L’assetto territoriale nella programmazione economica (1967)

1 – L’articolazione regionale del Programma

Questi studi ebbero una origine ed una utilizzazione particolare che vale la pena di illustrare; infatti senza conoscerla si potrebbe essere indotti a considerarli manchevoli o lacunosi per molti aspetti, mentre essi dovevano essenzialmente servire per scopi limitati. Essi nacquero da un incarico che il Centro di studi e piani economici ricevette congiuntamente dal Ministero del Bilancio (Ufficio del Programma) e dal Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno; tale incarico riguardava la valutazione – sulla base di diverse analisi – di alcune alternative di «regionalizzazione», simultanea e coerente, degli obiettivi (quantificati) dello schema di sviluppo economico contenuto nel Programma quinquennale 1966-70. Come è noto, lo schema di sviluppo economico del Programma, conteneva e contiene obiettivi di reddito, occupazione e produttività, solo a livello delle tre grandi circoscrizioni del Paese: «Triangolo», «Mezzogiorno» e «Resto d’Italia». Si trattava di vedere con quali criteri e in quale modo si poteva arrivare ad una ripartizione di questi stessi obiettivi per ciascuna regione, all’interno di ogni circoscrizione1.

2 – Il metodo per la determinazione di obiettivi regionali di occupazione, produttività e reddito

Il metodo generale scelto per arrivare alla suddetta regionalizzazione degli obiettivi di occupazione, produttività e reddito del Programma, è stato quello di esaminare e confrontare gli effetti, nei fenomeni in questione (e su tutta una serie di altre variabili economiche e sociali collaterali prese in considerazione), di una serie di ipotesi esplorative fondate sulla considerazione di diversi «punti di vista». Alla base del metodo prescelto vi è stata la scarsa fiducia di poter abbracciare simultaneamente, in un insieme unico, tutti i «punti di vista» e attribuirgli una scala ordinale di valori o di funzioni in modo da creare un meccanismo di calcolo che permettesse di giungere ad una soluzione ottima, vincolata alle funzioni assegnate ai diversi «punti di vista. Si è creduto opportuno – invece – in una prima fase, arrivare a delle soluzioni ottimali parziali , separatamente per ciascun «punto di vista», anche se in molti casi queste soluzioni necessariamente tenevano conto in modo non sistematico, di criteri che si attingevano un po’ dovunque, anche nel campo dominato da un «punto di vista» diverso da quella da cui si partiva.

Lo scopo era quello di osservare quali scarti si verificassero nei risultati ultimi, in termini di tutte le variabili economiche e sociali prese in considerazione, dall’applicazione dei diversi «punti di vista» (o ipotesi). E si intendeva formulare solo a questo punto la soluzione empirica che rispettasse il maggior numero di esigenze rappresentate dai diversi «punti di vista». Si sono così considerati gli effetti su tutte le variabili prescelte2 di una serie di «punti di vista»: alcuni di un semplicismo estremo, altri più complessi ed elaborati, ma – come si è detto – sempre «parziali». Per esempio si è cercato di vedere quali effetti si sarebbero conseguiti in ogni regione, nelle circoscrizioni e nel Paese nel suo insieme, se:

  1. il saldo migratorio di ogni regione si annullasse fin dal 1964; o dal 1970; o dal 1975 o dal 1980;
  2. il peso demografico di ciascuna regione sulla popolazione nazionale rimanesse quello del 1964;
  3. il peso demografico di ciascuna regione sulla popolazione della circoscrizione di appartenenza rimanesse uguale a quello del 1964;
  4. venisse assunta l’ipotesi di costanza del peso demografico di ciascuna regione sulla popolazione circoscrizionale del 1964 al netto dei movimenti migratori intercircoscrizionali previsti dal programma nazionale;
  5. il peso della occupazione extragricola sulla occupazione extragricola circoscrizionale rimanesse uguale a quello rilevato nel 1964;
  6. venisse assunta l’ipotesi della piena occupazione delle forze di lavoro regionale, al netto delle forze di lavoro migrate (queste ultime ripartite secondo il peso regionale della occupazione extragricola al 1964);
  7. venisse assunta una ipotesi di una relazione costante tra l’evoluzione della produttività e lo sviluppo del prodotto lordo;
  8. venisse assunta l’ipotesi di sviluppo di ciascuna regione in base a) alle suscettività di insediamento ed alle risorse del territorio e b) in relazione ad alcune direttrici di sviluppo urbanistico;
  9. venisse formulata un’ipotesi di sviluppo del prodotto lordo di ciascuna regione in base ad una serie di scelte strategiche ed in base ad una serie di considerazioni sulla convenienza economica di allocare attività produttive in certe regioni piuttosto che in altre.

