La «filiera sostenibile dell’allevamento» è una fake news per bambini scemi

foto F. Bottini

Ci costruiamo una morale piuttosto arbitrariamente. Crediamo di essere guidati esclusivamente da condivisi valori universali e conoscenze fondate, ma spesso veniamo influenzati da qualcosa di più profondo di cui siamo inconsapevoli. In particolare, tendiamo ad associare immagini e sensazioni più o meno spontanee dell’infanzia a tutto ciò che è buono e giusto. Quando vediamo qualcosa che le rievoca ne veniamo attratti irresistibilmente e gli attribuiamo un valore etico. Ciò deriva dal convergere di due fattori: la ricerca di sicurezza e conforto in ciò che ci è più familiare, ciò che gli psicologi definiscono «effetto primacy». Ovvero la prima cosa che ascoltiamo su un dato argomento sarà anche quella che ricordiamo meglio e più facilmente accettiamo. Una inclinazione che ci porta ad una verità illusoria: ciò che ci è più familiare sarà anche più vero. E si arriva anche a sacrificare la propria vita a queste verità illusorie.

Tra cui spicca sin dall’infanzia quella dell’allevamento di bestiame buono a prescindere. I bambini piccoli in età pre scolare ascoltano di continuo storie di fattorie e animali. Le impressioni di libri album cartoni – sempre l’allevamento come luogo di gentile armonia – paiono difficilissime da sradicare, indipendentemente dalle informazioni successive sulla realtà ben diversa del settore. Vediamo qualcosa che anche lontanamente ci evoca le remote immagini della fattoria con gli animali, e si accende una luce interiore, e quando ascoltiamo argomentazioni a sostegno di quella tesi siamo sempre propensi a crederci. Ciò, mi pare, spiega il gran successo di tutta la comunicazione tesa a presentare gli allevamenti in una prospettiva rosea, come succede con recenti film quali Kiss The Ground oppure. L’ultima puntata di questa serie è una pellicola britannica intitolata Six Inches of Soil, oggi proiettata con ottimo consenso di pubblico nei circuiti di cinema indipendenti. Ci presenta le traversie di tre giovani allevatori inquadrati «nel primo anno del loro percorso di rigenerazione». Molto ben costruito, ricco di spunti e racconta storie interessanti. Ma anche, evocando esattamente ciò che vorremmo ascoltare, fatalmente sbilanciato e soprattutto assai fuorviante.

L’allevamento di bestiame fa a gara col comparto combustibili fossili per il primato nel contribuire alla distruzione del pianeta. Ma con la memoria della narrazione da fattoria, confermata da altre ascoltate da adulti o lette in tanti libri a celebrare un mondo pastorale, ce ne costruiamo una immagine assai diversa. Ci sono parti di questa pellicola che potrebbero ritagliate fare da spot pubblicitario per quello che è il più dannoso prodotto degli allevamenti: la carne bovina. Ma la cosa più sconvolgente è che il film non sia stato ispirato dai commercianti di carni, bensì dagli ambientalisti. Ci mostra un allevamento in Cornovaglia che prova a contenere gli effetti del cambiamento climatico. Hannah Jones, di una associazione che si chiama Farm Carbon Toolkit, spiega all’allevatore come facendo crescere strisce di arbusti sui confini dei poderi e boschetti interni alla proprietà «si riescano ad eliminare più gas serra dall’atmosfera di quelli emessi dal bestiame allevato». L’allevatore, Ben Thomas, replica: «Si tratta di uno straordinario strumento di marketing per noi».

