Antiurbanesimo pignolo, ci è o ci fa?

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Media densità, bassissima qualità, orrida segregazione – Foto F. Bottini

Si torna di continuo sul tema sviluppo del territorio, stili di vita e percezione individuale, perché pare importantissimo chiarire almeno due aspetti della crisi climatica e ambientale che stiamo attraversando: l’insediamento di tipo urbano è demograficamente prevalente a livello mondiale, e anche i nostri difensori di paesaggio vivono e tutelano ambiti di quel tipo; quando si parla di contenimento del consumo di suolo a usi urbani, inevitabilmente si finisce per parlare di densificazione, anche se il termine usato a vanvera, o inquadrato in una prospettiva tecnocratica inaccettabile, finisce per evocare solo reazioni di rifiuto netto. Città è necessariamente densità, in assoluto e in relativo, nel senso che l’idea stessa di città nasce nel momento in cui si affronta il problema di concentrarsi in un posto, e storicamente sviluppo urbano ha significato incremento della densità, ovviamente se la calcoliamo a scala di regione urbana. Come piace dire ai critici pro-sprawl quando sostengono certe loro elucubrazioni pseudoscientifiche, a questa dimensione Los Angeles è più densa di New York, il che appunto la dice lunga sulle premesse del ragionamento.

Giusto approfondire, e però …

Come invece piace sottolineare ai critici anti-sprawl, anche oltre gli ormai più che dimostrati impatti climatici ed energetici di questo modello insediativo a bassa densità locale, esiste il problema del rapporto perverso fra densità e funzioni, fra le tipologie d’uso dello spazio rigidamente e meccanicamente segregate. Succede che, seguendo in modo piuttosto scimmiesco certe norme tecniche e tendenze del mercato, si sono prodotti enormi baccelli o amebe in forma chiusa, segregata appunto, che contengono certi tipi di spazi e funzioni molto, troppo, infinitamente omogenei. Centinaia di ettari tutti occupati da villette unifamiliari di un certo tipo e di un certo prezzo, e abitate da un certo tipo di famiglia, situazione ulteriormente esasperata a volte da regole allargate di condominio che scoraggiano qualsiasi eventuale diversità. E lo stesso vale ovviamente per tutto il resto. Contro questo genere di perversione insediativa novecentesca, si invoca e si prova a praticare ovunque possibile qualcosa di simile a una versione aggiornata della città tradizionale, nel senso di altamente composita, integrata, e basata su un concetto di relativa prossimità, che rinvia alla densità. Ma certo, se poi iniziamo a guardare la questione da una prospettiva angusta come quella delle pure propensioni individuali, e poi a proporla come possibile modello da estendere alla complessità, sbagliamo di grosso. Eppure lo fanno, altro che, se lo fanno.

I biochimici dell’urbanistica

Un articolo di presentazione sul sito scientifico Science 2.0 parte esattamente da uno svarione del genere, con un gioioso ingenuo: “Quali sono le cause della segregazione? Chissà. Non sappiamo neppure dove si trova il confine. … Nelle città gli ambientalisti invocano più densità residenziale a diminuire gli impatti sul suolo, ma oggi una nuova ricerca pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences rileva come nelle città più dense esista più segregazione, anche nei quartieri che erano integrati. Mentre invece di solito le città più miste dal punto di vista razziale ed economico restano tali e integrate a bassa densità residenziale”. Questa ricerca è l’applicazione di un modello matematico – modello che si deve al premio Nobel per l’economia Thomas Schelling – agli spostamenti delle famiglie tra quartieri. La preferenza degli individui per stare il più possibile tra propri simili spiegherebbe il persistere della segregazione nonostante anni e anni di politiche per combatterla (?). E pare quasi ovvio che la percezione della differenza si attenui al decrescere della densità, esattamente per lo stesso motivo che ci rende del tutto sopportabile qualunque cosa, purché a debita distanza. Il vicino con orari diversi dai nostri, che fa la doccia alle cinque del mattino, o ascolta musica a volumi da discoteca a mezzanotte, è ovviamente assai più accettabile quando sta a trecento metri di giardino, invece che separato da trenta centimetri di soffitto. Ovvio che il modello matematico da laboratorio ci dica tante altre cose, sicuramente di grande interesse, ma non dobbiamo scordarci mai che appunto si tratta di un modello parziale, che tiene conto di una quantità minima di variabili rispetto a un contesto territoriale e storico vero.

Come ricorda correttamente anche la presentazione della ricerca “Certo si tratta di un modello semplice, ma si aggiunge alle conoscenze utili a comprendere i cambiamenti di un quartiere in reazione a uno stimolo esterno tale da produrre o rafforzare l’integrazione, e una possibile spiegazione al perché alcune città siano più segregate di altre”. Come ricordiamo, concludendo, noi, le ricerche scientifiche vanno benissimo: è la loro banalizzazione e indebita generalizzazione a renderle a volte addirittura inopportune, specie quando i termini usati si prestano a equivoci. Vero che la parola “densità” è di uso comune, ma risulta sin troppo facile (come fanno puntualmente e faziosamente alcuni) evocarne automaticamente certe interpretazioni estreme e tragiche, dal classico quartiere razionalista simbolo della segregazione novecentesca, agli alveari socialmente improponibili di certe recenti esperienze asiatiche. Insomma, un po’ come si dice sempre a proposito di cose delicate, dal nucleare, agli Ogm: maneggiare con cura, e rigorosamente in laboratorio, senza rilasciare all’aperto. Vale anche per i modelli matematici, teneteli lontani dai bambini.

Riferimenti:

Richard Durrett, Yuan Zhang, Exact Solution for a Metapopulation Version of Schelling’s Model, PNAS, Proceedings of the National Academy of Sciences, settembre 2014 [qui versione pdf in bozza a uso Durham University, North Carolina, agosto 2014]

End Segregation With More Suburban Sprawl, Science 2.0, 23 settembre 2014

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