3 – La necessità di analisi territoriali preventive

Come si vede, alcune ipotesi, corrispondenti ad alcuni «punti di vista», sono di natura essenzialmente «politica» (per es. quelle relative ai movimenti della popolazione) e non pretendono avere alcun riferimento ad una razionalità economica o urbanistica. Altre, di natura più complessa, ricercano qualche razionalità. Come si è detto, questa la si è intesa ancorata solo a «punti di vista» parziali. Fra questi ultimi, due ipotesi – quella ecologica e quella urbanistica – (punti b e d del paragrafo h precedente) sono state concepite come scaturenti da una analisi territoriale.

Per arrivare infatti a formulare le ipotesi relative ad una razionalità ecologica o urbanistica era necessario portare a fondo una certa analisi del territorio – sia a livello regionale che circoscrizionale – . Di qui nacquero gli studi che vengono pubblicati in questo numero di «Urbanistica». Sia le ricerche regionali che quelle circoscrizionali sono infatti partite da due fondamentali esigenze:

  1. elencare le caratteristiche territoriali e formulare giudizi sulle diverse vocazioni o suscettività di uso del territorio di ciascuna regione;
  2. formulare giudizi sulle ipotesi di sviluppo urbanistico delle diverse parti del territorio – regionale e circoscrizionale – sia di carattere tendenziale che di carattere programmatico3.

L’esigenza di cui al punto 1 si riferisce alla distribuzione teorica della popolazione secondo l’applicazione di densità demografiche standards connesse alle varie forme di utilizzazione del territorio e all’ecologia degli insediamenti umani da preferirsi.

L’esigenza di cui al punto 2 si riferisce alla distribuzione teorica della popolazione secondo l’applicazione di macro-modelli di insediamento proposti a livello nazionale in base a «direttrici» di sviluppo urbanistico, che tenessero conto appunto dei «tempi» che l’applicazione dei suddetti macromodelli imponeva per il raggiungimento di una situazione ottimale.

In entrambi i casi, si è ricercato un criterio di «temporalizzazione» graduale degli obiettivi «a-temporali» – largamente coincidenti – delle ipotesi sia ecologica che urbanistica. Solo che, mentre la prima temporalizzazione è fondata su una meccanica applicazione di una relazione temporale lineare fra la situazione di partenza (consistenza demografica regionale attuale) e la situazione di arrivo (distribuzione demografico-ecologica ottimale), la seconda temporalizzazione, valutando le stesse situazioni di partenza, cerca proprio in base ad esse di fissare delle disuguali «direttrici di marcia» (valutate secondo specifici giudizi empirici) verso il raggiungimento della distribuzione demografico – urbanistica ottimale, in modo da rispettare le dimensioni organizzative e funzionali degli insediamenti, dettate dagli standards urbanistici4.

4 – Autonomia di significato degli studi territoriali nella programmazione

Gli studi territoriali (circoscrizionali e regionali) avevano lo scopo di costituire una base per la formulazione di due ipotesi (ecologica e urbanistica) di distribuzione ottimale della popolazione nelle diverse regioni (e quindi della occupazione, degli investimenti produttivi, degli impieghi sociali). Ciò malgrado, tali studi hanno di per sé costituito un primo tentativo di formulare, a livello nazionale e con criteri uniformi, delle proposte di assetto territoriale. Proposte che erano mancate nella redazione del primo Programma quinquennale5 e che avrebbero dovuto essere il contenuto del più volte richiesto e promesso «piano urbanistico nazionale», di cui tutti parlavano e che mai si vedeva. Quelle proposte infine che avrebbero rappresentato il modo concreto per inserire degli «obiettivi urbanistico-territoriali» nella pianificazione economica nazionale. Ecco perché forse tali studi meritano una pubblicazione autonoma indipendentemente dalla loro utilizzazione finale.