Mi pare che si tratti di un messaggio fuorviante. Perché tra non molto l’allevatore le strisce ad arbusti di separazione dovrà tagliarle, rilasciando parecchie più emissioni di quelle assorbite. Anche nelle sequenze del film lo vediamo tagliare alberi nei suoi terreni per consentire il passaggio agli animali, che ossideranno gran parte del carbonio accumulato in vent’anni. Cosa più importante, non si fa menzione del vero rovescio della medaglia: se si eliminassero gli allevamenti dalla tenuta e la superficie fosse lasciata a inselvatichirsi, si accumulerebbe molto più carbonio sia sopra che sottosuolo, e senza alcun contrasto dalle emissioni dell’azienda. Il Climate Change Committee governativo calcola che il passaggio da pascolo a bosco in Inghilterra potrebbe «incrementare lo stoccaggio di carbonio nel suolo di venticinque tonnellate l’ettaro» in media. Visto che riduciamo questi consumi di suolo del 76% circa spostandoci su una dieta a prevalenza vegetale, la stessa opportunità di usare superfici per l’allevamento dovrebbe entrare nel dibattito su come si contengono o meno le emissioni.

Ma passiamo all’argomento suolo. Dal film emerge la chiara impressione che Thomas abbia risparmiato parecchio sull’arco dell’anno aumentando i contenuti di carbonio del suo terreno. Indicando sulla «tavola delle emissioni e sequestri» di Jones una massiccia crescita di carbonio nel suolo sottolinea: «Straordinarie comunque le fasce ad arbusti e ottimi anche i boschi. Ma il colpo grosso l’ha fatto il suolo». Cosa però estremamente improbabile. Prima di tutto perché mancano studi scientifici a quel proposito condotti coi necessari criteri, che dimostrino davvero la diminuzione di gas serra accumulati nel suolo di un allevamento di bestiame. Ricerche recenti ci dicono perché esperimenti del genere non sono riusciti né mai riusciranno: sia perché i suoli si saturano in fretta di carbonio e non possono assorbirne più, sia perché mancano le tecnologie per dimostrare davvero la tesi della variazione annuale. Inoltre, per stabilire che il carbonio è stivato dal suolo, anziché semplicemente e ciclicamente passare attraverso esso, si dovrebbero conoscere cicli costanti da 20 o anche 30 anni.

Quando ho chiesto a Farm Carbon Toolkit come potevano sostenere questa affermazione è arrivata la vera bomba: quella sequenza, «editata dalla produzione» del film, forse non esplicitava che non si stavano in realtà discutendo i veri dati dell’allevamento bensì uno «scenario modello». In altre parole, senza dirlo allo spettatore, quei dati non erano veri. Glie l’ho contestato, e i produttori l’hanno ammesso spiegandomi come «sia anche possibile» un intervento di editing sulla versione on-demand della pellicola. E speriamo che lo facciano davvero. Nel frattempo avvertiamo almeno il pubblico in sala, sul fatto che il messaggio possa essere fuorviante. Quelle sequenze mi paiono irresponsabilmente ammiccanti il contestabilissimo fatto che i bovini possano in qualche modo proteggere l’atmosfera. Pare un po’ come se un ambientalista girasse un film sull’estrazione artigianale del carbone, le vicende eroiche di onesti minatori, convincendo così il pubblico che l’estrazione di carbone fatta in quel modo sia una ottima cosa per il pianeta.

Ovvero una narrazione perfettamente allineata a tutti i tentativi di greenwashing della filiera degli allevamenti. Come nel film, dove si usa a profusione il termine «rigenerativo», che significa poi quel che più vi aggrada. Affermando il falso ovvero che il bestiame allevato possa diventare carbon neutral o addirittura carbon negative e che abbuffarsi di bistecche in fondo sia molto eco-friendly. Questo stile persuasivo di racconto ha concreti e devastanti effetti. L’Unione Europea cancella il programma di ripristino naturale su pressione della lobby. Nel Regno Unito è in corso un attacco mediatico contro Natural England, montato dagli allevatori e dai loro eletti in parlamento, contrari alla tutela dei siti naturali. Non esiste alcun altro comparto di attività che abbia avuto tanti vantaggi da una propaganda gratuita montata da benintenzionati attivisti che però agivano a suo favore. È squisitamente umana la capacità di modificare le proprie convinzioni davanti all’evidenza:pare ora di esercitarla, questa virtù, superando la spontaneità infantile.

da: The Guardian, 15 aprile 2024; Titolo originale: There’s no such thing as a benign beef farm – so beware the ‘eco-friendly’ new film straight out of a storybook – Traduzione di Fabrizio Bottini

Commenti

commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.