un angolo del piazzale di ingresso, saliva una colonna di fumo nero. Il guidatore del piccolo autocarro salì deciso fino al bordo di metallo, ed iniziò a gettare dentro in fretta sacchi di plastica vuoti. Pierre gli gridò dal finestrino:

«Mi butta dentro anche questi, capo?».

Dopo avergli lanciato i tre pacchi di plastica nera chiusi col nastro isolante partì schizzando ghiaia da tutte le parti.

Al primo tornante, rallentò per guardare la colonna di fumo che saliva dal piazzale. Era nera e densa, ma soprattutto verso il basso si notava una vena più chiara, tipica di quando bruciano carta o cartone. In cima al pendio, svoltò sulla strada asfaltata, in direzione della città. Era in leggera discesa, ma assolutamente dritta e in fondo spiccavano, nitidi nell’aria chiara del mattino, i cubi di vetro dei palazzi per uffici distanti diversi chilometri.

Il piccolo fuoristrada iniziò ad acquistare rapidamente velocità, e Pierre a sentire una grande calma. Chiuse il finestrino, borbottando:

«Strade dritte. Ecco quello che ci vuole! Altro che percorsi “a misura d’uomo”, pieni di gobbe, curve e bitorzoli. Roba che piace solo ai somari, o al massimo a qualche donnetta isterica …».

Si girò a guardare per l’ultima volta la colonna scura di fumo, cercando invano qualche traccia delle venature bianche, e non si accorse del trattore con rimorchio in manovra, che sbucava da una traversa cinquanta metri più avanti.

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