Centri commerciali: una introduzione (1)

Pareti di cristallo e pavimenti d’asfalto

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Foto F. Bottini

All’inizio di tutto sta un’immagine idilliaca e affascinante. C’è un palazzo di cristallo al centro di un parco della vecchia Inghilterra, dove le persone entrano ed escono a seconda dei capricci del tempo e dei gusti personali. Tra le laiche e luminose navate, continuando a contemplare il parco e a sbirciare se stia spiovendo, si conversa, ci si incontra, si beve qualcosa, e si possono anche comperare manufactured goods, probabilmente pezze di stoffa, merceria, qualche padella1. L’ipotetica scenetta descritta da un famoso autore si svolge alla fine del XIX secolo, e a ben vedere per quanto riguarda gli “interni” non c’è proprio niente di nuovo: la Galleria di Milano del Mengoni, o quella di Napoli, o i vari mercati coperti o passages come quello in cui Emile Zola ambienta Therese Raquin, assomigliano molto da vicino al modello. Ma in questo caso c’è una variabile fondamentale: le grandi navate trasparenti non stanno al centro di una grande città, ma in mezzo alla town/country della Città Giardino di Howard, a offrire (come il resto dell’insediamento in cui si collocano) insieme tutti i vantaggi dell’una e dell’altra, come promesso dal famoso Terzo Magnete del fortunato logo.

Come la storia si preoccuperà abbastanza rapidamente di dimostrare, al successo dei due modelli corrisponde un loro progressivo stravolgimento. Molti temi della città-giardino riconfluiranno di fatto nel dibattito mainstream – evidentemente caro agli operatori – della suburbanizzazione2, perdendo parte della originaria carica di innovazione sociale (e di potenziale politico) alla base dell’idea. Il palazzo di cristallo, decontestualizzato ma non troppo, e soprattutto privatizzato, sicuramente al lettore contemporaneo suona spontaneamente come il nonno materno del mercantile shopping mall suburbano, anziché l’erede nobile della basilica romana, o la versione coperta di una piazza o grande corte pubblica tradizionale. Ma c’è ancora (e per fortuna) chi si chiede se non sia possibile in qualche modo recuperare in positivo la carica di innovazione, l’idea di democrazia e decentramento alla base della Città Giardino3, anche a partire da un ragionamento sui suoi “figli degeneri”. Una “degenerazione” perlopiù indotta da un incomodo a suo tempo non previsto: un Quarto Magnete, convitato di lamiera che prende dapprima il nome di Ford modello T, e poi via via altri, fino alle piccole italiane 600 e 850 che negli anni Sessanta faranno da sfondo alla prima crescita della grande distribuzione.

Il rapporto strettissimo fra automobilismo e diffusione di nuovi insediamenti commerciali è colto quasi da subito, da un non abbastanza noto e visionario padre dell’urbanistica moderna: Benton MacKaye. Ecologista e animatore della Regional Planning Association of America insieme ai più noti Clarence Stein o Lewis Mumford, MacKaye sa esplorare con grande profondità e anticipazione soprattutto i temi del rapporto fra ambiente e sviluppo, come quelli indotti dalla diffusione automobilistica e relativa trasfigurazione territoriale e infrastrutturale. Sui lati delle highways, via via attratte dal flusso veicolare, si vanno ammucchiando funzioni di servizio varie, a formare quello che MacKaye definisce motor slum, problema urgente che prospetta di risolvere così: “dobbiamo prendere possesso delle fasce laterali, mantenendole libere dall’edilizia commerciale e conservando a beneficio dell’automobilista la piacevole vista dei vari aspetti della campagna, non rovinata dal chiassoso affollarsi dei cartelloni pubblicitari. Può sembrare un programma vasto, ma veramente è solo il minimo richiesto; e quando si considera la perdita di vite e di valori di proprietà, e di salute, e di piacere, generata dal nostro attuale modo di costruzione delle strade per automobili, il prezzo da pagare appare piccolo”4.

