Pedala su due ruote, ma non è un ciclista

Foto J. B. Gatherer

Gli osservatori della mobilità ciclistica urbana pare non riescano a trovare una spiegazione razionale, a un dato di per sé inequivocabile: diversi sistematici studi su diverse esperienze locali, rilevano che gli incidenti di qualche entità (con ferite che richiedono cure) sono meno, molti di meno, nel caso di chi usa una bici in condivisione, rispetto a chi circola pedalando col proprio mezzo. Nel caso americano, addirittura, c’è stato un solo caso di incidente mortale col bike sharing un tutta la storia nazionale del sistema, che dura dal 2010, contro una media di circa 700 ciclisti morti sulle strade ogni anno. Anche al netto della primissima, ovvia osservazione secondo cui in generale l’esposizione dei ciclisti tradizionali è molto superiore a quella degli utenti della condivisione, il divario resta comunque impressionante, e quella «no known cause for that disparity» per usare le parole del rapporto, si presta a qualche considerazione. O meglio, ad essere osservata come sintomo e conferma di qualcosa di già assai presente, nella discussione sulla mobilità sostenibile, che possiamo assimilare alla distinzione fra approccio delle corsie segregate e/o degli spazi e ambiti condivisi. Che qui non intendiamo certamente nell’accezione tecnico-progettuale, vuoi ispirata alle teorie di Hans Monderman, vuoi al contrario orientata alle attuali tendenze delle bike expressway in sede propria, ma nel rapporto con la città e il territorio in senso lato.

L’essere umano al centro

La divaricazione tra le vittime di incidenti in bicicletta condivisa o tradizionale, potremmo iniziare considerandola in una prospettiva interna anziché esterna, visto che quella esterna pare lasci sconosciuta la causa. Magari certo in fluisce il luogo, la lunghezza del percorso, il tipo di convivenza coi veicoli a motore, addirittura la qualità relativa del velocipede, ma se gli studi sistematici non sono arrivati a qualche genere di risposta ci sarà pure un motivo. E allora, in prospettiva interna: chi è, l’utente del bike sharing? Il turista capitato provvisoriamente in città e desideroso di girarla avidamente immerso nel flusso, il pendolare che ripete regolarmente il medesimo itinerario ogni giorno usando la bicicletta come segmento di una struttura più complessa, il cittadino che occasionalmente per far spesa o altre commissioni invece dell’auto o del mezzo pubblico o della passeggiata, opta per una pedalata da una stazione-rastrelliera all’altra. Ma ancora, cosa hanno in comune, ben oltre l’uso di quel mezzo per finalità tanto diverse, tutti questi soggetti? È evidente fino alla banalità: sono esseri umani che si spostano, ovvero per dirla come quella scuola di progettazione di percorsi ciclabili: il ciclista non è un veicolo, ma una sorta di pedone accelerato. Se col mezzo tradizionale, specie letto nella prospettiva particolare delle associazioni di settore, questo aspetto passa in secondo piano, sostituito da una «alternativa all’auto» che fatica ad uscire da una visione analoga e contraria, col bike sharing l’identità pedonale si fa assai più visibile.

La bicicletta antibicicletta

Basterebbe la sola dislocazione delle stazioni, ravvicinate e focalizzate anche per tutt’altri motivi, a identificare questa forma dell’utenza: si sale sul veicolo ma con esso non ci si identifica affatto, visto che nel giro di pochissimo tempo lo abbandoneremo per tornare sulle nostre gambe e proseguire l’itinerario altrimenti. E quando si ascoltano certi rappresentanti delle associazioni criticare la scelta di alcune amministrazioni locali, di investire nel bike sharing anziché poniamo realizzare piste dedicate o altre infrastrutture, si intuisce in qualche modo che la questione sta proprio in quei termini: nulla di nulla a che vedere col ciclismo, salvo quel contingente mezzo meccanico. Cosa ottima, si badi bene, non certo un difetto ma una grande potenzialità, che dovrebbe spingere i governi locali a investire ancora di più, anziché scoraggiarsi quando pare non esista mercato. La vera difficoltà, sta proprio nel concetto, diversissimo dalla bicicletta in proprietà e addirittura antipodale rispetto a quella sportiva favorita dall’associazionismo: il mezzo in condivisione in sé e per sé potrebbe anzi in teoria senza alcun problema essere sostituito da qualcos’altro, purché in grado di svolgere con altrettanta efficacia la medesima funzione di «accelerare la pedonalità». Se la cosa vale per il mezzo, vale anche per la rete, e da qui probabilmente dipende in gran parte il successo o insuccesso dei sistemi messi in campo nei vari contesti: se il bike sharing è un organico segmento che migliora le connessioni tra nodi, flussi, e bisogni, a parte un periodo di adattamento non potrà che prosperare; se invece lo si concepisce come progetto a sé stante, con una sua autonomia, come una specie di giostra urbana o circuito chiuso, avrà successo finché durano la moda o altri fattori esterni.

Riferimenti:
Joe Lindsay, Do Bike Share Systems Actually Work?, Outside, 1 dicembre 2016

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