Prove tecniche di governo sovracomunale: comprensori e città (1967-1969)

Comprensori, province, pianificazione

Le esperienze di pianificazione intercomunale assumono nel periodo di convergenza fra programmazione e regionalizzazione uno specifico e non casuale ruolo. Non si tratta di un coincidenza, o dell’ovvia sovrapposizione di temi per contiguità di attori e strumenti, ma di vera complementarità, che mette in secondo piano le differenziazioni locali, riconducendole (semplificando al massimo) alla annosa polemica sul piano intercomunale: quale ente pianificatore? quale estensione territoriale? quale potere rispetto alle autonomie municipali? Anche in questo senso l’innovazione, rispetto al dibattito di Torino, 1956, salta all’occhio. I casi più noti delle regioni metropolitane circostanti capoluoghi regionali, e quelli meno noti di altre aree sovracomunali, attorno all’articolo 12 della legge urbanistica hanno costruito nel tempo architetture di piano e organizzative molto diverse. E questa “diversità” travalica di gran lunga i temi della pianificazione territoriale urbanistica, intrecciandosi coi temi amministrativi, le forme del consenso politico, i rapporti con il tessuto socioeconomico (“La pianificazione intercomunale in Italia. Le esperienze …”, 1967). Le migliori intuizioni urbanistiche degli anni Trenta, paradossalmente, ora si traducono in realtà nella totale assenza dei presupposti autoritari che sembravano ispirarle: sono vicende differenti, ma con un importante punto in comune: la partecipazione strutturata di vari attori ad un processo che non può essere ridotto al percorso progetto-attuazione, e che richiede un salto di qualità, scientifica e culturale.

Nella seconda metà degli anni Sessanta forme, dimensioni, obiettivi dei piani intercomunali per molti versi ricalcano ancora le “tipologie” immaginate nell’epoca di rifondazione dell’urbanistica italiana moderna: l’associazione di comuni ad hoc per rispondere a una sollecitazione esterna, indicata da Alessandro Schiavi nel 1925; l’accordo fra capoluogo e centri di prima cintura per evitare attriti e irrazionalità, conservando l’autonomia amministrativa e di scelte urbanistiche locali, teorizzato da Virgilio Testa nel 1933 e perfezionato nella legge del 1942; l’idea del piano metropolitano come processo in continua evoluzione di Cesare Albertini, 1936-1942, analoga alle molte ipotesi di comprensorio socioeconomico variabile, di complementarità e non sovrapposizione fra governo locale e pianificazione territoriale. Anche l’alternativa fra planification-planning e planisme-plotting sembra superata (dal punto di vista metodologico, se non strettamente professionale) da un coordinamento determinato non dall’omogeneità e diffusione territoriale dei piani, ma da una prospettiva complessa, in cui l’urbanistica si colloca senza preoccupazioni di “supplenza” ad altre competenze.

Resta aperta la questione delle entità provinciali. Dovranno trovare un nuovo ruolo diverso da quello di entità sub-regionale di pianificazione territoriale, o potranno riformarsi accogliendo le domande di coordinamento che in un modo o nell’altro emergono dai comprensori intercomunali? E quale rapporto funzionale potrà instaurare la provincia con le autonomie locali? L’attivazione delle regioni non è in qualche modo in contrasto con la sopravvivenza delle province? Giovanni Astengo nel 1946 aveva indicato un possibile percorso di integrazione fra regionalismo e strutture territoriali sovracomunali, indicando la provincia/comprensorio come entità base di pianificazione. Contemporaneamente, Silvio Ardy aveva ripreso il tema, accantonato in epoca fascista, della possibile differenziazione istituzionale fra amministrazioni locali, in particolare nelle aree metropolitane, a governo speciale denominato “città-regione”, ad unire l’emergente entità socioeconomica e territoriale al processo di riforma dello stato. L’interpretazione antiregionalista dei liberali, con la proposta della “provincia ambrosiana”, pur accogliendo alcune condivisibili istanze di efficienza, eludeva di fatto l’esigenza di rappresentanza e partecipazione delle istanze territoriali, nella forma complessa indispensabile in un regime democratico.