Naturalmente l’unico programma vasto che interessa gli operatori, in questo come in altri periodi storici, non è una pianificazione a scopi sociali e ambientali, ma la pura realizzazione di opere e infrastrutture, che come si sa portano comunque “progresso”. Credo sia questo, sostanzialmente, lo spirito con cui nasce in embrione la prima moderna struttura commerciale e di servizio pensata per la grande strada di comunicazione: non rapporto mediato col territorio circostante, ma pura aggiunta, tutta interna alla logica della grande opera di cui fa parte integrante. Si chiama freeway business center e si rivolge in esclusiva agli automobilisti in viaggio, con servizi che partono dall’ovvia pompa di benzina e annessi, ma si allargano subito alla ristorazione e al commercio vario (farmacia, articoli regalo, abbigliamento, accessori …). Questo freeway business center ha da subito (quando la grande striscia autostradale è solo ancora una parola e un’idea) una precisa configurazione spaziale, almeno per quanto ci interessa qui: è assolutamente ed esplicitamente estraneo al territorio circostante, accessibile in esclusiva agli automobilisti in transito, ed è anche visivamente schermato rispetto allo spazio – non importa se urbano o rurale – da siepi, alberature, terrapieni5. Ovvero, problemi di pedaggio e sicurezza a parte, l’esatto contrario di quanto proposto da MacKaye come antidoto alla crescita cancerosa del motor slum: non un percorso di integrazione fra l’attività economica del territorio e la nuova infrastruttura, ma una enclave commerciale che nasce esplicitamente e deliberatamente estranea all’ambiente e alla società locale. MacKaye esortava la società con il suo “dobbiamo prendere possesso delle fasce laterali”, l’idea della freeway nasce come esatto opposto, riducendole a pura somma tecnica di fasce di rispetto stradale e ambiti aperti ad altri usi, che evidentemente privilegiano la funzione commerciale, di servizio al traffico o che da esso trae altri vantaggi. Con tutte le parziali correzioni del caso, più o meno i fatti nudi e crudi mi sembrano questi.

Tipi di spazi, tipi di società

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Foto F. Bottini

Detto in altre parole e semplificando al massimo, se il commercio urbano si evolve parallelamente alla città mischiandosi alle sue varie strutture e funzioni nell’evoluzione storica, le tipologie di quello extraurbano hanno una genesi differente, dotata di complessità autonoma, che ha come riferimento lo spazio della strada, i cui ruoli cambiano via via a seconda del contesto e/o dei condizionamenti imposti dallo stesso format dell’insediamento commerciale. Non a caso si è data sopra una certa rilevanza al primo dibattito sulle arterie della motorizzazione di massa, tra le patologie insediative del motor slum, concrezione fungosa sui tronchi della nuova viabilità, e le soluzioni innovative quanto parziali del freeway business center, oasi nel deserto d’asfalto delle corsie di mobilità veloce. Perché l’originaria organizzazione dello spazio da cui discende il moderno insediamento commerciale è, soprattutto, la pompa di benzina. In termini elementari, questo organismo base possiede già in nuce tutti i requisiti delle infinite variazioni e complessità future e prevedibili. Sono tre ambiti: lo spazio pubblico in movimento della strada; la camera di decompressione del piazzale-parcheggio; lo spazio privato di sosta e consumo della pensilina, dell’edificio, delle attrezzature.

Richard Longstreth individua l’anello di congiunzione, fra le semplici potenzialità dell’originario distributore e i luminosi futuri dello shopping mall e dintorni, nell’offerta di servizi aggiuntivi che le stazioni di servizio (e, ci aggiungerei io, in particolare quelle nel semideserto extraurbano) iniziano ad offrire ai sempre più numerosi roadies6. Ed emerge subito l’altra specificità, già accennata, ovvero la logica di “colonizzazione dello spazio” che il commercio extraurbano di grande respiro si porta appresso dalla nascita: ad una sempre maggiore offerta di servizi e relativa complessità degli spazi, proposti da gestori indipendenti (presumibilmente locali) segue la “razionalizzazione” imposta dalle grandi compagnie, che limitano la gamma dell’offerta ai soli prodotti e servizi direttamente connessi all’automobile. Separatamente e con la stessa logica dei “tre ambiti”, si evolvono ancora ai primordi dell’automobilismo le tipologie più immediatamente identificabili come precedenti, il mercato drive-in e il supermercato, entrambi dotati di parcheggio, ma l’uno articolato per botteghe abbastanza tradizionali e distinte, l’altro dotato anche e soprattutto di organizzazione proprietaria e gestionale centralizzata, a segnare un’ulteriore evoluzione, di cui il più brusco “salto” spaziale fra ambito pubblico e privato (che anticipa lo scarto qualitativo fra il “fuori” e il “dentro”) è solo conseguenza.