Per quanto concerne la relazione fra questi studi e il Programma nazionale, si può dire che per essere stati eseguiti su incarico del Ministero del Bilancio e della Programmazione, è probabile (oltre che auspicabile) che essi saranno presi in considerazione nel momento in cui si procederà alla «articolazione regionale del Programma» già annunciata nella Relazione previsionale e programmatica per il 1967 (e che dovrebbe essere resa ufficiale mediante la redazione di un documento apposito). Essi, ad ogni modo, sono già stati utilizzati dall’altro committente, il Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, per la formulazione del primo piani di interventi per il Mezzogiorno.

Per quanto concerne la loro relazione con il ventilato «piano urbanistico nazionale» essa è assai meno probabile; e giustamente improbabile. Infatti tali studi sono fondati – come si è detto – su una limitatezza di propositi che non li rende idonei a costituire la base di un piano urbanistico nazionale, anche se potrebbero essere considerati come un interessante contributo alla formazione di esso. La validità di questi studi è strettamente connessa alle verifiche e alle specificazioni che potranno essere operate in sede di studi per i piani urbanistici regionali. E il presente contributo potrà al massimo essere considerato il primo studio «provocativo» di ben più importanti lavori a cui gli organi competenti, ed in particolare il Ministero dei Lavori Pubblici, dovranno impegnarsi.

Per quanto concerne, infine, il significato di questi studi, come tentativo di inserire degli «obiettivi» urbanistici nella pianificazione economica (in altri termini per quanto concerne il loro significato metodologico riguardo alla pianificazione stessa) essi sono indubbiamente, di quel tentativo, una manifestazione importante. Essi si collocano nondimeno nel quadro di quella che il Centro Piani ritiene essere stata una sua particolare funzione e qualificazione. E su questo punto vale forse la pena di concludere con qualche sommario richiamo6.

5 – Per la definizione di «obiettivi urbanistici» della programmazione economica

La metodologia elaborata e applicata in proposito dal Centro Piani (e che qui non è il caso di affrontare nei dettagli) manifesta una precisa caratteristica: quella di considerare l’utilizzazione del territorio, non solo una variabile dipendente delle scelte economiche effettuate sulla base di accertate conveniente economiche di localizzazione, ma anche – in ragione delle sue concrete vocazioni e qualificazioni – un «obiettivo» del piano. Tale obiettivo, per quanto possa contenere ragioni anche economiche, viene formulato tuttavia in termini di obiettivi generali, ad un livello superiore, come obiettivo «sociale».Il «migliore uso» del territorio, non altrimenti che il «massimo impiego» delle risorse naturali, costituiscono un obiettivo del piano da esaminarsi autonomamente e preventivamente, sia pure in prima approssimazione in attesa di verifica complessiva di tutte le ipotesi di lavoro formulate. . Assunto come «obiettivo» ( e non solo come strumento) della pianificazione, il «miglior uso» del territorio richiede una sua definizione. In quanto «obiettivo» esso consiste:

  1. nella determinazione delle condizioni più o meno «permanenti» – d’ordine naturale, fisico e ambientale – che qualifichino l’utilizzazione del territorio, le sue destinazioni d’uso e le localizzazioni economiche;
  2. nella determinazione di schemi insediativi ottimali a livello preferibilmente regionale (comprensivi degli standard urbanistici) che anch’essi devono costituire obiettivo (che potrebbe dirsi «ecologico») di ogni tipo di pianificazione.

Situata in questa logica, la pianificazione fisica territoriale – intesa come pianificazione della utilizzazione del territorio – non può essere formulata solo «a posteriori» della determinazione degli obiettivi politici e sociali della stessa; e quindi costituire uno tra gli elementi costitutivi delle sue finalità. Naturalmente la pianificazione economica, che recepisce dallo studio territoriale, ecologico ed urbanistico i suddetti «obiettivi» territoriali, ritorna sul territorio quando deve operare le scelte di localizzazione.