Comunque si voglia giudicare l’articolazione di queste idee, emerge almeno un elemento costante: l’individuazione dello spazio provinciale/comprensoriale come cellula di pianificazione, dove gli apporti di varie discipline possano trovare sintesi, attuazione, continuità operativa. In questo senso, l’avvio delle regioni potrebbe determinare un contesto nuovo, e semplificare il problema. Si potrebbe ipotizzare un sistema dove «la Provincia… appresta piani comprensoriali che superano i piani comunali stabilendo determinate dimensioni minime del Comprensorio… le priorità e i tempi di attuazione, coordinando e verificando l’adeguatezza dei singoli atti urbanistici comunali al piano comprensoriale… La Provincia costituisce inoltre l’ente di attuazione e di coordinamento… l’Ente cioè che realizza il piano regionale» (Peracchi, 1967a, p. 21). È a ben vedere una riproposizione di altre proposte , ma pone le basi al superamento di una questione ormai divenuta ideologica: costi quel che costi, il “comprensorio” è diventato una bandiera, e non si può prescindere da questo slogan, i cui contenuti sono in gran parte fluttuanti. Hanno buon gioco, ora come in passato, i tentativi di rivestire questa parola di significati vari, in modo molto simile a quanto già accaduto con la “regione”: capro espiatorio di tutti i mali, dimensione ottimale per la soluzione dei problemi, fino a quando il confronto con la realtà concreta non ne ripresentava l’intera gamma di questioni, da quelle risolte, a quelle semplicemente rinviate.

L’idea di convivenza fra la tradizionale provincia e l’innovativo comprensorio si riassume così: l’ente esistente non perde nulla delle sue prerogative, anzi ne acquista in termini di coordinamento territoriale; l’ente comprensoriale innovativo si fa carico di nuove esigenze, sinora non “coperte” da alcuna competenza o autorità. Le esperienze di piano delle associazioni intercomunali hanno chiarito la difficoltà, per obiettivi specifici, che però l’attivazione degli enti regionali renderà via via meno ardua. Dunque «tra una dimensione… regionale .. e la dimensione comunale o quella volontaristica piccolo comprensoriale… deve trovare… posto un istituto che traduca in precise linee sul territorio le indicazioni di piano “regionale”, che… con propri organismi… realizzi (coordinandole) le opere previste, ne stabilisca una sequenza… Ecco il significato… della proposta già avanzata di far coincidere l’Ente di pianificazione urbanistica (il comprensorio, nell’accezione comune) con l’Ente Provincia» (Peracchi, 1967b, p. 84). Comunque si voglia giudicare questa posizione, alla luce del senno di poi emergono almeno due fatti importanti: l’approccio della politica è fortemente conservatore, anche quando apparentemente brandisce e maneggia con disinvoltura idee e concetti che l’elaborazione scientifica ha faticosamente elaborato e perfezionato per decenni; la pubblicistica delle discipline territoriali, non sembra percepire esplicitamente questo “scippo” terminologico a fini di semplice consenso, confidando forse nella panacea del mutamento di prospettiva determinato dalle Regioni.

Anche l’esame dell’attività dei Comitati Regionali per la Programmazione Economica, dal punto di vista dell’articolazione territoriale e del rapporto con le circoscrizioni amministrative, ne mette in risalto l’ambito spaziale come semplice scelta burocratica, così come accaduto con i gruppi degli anni Cinquanta per i piani territoriali di coordinamento. La scelta, indipendentemente dagli strumenti scientifici e dai poteri delegati, dipende ancora dal diffidente conservatorismo dei costituenti, a cui con venti anni di immobilismo si aggiunge un sapore di ineluttabilità. Sostenere con motivazioni discutibili, a volte risibili, la dignità regionale di Romagna, Sabina, Daunia, Salento, era segno di provincialismo politico, premessa al “provincialismo” pianificatorio, paventato sin dall’immediato dopoguerra da urbanisti conservatori come Vincenzo Civico e Cesare Chiodi. Probabilmente, oltre gli elementi degenerativi, il trionfo delle specificità locali contro la gerarchica piramide fascista, in un momento di massima fluidità politica e istituzionale, stava a indicare diffidenza delle comunità locali nei confronti dei poteri centrali, che l’attivazione delle Regioni sicuramente non risolverà una volta per tutte.

