A volte anche il silenzio sarebbe molto smart

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Foto F. Bottini

Complice una perversa inclinazione della nostra politica prima a banalizzare, poi a adeguarsi alla gran moda contabile, il tema delle città intelligenti e quello delle applicazioni high-tech di gestione settoriale hanno finito per sovrapporsi. Fermate qualcuno per strada, e alla parolina magica smart city metterà mano alla fondina, estraendo con gesto più veloce del West telefonino connesso o tavoletta multimediale. Seguiranno raffiche di dissertazioni forse tantissimo smart, ma che alla fin fine con la city hanno poco o nulla da spartire.

Tutto attorno all’etereo e immateriale sta la città quella vera, che evidentemente non abbastanza smart da fare immagine è lasciata a sé stessa e ai suoi guai quotidiani. Perché attorno alle pie intenzioni e a qualche monolite sparso per le strade non nasce spontaneamente (istituzionalmente spontanea) qualcosa di più integrato, dove si mescolano sul serio flussi fisici, sosta, smistamento, occasione, scambio? Perché la prossimità fra city users, o semplicemente cittadini senza anglicismi di troppo, non entra davvero in risonanza con lo spazio, la dimensione micro e quella allargata della metropoli? La risposta è appunto nei paragrafi che precedono: nessuno ci ha proprio pensato, che quella parola – city – significasse proprio tutto, e non un marchio di fabbrica di una famiglia di tecnologie. O almeno gli approcci provassero a essere un pochino più trasversali del solo investimento/appalto per qualche app sofisticata per gestire la sosta dei furgoni della manutenzione edilizia in modo da non infastidire le signore dei quartieri bene, o per sapere in tempo reale dove ci sono le migliori offerte di un certo servizio, senza però potere incrociare l’informazione organicamente, chissà, sull’ambiente urbano generale in cui questo servizio viene erogato: anche quello è un criterio di scelta, no?

In realtà molti questo problema se lo sono posto da tempo, costruendo un sistema di valutazione incrociato che costruisce classifiche di qualità smart, in cui si sommano i punteggi della qualità ambientale, della partecipazione dei cittadini, dell’efficienza generale, della trasparenza … e le tecnologie, dove stanno le tecnologie? Stanno al loro posto, le tecnologie, ovvero quello di strumenti per raggiungere una finalità, non di obiettivi in sé e per sé dotati di qualche valore: la città non è una grande associazione di nerds brufolosi che parlano tra di loro in gergo inziatico a colpi di termini incomprensibili. I tags, nelle nostre città, anche nella forma virtuale non sono più utili di quelli spruzzati con la bomboletta sui muri, se non portano a una migliore fruizione dello spazio e dell’ambiente urbano.

Curioso ma non troppo, che con questi criteri abbastanza oggettivi e ragionevoli la leggendaria New York amata da finanzieri, ambientalisti bipartisan, modaioli, poeti maledetti ecc. non si classifichi gran che bene. Evidentemente c’è qualcosa che potrebbe fare molto meglio di quanto non faccia: bene però veicoli elettrici e mobilità dolce soprattutto col bike-sharing, rigenerazione urbana sostenibile, il piano strategico a indirizzo energetico e climatico promosso da Bloomberg. Roba molto tangibile, dove la componente virtuale ovviamente c’è eccome, ma si impasta da subito col cemento l’asfalto la terra dei parchi, l’aria l’acqua … E poi la gente: una delle cose che portano punti alla Grande Mela è open data: roba eterea, i dati accessibili, ma che come hanno spiegato infinite analisi indipendenti dall’introduzione del sistema di trasparenza, impatta molto concretamente sulla vita dei cittadini e la qualità dell’amministrazione pubblica, ivi comprese cose inusitate come la prevenzione incendi o la sicurezza dai crimini.

Non si può fare a meno di confrontare criteri comprensivi del genere con le graduatorie italiane di “qualità della vita”, dove spiccano sempre comuni di dimensioni microscopiche e praticamente sconosciuti, con poche eccezioni. Con tutte le cautele, qui è davvero il caso di chiedersi cosa diavolo intendano questi signori per qualità della vita, e sbucano i criteri fissati dalle Nazioni Unite per valutare la “felicità”, quelli che tanti critici della dittatura del Pil nelle politiche nazionali vorrebbero usare a costruire nuovi criteri di orientamento dello sviluppo. Riassumendo, abbiamo piccoli centri, in sostanza riducibili al centro storico monumentale, ambienti piccoli, familiari, una gestione sostanzialmente familiare dell’economia, una mobilità ridotta al minimo, la buona cucina, l’aria pulita perché tanto le attività inquinanti avvengono altrove … è un mondo reale? Oppure una specie di caricatura ridicola e artificiosa dell’universo Transition Town, al netto del mondo petrolifero-liberista-guerrafondaio ancora vivo e vegeto? Forse non è cercando la cosiddetta sostenibilità nell’ambiente amniotico del villaggio storico, che si va da qualche parte. A meno che sotto sotto non ci sia la pubblicità dei cannelloni della nonna.

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