In quel momento essa verifica la validità e la convenienza «economica», in termini di costi e di benefici, delle diverse alternative e corregge le eventuali inconsistenze e incoerenze. Nello stesso tempo l’analisi economica lo strumento per la definizione delle «priorità» temporali tra gli obiettivi prescelti, secondo i diversi orizzonti temporali della pianificazione. Il ritorno sul territorio della pianificazione economica – che apre dunque una «seconda fase» dell’indagine urbanistica – rappresenta una specie di verifica sistematica delle ipotesi-obiettivo di prima istanza: ecco perché nella metodologia applicata dal Centro Piani si sono chiamati gli studi urbanistici di prima istanza «ipotesi di assetto territoriale di lungo periodo» (e talora appunto perché il ragionamento ipotetico non si esaurisce in una prima istanza, anche «prima ipotesi di …»). Tra le ipotesi di assetto territoriale e il piano urbanistico vi è appunto tutto il processo di pianificazione del quale la prima sta «a monte» e il secondo «a valle». Nella metodologia tradizionale si sono avuti invece approcci diversi.

6 – Una impostazione tradizionale: il piano territoriale come «recipiente»

L’urbanistica tradizionale, fondandosi su una pianificazione territoriale di tipo cittadino e al massimo intercittadino, ha sviluppato il proprio lavoro fondandosi su ipotesi di sviluppo economico molto generiche, indeterminate e, nella maggior parte dei casi, rappresentate da estrapolazioni tendenziali. In questa prospettiva limitata si è sviluppata la tesi che il piano urbanistico potrebbe costituire l’indicazione dell’utilizzazione del territorio nel lungo periodo e quindi svolgersi con una relativa indipendenza dalle ipotesi economiche: infatti tali ipotesi, essendo fondate su un rapporto obiettivi-mezzi, ed essendo i mezzi sempre limitati, hanno necessariamente degli orizzonti temporale più limitati. Il piano economico, dovendo inoltre essere funzionale e strumentale all’attività amministrativa corrente, non potrebbe guardare troppo lontano. Se ne è dedotta così una sorta di «divisione delle competenze» fra piano urbanistico e piano economico, in base a cui il piano urbanistico formulerebbe scelte di fondo valide per il lungo periodo e il secondo scelte strumentali di più corto periodo. La maggior parte dei piani regolatori finora elaborati sono presentati come piani di destinazione di uso del territorio di lungo periodo (ventennale, trentennale e addirittura atemporale) da riempire man mano con fatti demografici, economici e sociali.

A parte il fatto che una siffatta distribuzione di competenze ignora che anche in direzione «non-territoriale» si potrebbe giustificare la elaborazione e la indicazione di prospettive di finalità di lungo periodo o addirittura atemporali, molti urbanisti hanno avvertito che la stessa funzionalità dei modelli insediativi può variare in relazione alle dimensioni demografiche ed economiche; e quindi il piano urbanistico ha scarsa autonomia rispetto a quello economico. Soprattutto il passaggio dalla pianificazione cittadina a quella di tipo regionale (che fu rappresentata in Italia dai «piani territoriali di coordinamento» dei Provveditorati alle OO.PP.), fu l’occasione in cui l’approccio urbanistico tradizionale si sentì inadeguato. La maggior parte dei lavori preparatori ai piani territoriali sul metodo tradizionale della raccolta piuttosto indiscriminata di «informazioni» statistico – economiche e talvolta sull’assunzione di ipotesi tendenziali. Ciò significava che, per la parte urbanistica, i piani si sarebbero limitati ad essere uno schema atemporale di interventi infrastrutturali (strade e trasporti innanzitutto) e, nel migliore dei modi, di normativa di tipo vincolistico e quindi ad una continuazione dell’approccio urbanistico tradizionale7.

7 – Un secondo, più evoluto, approccio tradizionale: niente piano urbanistico senza obiettivi economici

Ma è anche vero che la parte più evoluta e critica della cultura urbanistica che le ipotesi tendenziali fondate su informazioni statistiche – i cosiddetti «dati» della pianificazione territoriale – non potevano essere di concreto aiuto a formulare soluzioni urbanistiche di tipo adeguato alla modellistica ecologica (e quindi non solo a livello di indicazioni infrastrutturali).