L’azione dei comitati di programmazione non si presenta come un percorso in discesa per l’attuazione del decentramento: «ognuno di questi governi simulati (C.R.P.E.) è costretto a prefigurarsi la società regionale: una società ad esempio dove devono essere mantenuti tutti i valori comunitari tradizionali; dove i centri urbani non devono superare determinate dimensioni ritenute “umane” per poter dare il massimo di partecipazione; una società “integrata”… con un certo equilibrio tra le varie branche della struttura economica» (“I Comitati Regionali …”, 1967, pp. 29-30). Quale spazio debbano avere, in questo contesto, i rapporti fra circoscrizioni, autorità corrispondenti, pianificazione urbanistica sovracomunale, non è dato sapere. Pure, almeno sin dalle proposte di Emilio Colombo, emergeva un rapporto apparentemente consolidato fra programma, regionalizzazione, piano urbanistico ed entità territoriali intermedie. Questa consequenzialità, alla vigilia di attuazione degli enti regionali, sembra attenuarsi notevolmente.

Molto spesso, si è sottolineata una certa attitudine della disciplina urbanistica all’autoreferenzialità. È anche vero, però, che essa nel corso dei decenni ha saputo cogliere, o intuire, alcune tendenze di mutamento culturale, aggiornando sia i propri strumenti di lettura della realtà, sia quelli di interlocuzione con i vari poteri decisionali a cui operativamente deve riferirsi. Questa capacità di adattamento strutturale, e non semplicemente di superficie, che intreccia le questioni di carattere tecnico con quelle di sensibilità sociale, secondo alcuni avrebbe portato l’urbanistica a rappresentare, più di altre discipline, un vero e proprio “spaccato progettuale” della società italiana: nelle aspettative di efficienza, nelle richieste di partecipazione e decentramento, insomma nella aspirazione ad una “modernità per tutti”, oltre gli steccati ideologici. Si comprende meglio, con queste premesse, la notevole assonanza fra linguaggio e temi del dibattito specializzato, e istanze più popolari e diffuse: «noi pensiamo che per garantire veramente la democraticità della pianificazione debba essere integralmente accettato il principio… di decentrare le scelte in modo che la responsabilità di ogni scelta corrisponda al livello operativo… lo stesso rapporto che garantisce alla regione l’autonomia dal centro politico nazionale… debba valere per garantire l’autonomia dei comuni e dei comprensori» (Piazzo, 1967, p. 18). È evidente il travaso di termini tipici del dibattito sulla pianificazione territoriale ad altri più vasti e popolari ambiti e livelli di discussione. Ciò significa da un lato l’accettazione diffusa di alcuni temi, dall’altro un rischio di diluizione e banalizzazione della terminologia, una volta decontestualizzata dall’ambito neutro del confronto scientifico, o quantomeno professionale.

Del resto la pianificazione territoriale ha certo un ruolo nel processo di riforma dello stato, ma questo ruolo non può andare oltre la predisposizione di dati, obiettivi e strumenti, delegando qualunque decisione ad organismi rappresentativi. «Partecipazione e programmazione sono la sintesi politica di cui oggi ha bisogno la nostra società. Le Regioni sono oggi il punto d’avvio, dal quale cominciare la lunga strada della riforma dello Stato… l’attuazione dell’ordinamento regionale dovrà rafforzare e potenziare le autonomie locali, liberando finalmente le molte energie oggi frustrate dal centralismo, dal circolo vizioso delle procedure ferme ad una legislazione di cent’anni fa… La Regione non dovrà entrare in concorrenza con gli Enti locali, ma svolgerà una funzione di programmazione e una di coordinamento. Una volta elaborate le direttive, l’attuazione concreta di queste va demandata agli Enti locali» (Bassetti, 1967, p. 50). Senza questi elementi base, qualunque forma di pianificazione territoriale, pur con un ampio sostegno sociale ed economico, potrà connotarsi al massimo come “azione dimostrativa”, certamente auspicabile e legittima, ma altro rispetto alla solida base scientifica, programmatica e di consenso da lungo tempo perseguita dalla disciplina, e che il quadro della programmazione nazionale sembra aver riconosciuto e legittimato.

