Luci e ombre nella «mobilità urbana sostenibile»

Avete presente certe vecchie pubblicità dei dolcificanti dietetici, con la tizia o il tizio che si guardano estasiati la voragine tra l’orlo della panza e quello della gonna o pantaloni? Anche al netto da certe esagerazioni per segmenti di pubblico particolarmente gonzi («ho perso venti chili in due mesi senza sacrifici»), e dai poi conclamati spiacevoli effetti collaterali di quei pasticci, doveva apparire ovvio come si trattasse quantomeno di rimedi parziali a parte del problema. Se si è sgradevolmente sovrappeso, addirittura gravemente sovrappeso, di sicuro non è solo colpa dello zucchero nel caffè, salvo i casi patologici di qualcuno che a fronte di una dieta integerrima, tracanna ogni giorno venti caffè con tre o quattro cucchiaini di zucchero per volta. Diciamo che, al massimo, quella pubblicità con la gonna diventata di quattro taglie troppo abbondante ci diceva un pezzettino di verità da un lato, accostandolo alla verità vera dall’altro: bada a quel che mangi, e vedrai che risultati. L’errore, appunto, era non capire la forzatura, e si tratta del medesimo errore in cui casca certa propaganda per la cosiddetta «città sostenibile», quando confonde le pillole dolcificanti di turno (un piccolissimo e magari trascurabile fattore) con la complessità di stili di vita, spazi, funzioni, intreccio di casi particolari. Nel caso dei flussi, tema più che mai all’ordine del giorno, la famosa pillola dolcificante altro non è che la modalità di spostamento o comunicazione.

«Unum E Pluribus»

Se si parla di città sostenibile, occorre innanzitutto vedere sostenibile come, ovvero da dove si parte e dove si vorrebbe in linea di massima arrivare (un po’ come i miracolosamente dimagriti col dolcificante): c’è un problema di ingorghi? Di inquinamento atmosferico? Di sicurezza stradale? Di efficienza economica? Di accessibilità dei servizi? Ovvio che in qualsiasi città moderna tutti questi fattori coesistano, e una cosa tiri l’altra, ma il cocktail locale che si viene a formare è diversissimo, così come diversissime saranno necessariamente le ipotesi di «dieta» da applicare. I fautori del «progetto» ad ogni costo invece, di solito non vogliono affatto saperne di questa logica, se non come vago orizzonte programmatico, perché il loro obiettivo è solo venderci (politicamente o economicamente o entrambe le cose) la propria pillola miracolosa. Sugli effetti positivi della quale non vogliamo certo star qui a questionare, ma resta pur sempre che parliamo di una scheggia, dentro a un mosaico che ne può facilmente enfatizzare o cancellare l’apporto, in bene o in male. Il mezzo pubblico tradizionale è «buono» così a prescindere? Anche indipendentemente dagli effetti collaterali che indubbiamente avrà (nell’immediato delle trasformazioni e dei costi, nel medio e lungo periodo sulla complementarità o concorrenza ad altri mezzi ecc.) sia nel solo contesto della mobilità, sia in quello dell’organizzazione urbana, perché favorisce o meno certe localizzazioni. Lo stesso vale, anche per la mitica bicicletta, che non sarà mai troppo tardi riclassificare, da pillola miracolosa a pezzo di ferro buono o cattivo come tutti gli altri pezzi di ferro.

Cocktail a equilibrio variabile locale

Uno studio recente sull’incremento (giudicato notevolissimo) della «sostenibilità» dei trasporti a Vienna, appare ad esempio molto lontano dall’enfasi sulle due ruote a pedali tanto usata altrove in Europa e Usa. L’analisi, che si estende su un arco ventennale di politiche locali di mobilità e relativi risultati, classifica come «sostenibilità» la riduzione degli spostamento quotidiani in auto dal 40% al 27% del totale, un raddoppio dei viaggi in bicicletta (dal 3% al 6% del totale) e soprattutto un forte aumento nell’uso dei mezzi pubblici tradizionali, sia sfruttando di più la rete esistente, sia incrementandola con grossi investimenti finanziari, sostenuti all’unanimità da tutti i partiti, e riducendo al tempo stesso di una quota considerevole il prezzo degli abbonamenti annuali (un euro al giorno per tutta la assai articolata rete). Come si vede, è un quadro di sostenibilità assai soggettivo, parziale, per alcuni anche discutibile: nessuna particolare enfasi sulle biciclette e relative infrastrutture, o sul car sharing e in generale le economie della condivisione, e neppure sbilanciato su quegli aspetti che dovrebbero forse trovare un po’ di spazio in più, nelle riflessioni scientifiche e critiche. Mi riferisco, qui, ad esempio, ai movimenti diversi dal pendolarismo per studio-lavoro, o ai viaggi resi «virtuali» grazie allo sviluppo delle telecomunicazioni, o per concludere, ai veri obiettivi, di quella ricercata e dichiarata «sostenibilità» urbana.

Riferimenti:
Ralph Buehler, John Pucher,
Sustainable Transport in Vienna, bozza pdf  da sito dipartimentale, di articolo/relazione a un seminario della Harvard University Graduate School of Design (c’è anche una versione ampliata a sei mani e chiari scopi curricolari, sull’International Journal of Sustainable Transportation, ma è a pagamento e a prezzi di rapina)
Immagine di copertina da: Velocipedes, London 1869

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