La nascita di nuove tipologie architettoniche, insediative, gestionali degli spazi destinati al commercio, deve però essere sempre letta in parallelo con l’evoluzione sociale americana della prima metà del Novecento che, come già colto da MacKaye e ben oltre la facile retorica, assomiglia davvero alla migrazione ottocentesca sui carri dei pionieri, solo stavolta sulle automobili dei suburbanites7. Il suburbio, col suo schema diffuso a bassa densità, rende quasi impossibile per i servizi commerciali operare in modo tradizionale, ovvero stare vicini ad base di clientela sufficiente a sostenere l’esercizio. Emerge rapidamente la necessità di un nuovo modus operandi più adatto al nuovo ambiente. Lo schema stradale ramificato, all’origine dello sistema insediativo suburbano, fornisce una soluzione a portata di mano: sinora i commercianti erano andati verso i clienti; ora per la prima volta potevano appostarsi strategicamente, e aspettare che i consumatori guidassero fin lì. “Visto che un numero crescente di residenti suburbani faceva proprio questo, su strade sempre più rade ma sempre più larghe, crebbero insieme proporzionatamente le fortune e le dimensioni dei punti vendita suburbani. Suburbio e automobile creavano, in effetti, una nazione di consumatori liberi di andare dove volessero, come il mondo non aveva mai visto prima”8.

Oltre questa effettiva, anche se transeunte, libertà di movimento e acquisto, il meccanismo della gravitazione commerciale e della concorrenza (libera almeno quanto i consumatori) inizia quasi da subito ad aumentare le dimensioni dei punti vendita e loro aggregazioni, secondo uno schema che vede i primi “morti sul campo”, ovvero strutture rese obsolete dall’impossibilità di adeguarsi al mutato scenario dei bacini commerciali, modificati dalla nascita o crescita di nuovi centri, di nuove arterie stradali. Si tratta, evidentemente, di un normale dispiegarsi del “ciclo di vita” dell’impresa commerciale, ma a differenza del contesto urbano, dove la complessità dell’ambiente rende possibile e facilita il riuso degli spazi a funzioni modificate, un nodo di urbanizzazione specializzata nato nel deserto suburbano con una sola funzione, non sopravvive al suo venir meno, salvo come ghost town di spazi abbandonati, o solo in minima parte riutilizzati a funzioni povere, e comunque degradati a highway slum9.

Una tendenza comunque difficilmente identificabile negli anni del boom suburbano e delle corrispondenti tipologie commerciali, che si fissano più meno definitivamente verso la metà del secolo, nei famosi progetti di mall firmati dal più affermato architetto del settore, l’esule austriaco Victor Gruen, e nelle meno note combinazioni finanziarie e fiscali che ne consolidano il successo.

Anni d’oro e latenti contraddizioni

Nel 1954, il Congresso degli Stati Uniti, allo scopo di stimolare gli investimenti, approva alcuni provvedimenti che accelerano artificialmente l’invecchiamento degli edifici industriali e commerciali, aumentando conseguentemente le quote di ammortamento che è possibile detrarre dalle tasse. Il risultato è una vera cuccagna per i costruttori, e in particolare per i centri commerciali: nei primi anni le deduzioni fiscali sono tanto grosse da far risultare (sulla carta) sempre in perdita gli esercizi commerciali nel loro insieme. Si realizzano edifici e complessi per trarne quanto più denaro possibile con l’uso strumentale del deprezzamento accelerato. Poi, dopo quattro o cinque anni, gli edifici vengono rivenduti, e il ricavato reinvestito nella realizzazione di nuovi, più grossi: più costoso l’edificio, più alta la somma dell’ammortamento. È evidente come, in queste circostanze, la logica economico- fiscale prevalga su qualunque considerazione legata all’effettivo uso e utilità sociale del mall, figuriamoci per il suo ruolo e configurazione spaziale10.

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Foto F. Bottini

Alcune schematiche cifre ben riassumono il fenomeno: ancora nel 1953, ovvero l’anno prima che diventasse operativo l’ammortamento accelerato deliberato dal Congresso, in tutti gli Stati Uniti era stato realizzato un solo grande regional mall. Tre anni dopo, ce n’erano venticinque. Se si considerano tutti i tipi di centri commerciali, aperti, chiusi, lineari ecc., l’incremento in termini di superficie dal 1953 al 1956 è del 500%. Ciò premesso, forse non è un caso che la fortuna – critica e professionale – dell’immigrato austriaco Victor Gruen inizi proprio nel 1954, col centro commerciale di Southdale nella frangia suburbana di Minneapolis, dove secondo i critici dello Architectural Record si realizza un miracolo: “a Minneapolis è la città ad apparire mediocre e provinciale se confrontata col carattere metropolitano di Southdale”11.