Politiche per le città

Coerente al clima dell’epoca, è l’impostazione generale del notissimo Amministrare l’urbanistica, di Giuseppe Campos Venuti, che nel 1967 raccoglie riflessioni di taglio certamente specialistico disciplinare, ma fortemente inserite nel filone più ampio che intreccia riforma regionale, programmazione economica e piani urbanistici, rapporto con le domande sociali emergenti. Dal punto di vista della pianificazione sovracomunale, Campos ne ricostruisce la vicenda recente come un succedersi di avanzamenti teorici, almeno dal Congresso di Venezia del 1952, a cui però è mancata una attività sperimentale pratica. Per i piani intercomunali, sicuramente più avanzati sul piano operativo, la questione centrale emersa è quella dell’ente responsabile del processo di promozione, compilazione e attuazione. I consorzi e le assemblee dei sindaci sono, a parere di Campos, solo un palliativo temporaneo, strutture destinate ad esaurirsi in tempi molto più brevi di quelli commisurati ai problemi. Ciononostante «la sottovalutazione dell’aspetto istituzionale sembra comune in generale a molti degli studi in corso. È invece proprio all’aspetto istituzionale che è legata una caratteristica basilare dell’intervento urbanistico: quella cioè di rappresentare insieme all’intervento economico la duplice manifestazione di iniziativa globale affidata ad un organismo politico-amministrativo di tipo orizzontale» (Campos, 1967, p. 86).

Oltre la ricerca della una soluzione perfetta, circoscrizionale e organizzativa, è possibile allo stato delle cose ipotizzare un uso coordinato delle strutture esistenti: l’istituenda regione, le province, i comuni. Per la dimensione “comprensoriale” vera e propria, «l’unica sostituzione che sembra a taluni possibile rispetto alle possibilità offerte dalla sovrastruttura esistente, è quella delle province con i comprensori» (ibid., p. 86). Per la dimensione regionale, l’approccio di Campos è ugualmente pragmatico: esistono certamente regioni geografiche, socioeconomiche, e anche geo-urbanistiche, non coincidenti, né fra loro né con i ritagli amministrativi. Anche l’ambito della programmazione economica, con i suoi riflessi di pianificazione territoriale, potrebbe quindi in parte contraddire questi ritagli, facendo riferimento ad una quadro a tre macroregioni omogenee, e ad aree di transizione. Ma di nuovo, la ricerca di una soluzione perfetta creerebbe problemi istituzionali, e l’ennesimo rinvio di ogni riforma: molto meglio, accettare i confini attuali, e accelerare l’operatività del programma e della pianificazione urbanistica.

A ben vedere, queste riflessioni rappresentano, più che un compendio di urbanistica, una sintesi della sua funzione sociale, a dimostrazione dell’impulso dato dal grande “contenitore” del programma nazionale allo sviluppo del dibattito interdisciplinare sui temi del territorio. Le sole riflessioni sul possibile utilizzo della struttura stato-regioni-province-comuni a fini di pianificazione, senza radicali e immediate modifiche, testimoniano l’evoluzione che in pochi anni ha portato dalle strutture di governo parallele del primo Codice dell’urbanistica ad una convergenza di notevole rilevanza. Del resto, il solo avanzamento del dibattito teorico, pur positivo, rischiava di essere fine a se stesso, di allontanare la cultura urbanistica dalle sue “ragioni sociali” fondative. In più, come ricorda il titolo di uno studio contemporaneo a quello citato di Campos, una strategia di sviluppo regionale in Italia si deve qualificare come Politica delle città, valorizzando gli spazi metropolitani, favorendo la ricomposizione degli squilibri, con politiche focalizzate sugli insediamenti. Da un lato le tradizionali aree metropolitane del triangolo industriale «concentrate in un ambiente denso di umori urbani e che sono attività di decisione e di riflessione più che di esecuzione, onde la loro maggiore necessità di avvalersi di una “materia grigia” convenientemente valorizzata» (Compagna, 1967, p. 226). Dall’altro i centri intermedi, sia nel rapporto con i poli maggiori, sia in quello con il rispettivo hinterland. E a ben vedere, aree metropolitane e centri intermedi sono il cuore del dibattito urbanistico sulla regionalizzazione/comprensorializzazione, sul coordinamento territoriale, i piani intercomunali, le strutture tecniche e di rappresentanza.

