Bestie!

ciucci

Foto F. Bottini

Sono passati tanti anni, non solo dall’espulsione originaria e definitiva degli animali dalle città per motivi igienici, ma anche dal loro ritorno di soppiatto nelle aree abitate, pur se in forme assai diverse. Sappiamo benissimo delle varie specie che a volte nelle nostre grandi città si conquistano un posto d’onore nelle leggende metropolitane horror, assalendo (soprattutto virtualmente) i bambini nella culla. E ci sono anche migliaia e migliaia di casi anche concreti e abbastanza estremi, dal coyote seduto sul frigo dei gelati in un fast food del centro di Chicago, addirittura ai leoni che frugano nei bidoni della spazzatura in certi suburbi africani.

Esistono grossi problemi con bestiole apparentemente del tutto innocue, quando per un motivo o per l’altro si è persa la capacità di gestirle in ambiente urbano, vuoi per sovraffollamento, vuoi perché sono ambiate certe regole di convivenza. Pensiamo a quanto accaduto col migliore amico dell’uomo, il cane, prima con la progressiva ingestibilità di certe razze aggressive, che non adeguatamente governate da padroni sbadati o incompetenti hanno fatto (e continuano a fare) danni e vittime, poi con la pura moltiplicazione degli esemplari, e della quantità di escrementi da gestire. Al punto che esistono spesso dei veri e propri delegati politici esattamente per star dietro alla questione ambientale, sociale, umana delle deiezioni canine, delle aree riservate, delle lamentele di singoli e comitati …

Una questione particolare è poi quella, più recente, della gran moda di ritorno dell’agricoltura urbana. Che oltre agli orti di quartiere o a certe sperimentazioni high-tech idroponiche si porta appresso anche un certo ritorno dell’allevamento nel tessuto densamente edificato delle metropoli. All’inizio è stato soprattutto un problema (e serio problema, da molti punti di vista) amministrativo e regolamentare: esattamente come lo zoning a volte schematico ed esclusivo, segregante finché si vuole, ma dotato di una sula logica e senso, anche la cacciata degli animali extra moenia si era installata nell’intrico delle normative urbanistiche e sanitarie. Tutto da risolvere anche nei dettagli, non solo per questioni abbastanza vistose come la voglia dei discendenti di Abramo di sgozzare un agnello nel cortile di un caseggiato popolare per la festa di Eid Al-Adha, ma pure per cosucce come il gallo che canta tre o trenta volte, a tutte le ore e rompendo mica poco le scatole ai vicini. Anche una cosa apparentemente poco ingombrante come un uccello che neppure vola, insomma, crea un mucchio di guai nella complessità metropolitana, se non la si affronta per quel che è.

Sicuramente la città moderna non si può per incanto trasformare nella cartoline della campagne di una volta, come vorrebbero in tanti, che sognano chissà perché di importare insieme alle zappe e sacchi di concime comprati al supermercato, anche magiche atmosfere rurali. Del mondo rurale manca, come ovvio e naturale, soprattutto la cultura, che non avrebbe senso in ambiente urbano: per esempio gli animali non sono affatto considerati delle specie di attrezzi/colleghi di lavoro, ma veri e propri pets, animali da casa e compagnia. Più un prolungamento del cane, del gatto, del canarino, insomma, che veri tentacoli di campagna allungati verso le vie cittadine. Un caso recente e abbastanza ridicolo, ma al tempo stesso paradigmatico, è quello delle galline abbandonate (sic). Una nota Associated Press ripresa da parecchi quotidiani locali raccontava come nello stato dello Iowa (stato che pare composto in gran parte da campi di granturco e polli che beccano il granturco) stia emergendo il fenomeno delle galline urbane abbandonate, e non solo lì, al punto che a Minneapolis c’è addirittura l’associazione Salvate la Gallina in Fuga. Centinaia, a volte migliaia di volatili starnazzanti e terrorizzati, che i neoruralisti pentiti abbandonano per strada o nei giardinetti esattamente come succede coi cani, ed esattamente col medesimo meccanismo di idiozia a chilometro zero.