Nacque pertanto la tendenza che potremmo chiamare del negativismo «critico»: non è possibile pianificare il territorio se prima non vengono definiti gli obiettivi economici del piano. La pianificazione territoriale non ha senso senza una preliminare pianificazione economica che ne stabilisce modalità e vincoli. Questo nuovo approccio, peraltro, che gli urbanisti presentavano come una manifestazione di modestia, veniva con molto piacere accettato dagli economisti sempre desiderosi di sottoporre le scelte territoriali al criterio della convivenza economica e del costo o a fornire vincoli economici alla «fantasia» tecnico-urbanistica.

Questo nuovo approccio, che certamente costituiva una reazione agli errori precedenti, era essenzialmente giustificato: a) dal livello territoriale in cui si applicava, b) dalla non considerazione che in molti casi gli urbanisti avevano di mostrato degli aspetti economici, c) da tutti quei casi in cui la mancanza di una efficace applicazione dei criteri di coordinamento interdisciplinare fra urbanisti ed economisti e in mancanza di una soddisfacente esperienza di pianificazione regionale, gli urbanisti si creavano da se stessi gli obiettivi economici e i relativi calcoli di convenienza economica, sbagliando oltre che nel metodo anche nel merito. Non è perciò da meravigliarsi che i più seri fra essi, e i più attenti tra gli economisti, richiedessero una più rigorosa attesa da parte degli urbanisti della definizione degli obiettivi politico-economici della pianificazione territoriale prima di indicare le applicazioni di essa8.

8 – Autonomia e integrazione disciplinare nel procedimento iterativo

Tuttavia, in una visione più organica e generale della metodologia di pianificazione territoriale, questo approccio ha, come si è visto, rappresentato una pericolosa rinuncia ad inserire tra gli obiettivi generali di un piano quelli scaturiti anche dall’analisi territoriale. E ciò ha portato a sottovalutare che la configurazione degli insediamenti umani nei fatti, oltre che ad un interesse economico, può condizionarsi ad un interesse più generale, che potrebbe dirsi «sociale», e che di quello economico può essere la parte preponderante ma non esclusiva.

L’assenza nel primo piano quinquennale italiano di una seria impostazione territoriale ed ecologica dello sviluppo economico è in larga parte da attribuirsi proprio all’influenza esercitata da questa posizione che abbiamo chiamata del «negativismo critico»: la convinzione che nessuna ipotesi territoriale, nessuna modellistica urbanistica avrebbe avuto senso concreto senza un preventivo approccio economico che ne fissasse vincoli e condizioni; la convinzione che l’urbanistica avrebbe contribuito solo a razionalizzare la localizzazione delle scelte economiche dopo che queste fossero formulate.

Fin dall’inizio, il dibattito, la riflessione, la ricerca e le concrete esperienze di pianificazione, maturati nel gruppo dei collaboratori del Centro Piani seguirono una strada diversa: il recupero di un autonomia disciplinare ad un livello più approfondito del metodo di cooperazione e di pianificazione, in una logica di approssimazioni successive.

E gli studi che qui si pubblicano, in quanto finalizzati alla formulazione di ipotesi ecologico-urbanistiche preventive ad una valutazione economica di sintesi, ne vorrebbero costituire una testimonianza.

NOTE

1 La disaggregazione regionale così desiderata degli obiettivi circoscrizionali e regionali doveva essere condotta sulla base di alcune analisi regionali, circoscrizionali e nazionali che per la formulazione degli obiettivi nazionali e circoscrizionali non erano state necessarie; per es. essa presupponeva delle ipotesi di sviluppo naturale della popolazione per ogni regione, mentre per la formulazione degli obiettivi nazionali e circoscrizionali ci si poteva accontentare di fondarsi su previsioni demografiche a livello delle circoscrizioni o del Paese. Lo stesso vale per l’analisi di altri fenomeni, quali l’occupazione possibile nell’agricoltura, lo sfruttamento di altre risorse economiche regionali ecc. Da tutto ciò ne conseguiva che gli obiettivi contenuti nel Programma potevano anche risultare inconsistenti rispetto alle riaggregazioni e alle somme circoscrizionali e nazionali risultanti dalle analisi degli obiettivi regionali. Ecco perché le analisi affidate al Centro Piani dovevano per quanto possibile rispettare i vincoli circoscrizionali e nazionali contenuti nel programma, ma non necessariamente. In molti casi si è potuto fornire una duplice formulazione di obiettivi regionali: quella «libera» e quella «vincolata» ai dati circoscrizionali del Programma. Gli studi affidati al Centro Piani hanno pertanto acquistato il carattere di studi di verifica, mediante un approccio disaggregato regionale, degli stessi obiettivi del Piano nazionale.