In una logica realistica di articolazione del programma, accettare il ritaglio regionale esistente è, quindi, prova di realismo, e insieme atteggiamento “tattico”, visto che comunque la querelle dei vari approcci al problema circoscrizionale è tutt’altro che esaurita. Una prospettiva comune potrebbe essere proprio la politica delle città, ovvero focalizzazione sull’armatura urbana del paese, in cui l’idea originaria di città-regione diventi, da oggetto isolato (come variamente nello studio di Aquarone, 1960, o nel seminario ILSES di Stresa, 1962, o ancora almeno in parte negli studi raccolti da Archibugi, 1964), fulcro di una ridefinizione territoriale possibile. Detto in altri termini, le circoscrizioni regionali italiane, così come sono, appaiono imperfette, ma l’adeguamento dei confini a scopi di programma non è così urgente, almeno non quanto l’ammodernamento dell’armatura urbana nazionale «su cui si deve agire sia che il reale processo di articolazione geografica sia appena avviato, sia che esso sia avviato male o infine sia ormai avanzato ma lungo strade ulteriormente impraticabili» (Muscarà, 1968a, p. 41).

In tempi medi o lunghi, l’impulso dai poli metropolitani basterà, da solo, ad avviare una riforma dei confini provinciali e regionali, sulla base di gerarchie evidenti, a cui anche l’aumentato ruolo politico delle città di riferimento dovrebbe contribuire. Altre innovazioni conseguenti, come una comprensorializzazione formale oltre che di fatto, o il riconoscimento delle macroregioni economiche articolate in unità diverse dalle attuali, di scala intermedia fra regioni e province, potranno scaturire da questa scelta strategica. Ancora una volta, però, la soluzione di un dubbio ne genera di nuovi: le città-regione non entreranno automaticamente in competizione con le regioni a statuto ordinario, prima ancora del loro varo definitivo? E con quali criteri, se non quelli centralistici, verranno individuate le aree prioritarie di investimento pubblico? Non finirà, la ricerca di una nuova forma circoscrizionale in un momento di transizione politica come quello verso le Regioni, per bloccare ancora una volta meccanismi decisionali?

Estratto da F. Bottini, Sovracomunalità (1925-1970) – Elementi del dibattito sulla pianificazione territoriale in Italia, Milano, F. Angeli 2003. In questo sito dallo stesso volume vedi anche Prove tecniche di città metropolitana (1956-1957)

Riferimenti Bibliografici

  • BASSETTI, Piero, «Regioni nella struttura dello Stato», Il Comune democratico, luglio-agosto 1967 (editoriale ripreso da Esperienze Amministrative)

  • CAMPOS VENUTI, Giuseppe, Amministrare l’urbanistica, Einaudi, Torino 1967

  • «I Comitati Regionali per la Programmazione Economica. Prime riflessioni sull’avvio di un’esperienza», Città e Società – Studi e analisi sui problemi delle comunità urbane, maggio-giugno 1967

  • COMPAGNA, Francesco, La politica delle città, Laterza, Bari 1967

  • MUSCARÀ, Calogero, «Per un nuovo equilibrio economico-territoriale – Le cento città d’Italia e gli Enti-regione», Comunità n. 151, 1968

  • PERACCHI, Erasmo, «L’articolazione territoriale dello Stato e la posizione dell’Ente Provincia», Città e Società – Studi e analisi sui problemi delle comunità urbane, maggio-giugno 1967

  • PERACCHI, Erasmo, «Provincia e comprensorio nella prospettiva regionale e nel quadro della programmazione economica nazionale», Città e Società – Studi e analisi sui problemi delle comunità urbane, settembre-ottobre 1967

  • «La pianificazione intercomunale in Italia. Le esperienze di Bergamo, Bologna, Milano e Torino», Città e Società – Studi e analisi sui problemi delle comunità urbane, marzo-aprile 1967

  • PIAZZO, Petrenzo, «Urbanistica: un’alternativa di fondo», Il Comune democratico, marzo 1967

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