L’Orto Verticale del Nonno

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Foto J. B. Hunter

Esistono varie interpretazioni dell’agricoltura urbana, corrispondenti a diverse sensibilità e prospettive di osservazione, che forse è meglio riprendere brevemente. Innanzitutto c’è l’idea del tutto spontanea, naturale e istintiva diremmo nel millennio dell’urbanizzazione planetaria, di riportare dalle parti della nostra vita quotidiana qualcosa che non abbia a che fare in senso stretto con la urbs artificiale di pietra ferro cristallo e parafernali vari di cui abbiamo iniziato a circondarci qualche centinaio di generazioni fa. Tutto andava benissimo finché quelle mura artificiali servivano a proteggerci dalla natura nemica, il freddo il bagnato le bestie aggressive e gli umani ancora più bellicosi e rapaci. Ma a pochi passi la natura e la campagna restavano ampiamente a portata di mano, vuoi per raccoglierci i pomodori, vuoi per respirare le brezze di maggio. Almeno finché non ci si sono messi l’industria, il treno, e infine l’automobile, allargando all’infinito gli spazi artificiali e allontanando sempre più quelli aperti. Così oggi, quella gran moda un po’ goffa, un po’ nostalgica, un po’ cosa assai seria e ben organizzata dell’agricoltura urbana, serve a far sì che almeno a pezzettini un po’ di quegli spazi e profumi tornino a portata di mano e di naso. Non è poco, ma non è tutto.

La dialettica delle convergenze parallele

Una seconda prospettiva di osservazione dell’attuale fenomeno dell’agricoltura urbana, non può andare disgiunta dall’idea di maggiore integrazione e funzioni miste caratteristica della città post-moderna. Allo stesso modo in cui ci si sforza di non riprodurre più i guai della monofunzionalità industriale, residenziale, commerciale (cascando però ancora e colpevolmente in certe più odiose segregazioni sociali ed economiche), così la mescolanza di differenti qualità di spazi, pubblici, privati, destinati alle attività o alla residenza e servizi, rivolti a un numero il più possibile elevato di fasce d’utenza, vorrebbe diventare la norma. Se consideriamo la medesima prospettiva anche per tutto ciò che ha a che vedere con l’agricoltura in senso lato, dalle varie forme di produzione e prima trasformazione, all’emergente ruolo didattico-scientifico, al banale uso del verde produttivo anche nel ruolo ambientale decorativo e per il tempo libero, si capisce immediatamente il senso della cosiddetta infrastruttura verde. Ben oltre certe banalizzazioni estetizzanti di tipo greenway, almeno nel senso limitativo interpretato da certi progetti, dove non si va molto oltre un percorso arredato.

La tecnologia è nulla senza obiettivi sociali

Resta un terzo, importantissimo aspetto, ed è quello delle tecniche produttive agricole pure strettamente legate alle questioni dell’urbanizzazione planetaria, degli impatti ambientali, degli obiettivi alimentari ed economici. Molto si è parlato, di solito superficialmente, della cosiddetta vertical farm, senza mai sottolinearne l’aspetto più interessante, ovvero che si tratta di uno strumento di urbanizzazione e addomesticazione dell’agricoltura moderna e tecnologica in ambiente urbano. Dove ambiente urbano sta per tantissime cose, ivi compresa l’integrazione sociale, come hanno capito benissimo per esempio gli attivisti del movimento Growing Power, vero e proprio agente di riqualificazione urbanistica e socioeconomica equa e solidale, a mille miglia da certe torri esclusive proposte incongruamente dagli studi di architettura. Ed è uno di questi studi di architettura, Spark, a proporre per il contesto ad elevata densità di Singapore una sua interpretazione della vertical farm, in fondo basata sul concetto noto a tutti, dell’orto dei nonni: un complesso sviluppato in altezza, e rivolto a fasce di età anziane, al cui interno sono disponibili strutture avanzate di produzione ai vari piani, integrate da sistemi di irrigazione, energetici, di trasporto interno eccetera. Rinviando ai link a piè di pagina per i particolari, una osservazione: pur nella ricerca di integrazione urbana, il solo riferimento alla fascia di età anziana evoca più la casa di riposo, o magari la gated community assistita, per vecchi ricchi. Ovvero, giustissimo pensare a un ruolo attivo sociale dei non più giovani, ma con un luogo segregato come un edificio monoclasse e a sole due funzioni (residenza e agricoltura) non si va da nessuna parte. Se non a riprodurre le vecchie lacune della città industriale, da cui dovremmo appunto uscire.

Riferimenti:

Spark Architects, Homefarm

Christa Avampato, Singapore urban farm design looks to engage active seniors, Seedstock, 5 aprile 2015

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