2 Le variabili considerate riguardano: l’evoluzione della popolazione in base al solo movimento naturale; i movimenti migratori interni di popolazione; la forza di lavoro; i movimenti migratori interni di forza di lavoro; l’occupazione nei settori extragricoli; il prodotto lordo delle attività extragricole; il fabbisogno di capitale necessario per lo sviluppo del prodotto lordo dei settori extragricoli.

3 Il metodo seguito – o meglio che avrebbe dovuto essere seguito dalla maggior parte delle monografie regionali – fu discusso e definito in occasione di un Seminario di studio promosso dal Centro di studi e piani economici a Fregene (Roma) nella primavera del 1965 e al quale parteciparono oltre che tutte, o quasi, le équipes che partecipavano alle ricerche regionali, anche un certo numero di esperti come Giuseppe Bianchi, Luigi Bruni, Nicola Cacace, Vera Cao-Pinna, Carlo Crescenzi, Glauco Della Porta, Vincenzo Di Gioia, Franco Fiorelli, Mario Fiorentino, Fausto Fiorentini, Giuseppe Orlando ed altri. Il seminario fu introdotto da una relazione di Piero Moroni sul tema:«Dati, variabili ed obiettivi della pianificazione territoriale».

4 L’utilizzazione pratica di queste ipotesi è avvenuta in via ancora provvisoria in uno studio del Centro Piani su Un primo schema di sviluppo economico regionale a lungo termine per l’Italia, che costituisce la prima applicazione delle ricerche affidate dal Ministero del Bilancio e dal Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno. I risultati complessivi e finali dei calcoli saranno pubblicati nei Quaderni del Centro in un volume (a cura di F.Archibugi e D.Manna) dal titolo Vocazioni territoriali e popolazione. In questo lavoro (in corso di pubblicazione presso l’editore Boringhieri di Torino), saranno illustrati con maggior precisione e dettaglio i metodi utilizzati (di cui si è fatto solo un rapido, e necessariamente non esauriente, cenno).

5 Le ragioni per le quali si è giunti alla formulazione e redazione di un Programma di sviluppo economico e sociale, senza la presenza di un’adeguata «componente urbanistica», si è tentato di individuarle e argomentarle nell’introduzione al volume edito dal Centro Piani: La città-regione in Italia. Premesse culturali e ipotesi programmatiche, in particolare nell’introduzione (a cura di chi scrive) dal titolo: «Verso la definizione di obiettivi urbanistici nella pianificazione economica». ( Boringhieri, Torino 1966).

6 Questa parte conclusiva riprende, con molta approssimazione, parti di un’analisi contenuta nell’introduzione già citata nel vol. del Centro Piani La città-regione in Italia, ecc.

7 Si veda al proposito la già citata pubblicazione «metodologica» del Ministero dei LL.PP.: I piani regionali. Criteri di indirizzo per lo studio dei piani territoriali di coordinamento in Italia, Roma 1952.

8 L’espressione più avanzata di questa posizione è quella adottata a conclusione del Congresso di Milano dell’INU nel 1962 nelle relazioni di De Carlo e di Lombardini. Il De Carlo ne aveva fatto un’ampia e critica esposizione anche nella relazione di sintesi ad un seminario dell’ILSES del gennaio 1962.

da: Urbanistica n. 49, marzo 1967; studi pubblicati nel quadro di ricerche del Centro di studi e piani economici iniziati nel 1964, a livello interregionale e regionale, per un abbozzo di assetto territoriale nazionale, utile alla programmazione economica

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