Col cane lo sappiamo benissimo come funziona, questa perversione. C’è il cucciolo tenero batuffolo che piace tanto al piccolo Pierino, coi suoi occhioni ammiccanti nella vetrina del negozio di animali. Poi il batuffolo cresce, abbaia, la fa dappertutto, ha le sue esigenze e personalità, a differenza del telefonino o del peluche, e così si provvede a eliminare il problema. In stile urbano “democratico” moderno ovviamente, perché in campagna si sarebbe proceduto spietatamente con l’eliminazione fisica: adesso il problema si scarica sul groppone altrui, legando l’innocente bestiola a qualche guard rail, ciao ciao bambino. Con le galline non è molto diverso, salvo che la spinta iniziale mescola l’idillio ruralista da cartolina, e la più concreta cultura da chilometro zero del borsellino: le galline non abbaiano e non scodinzolano, fanno nutrientissime uova fresche. Ma così come il cagnolino/batuffolo perdeva le sue caratteristiche diventando adulto, allo stesso modo le pennute dopo un paio d’anni di produzione smettono di deporre le uova. In campagna cosa ovvia, al punto che ne è nato il famoso proverbio della gallina vecchia fa buon brodo, ma in città i piedidolci del ritorno alla natura plastificata non sanno proprio come gestirla, la cosa. E con l’eccezione di qualche pratica signora delle galline, che recupera il sapere della nonna (ma chi se li berrà poi tutti quei buoni brodi? un bel problema di colesterolo aggiunto) tutto si scarica sulle città, intese come popolazione, servizi, spazi, intasati di pennuto disorientamento.

Il problema è aperto, e iper-attività di associazioni per le galline in fuga a parte, dimostra che in genere le politiche urbane di cosiddetta ri-naturalizzazione vanno molto oltre le sole regole urbanistiche o sanitarie riformate, rispetto alle antiche ordinanze novecentesche dei divieti. Che non basti buttare un po’ di terra sul tetto di una fabbrica dismessa per ruralizzare la città, salta abbastanza all’occhio. Ma che per reintrodurre l’allevamento intra-moenia occorra un vero e proprio ribaltamento concettuale e culturale, forse non era altrettanto evidente. Gli animali da cortile, quando quel cortile non è più l’aia, quando il loro padrone non è più la moglie del contadino, in sostanza smettono di essere tali, esattamente come il coyote sul frigo dei gelati del fast-food in centro a Chicago di sicuro non ha la più pallida idea di cosa siano le grandi pianure aperte. Semplicemente, è tutto un mondo da scoprire e da imparare a gestire, ad abitare, perché ci stiamo immersi fino al collo anche noi.

Insomma ci sono un sacco di ottime intenzioni nelle culture e movimenti per la cosiddetta “sostenibilità”, ma per non tradursi nell’esatto contrario, ovvero alla fine irrigidire ancora di più gli ingranaggi della metropoli meccanica e artificiale così come è cresciuta sino ad anni molto recenti, bisogna scordarsi tutte le tendenze un po’ neoreazionarie di ritorno alla cultura contadina. Perché questa cultura, non solo è legata ad epoche lontane, abbastanza ovviamente impossibili e poco desiderabili da recuperare, ma perché sta immersa in un contesto improponibile per la nostra mentalità. A tanti fa orrore la sola idea del cucciolo scannato in cortile per la festività del sacrificio: beh, quella, anche mettendo da parte le questioni sanitarie, è solo una delle miriadi di cose (molte del tutto inimmaginabili) che un neo-ruralismo si porterebbe appresso. Vogliamo affossare la civiltà urbana, ovvero la civiltà e basta? Ovviamente no. E neppure auspicare di vivere in un pianeta urbanizzato secondo i criteri della metropoli-macchina, buoni solo per l’epoca in cui la contrapposizione/convivenza fra città e campagna aveva il senso che ci ha tramandato la storia. Nostra signora delle galline, prega per noi! (e anche per le galline, se sono credenti)

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