Arretratezza spaziale suburbana

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Foto M.B. Style

Cosa significa la parola «urbanizzato»? E che senso ha, per converso, l’idea di «spazio aperto» più o meno naturale, che a questa urbanizzazione si pone come alternativa, vuoi complementare vuoi dialettica? Partiamo dalla risposta più semplice possibile, quella che in fondo sta alla radice della parola urbs (e un po’ la distingue dalla analoga polis): urbanizzazione corrisponde con artificializzazione a usi umani, abitativi e analoghi, in fondo tutto ciò che enfaticamente e sbrigativamente certo ambientalismo soggettivo bolla come «cementificazione». Termine apparentemente inequivocabile, che però chissà come scompare dai radar quando ad essere cementificati sono spazi e superfici vuoi di immediata utilità, vuoi di una certa condivisa qualità. Diciamo quindi, giusto per trovare un linguaggio comune, che la cementificazione è urbanizzazione impropria e probabilmente evitabile. Il gesto in sé, quello dell’artificializzazione, però, si può sviluppare in modi che sfuggono alla maggior parte dei critici superficiali, soggettivi e quindi poco riflessivi: c’è una cementificazione che salta agli occhi, e un’altra che non si nota affatto, e sembra lasciar le cose come prima o meglio di prima. C’è una bella citazione letteraria che fotografa questo stato della sensibilità media, ed è quella del suburbio secondo Italo Calvino: «Il signor Palomar, ha una casa, come tutti noi del resto, e questa casa è circondata da un prato, un bel prato curato, artificiale e naturale insieme, naturale perché costituito di un elemento naturale, l’erba (dicondra, loglietto e trifoglio), artificiale perché elemento aggiunto al paesaggio, del quale non farebbe naturalmente parte».

Sotto, sopra, di fianco a ciò che si nota

Arretramento tattico: in pratica Calvino ci sta raccontando questo modo abbastanza cauto di urbanizzazione, o cementificazione, considerata dal punto di vista di chi la fa. C’è la casa, indiscutibile sovrapposizione netta allo stato naturale del territorio, che però in qualche modo attutisce i propri impatti circondandosi di quel bel giardino «curato, artificiale e naturale insieme». Scopriamo che la naturalità sta nel fatto che si tratta di un prato, e l’artificialità nell’essere un prato che lì non sarebbe mai esistito, ma l’ambiguità non finisce certo qui. Il prato è certo «concettualmente urbanizzazione» in quanto prolungamento della casa nel paesaggio esterno, ma è anche urbanizzazione in senso fisico, dato che contiene muri di recinzione (magari ridotti al minimo se c’è lo steccato bianco, ma di quello si tratta), e sotto pochi centimetri di manto erboso artificiale, cosparso di qualche cespuglio importato, scorrono tubi, canaline, cavi, sia legati alle funzionalità del giardino come illuminazione o irrigazione, sia da e per la casa vera e propria. Fa parte del giardino spesso anche il percorso per l’auto tra il cancello di ingresso e il garage, per non parlare del caso, niente affatto raro, di box auto sotterranei o seminterrati che riducono quel prato a semplice «tetto verde», con poche spanne di terra sopra l’impermeabilizzazione: altro che natura! Qui al massimo di naturale c’è il simbolo, inventato di sana pianta dagli immobiliaristi che vendono il «sogno immerso nel verde», e devono fornirlo proprio così, con una simil-natura che inizia giusto sulla porta di casa. Ma neppure adesso è finita.

Infine: la convitata di lamiera

Quella striscia di verde posticcio, svolge anche una funzione assai importante e particolare di privacy automobilistica, di cui il simbolo è qui il citato vialetto d’accesso: ci passa l’auto di casa, mentre il resto dell’universo macchina rimane all’esterno, arretrato di quei fondamentali metri verdi. La famiglia ritrova intimità dietro la medesima striscia smilitarizzata, ben oltre la distanza fisica o l’isolamento acustico e atmosferico, e qui forse si può iniziare a intuire la «sintesi ideologica» a cui mira questo percorso logico piuttosto lungo, dalla parete perimetrale della casetta al ciglio stradale e viceversa: dimostrare che quella striscia è già a tutti gli effetti casa, urbanizzazione, cementificazione, e solo la complessa simbologia suburbana ce la fa apparire come qualcosa di diverso. Una volta capito e accettato questo ruolo, se ne possono anche trarre alcune conclusioni in termini di densificazione locale, ovvero il passaggio essenziale e a volte ineludibile, fra un generico aumento delle densità di popolazione per grandi territori con un tipo di organizzazione sostenibile, e la forma fisica assunta da tale processo. Due elementi di novità concorrono qui a indicare una prospettiva, e si tratta da un lato della domanda di ambienti più propriamente urbani da parte delle nuove generazioni, dall’altra le evoluzioni tecnologiche e di mercato legate all’oggetto automobile e alle sue infrastrutture. Un concorso di trasformazioni che rende le strade più aperte ai pedoni, diminuisce le necessità di spazio in generale per le auto (di carreggiata, di standard a parcheggio), e svuota di senso materiale e simbolico l’arretramento di parecchi metri degli edifici che chiamiamo impropriamente «prato». È proprio in questa striscia già di fatto urbanizzata, in definitiva, che potranno verificarsi quegli aumenti di densità edilizia tanto auspicati nelle varie idee di suburban retrofitting, o ipotizzate nelle nuove regole urbanistiche di molte amministrazioni. Quello che già era spazio urbano a tutti gli effetti, lo diventa così anche formalmente e di diritto, senza nulla perdere in termini di reale «immersione nel verde», visto che lo spazio aperto vero e proprio con questa opzione viene tutelato e confermato, specie nel suo ruolo di interposizione positiva con gli ambienti agricoli e di tutela naturalistica vera e propria. E tutto, solo scrollandosi di dosso quell’ideologia che voleva in qualche modo confondere il prato di rappresentanza sul davanti (front-yard) col giardino semi-naturale vero e proprio (back-yard).

Riferimenti:
Grace Mortlock, David Neustain, Reinventing density: overcoming the suburban setback, The Conversation, 20 novembre 2016

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