Bruno Zevi, nella sua storia dell’architettura, dedica solo un paio di righe a tutta l’opera di Gruen, oltretutto delineandone un piuttosto incongruo percorso dalla periferia al centro: “Dopo aver impresso un volto ai grandi supermercati, trasformandoli in mini-città a funzione anche ricreativa, elabora il progetto per la downtown di Fort Worth”12. Diametralmente opposta la tesi del più attento e specialistico Longstreth13 il quale ritiene invece focale il ruolo degli spazi dilatati suburbani per dispiegare in pieno le potenzialità delle nuove forme insediative che Gruen, meglio di chiunque altro tra gli architetti noti, sa modellare sulle specifiche esigenze e strategie degli operatori commerciali.

E non è un caso se il modello più diffuso, da quello paradigmatico di Southdale in poi, sarà l’enclosed mall, centro commerciale “introverso”, che nell’avocare al suo interno tutta la complessità e articolazione funzionale (pur nella speculare potenziale brutalità di rapporto col contesto), meglio si adatta alle forme di realizzazione, organizzative e di gestione richieste dall’impresa. Le quali esigenze dell’impresa, sia detto per inciso, in tutta l’evoluzione degli spazi commerciali del ventesimo secolo la fanno ovviamente da padrone. Non a caso, come sottolinea ancora Longstreth, anche una personalità di spicco come Clarence Stein, pur attiva come consulente di vari progetti, non riesce ad orientare gli spazi del mall verso forme davvero sociali, pienamente urbane, articolate in una logica di simil-neighborhood. Col senno di poi, siamo alle origini del contemporaneo fenomeno big-box, e origini nemmeno troppo virtuali visto che proprio negli anni Cinquanta il negoziante Sam Walton fa muovere i primi passi al futuro colosso Wal-Mart.

Terre bruciate

In una vecchia canzone di fine anni Sessanta, Neil Young racconta la storia di un posto meraviglioso, fatto di insegne luccicanti, simpatici banditori, palloni colorati, chioschi di dolciumi. Un posto dove si va qualche volta con papà e mamma, ma ci si vorrebbe vivere, lì. Un posto che resta per sempre negli occhi e nella memoria14. Per alcune generazioni di americani (e poi anche di europei e italiani) lo shopping mall è anche questo, e non c’è ovviamente nessun motivo di meraviglia se si considera come molto spesso la qualità interna degli spazi, dei servizi, delle proposte sia estremamente elevata. Soprattutto, quando posta a paragone con la scarsità o totale assenza, in ambiente suburbano, di spazi e occasioni di socialità, incontro, divertimento, passeggio. E naturalmente tanti acquisti e consumi vari a pagamento.

Non è certo un caso se le complesse categorie delle funzioni umane sul territorio di Patrick Geddes o della Carta d’Atene si riducono spesso, anche nei migliori documenti prodotti dalla cultura della smart growth o del new urbanism, alla brutale triade live-work-shop. Un’abitudine sociale e diffusa, a collegare spontaneamente una serie di funzioni vitali a determinate organizzazioni dello spazio, che da tempo pongono il problema, come ha osservato Michele Sernini, “di cominciare a fare qualche distinzione tra ciò che vuole la gente, ciò che piace alla gente o che ‘ha successo’ o che la gente ‘mostra di gradire’, e ciò che la gente accetta in mancanza d’altro”15.

Non è certo un caso se quello del centro commerciale per gli americani è stato definito, letteralmente e documentatamente, un primordiale “richiamo della foresta”16. Del resto, e ormai in modo consolidato e comunemente accettato, “quale ancoraggio più sicuro, per le famiglie, di una grossa anonima scatola a temperatura controllata? E non si tratta solo degli adolescenti mall-rat, naufraghi al multisala i venerdì sera perché non possono guidare. Sono i branchi di anziani che hanno iniziato programmi di ‘passeggio da mall’ su consiglio del medico17 che temeva potessero scivolare sulla neve o sul ghiaccio. Sono le mamme di bambini piccoli che tentano di ammazzare il tempo”18.

Un luogo di identificazione delle famiglie, e quindi spazio pubblico per eccellenza (anche se squisitamente privato) che per la totalità degli abitanti suburbani coincide con una fetta considerevole della triade live-work-shop, visto che in quella grossa anonima scatola a temperatura controllata non solo si svolge la funzione del consumo, ma contemporaneamente anche grosse percentuali di vita associata, se non pure di lavoro per chi è occupato direttamente o indirettamente (trasporti, servizi) all’interno o a ridosso di un mall. Non è un caso se, consapevoli di questa situazione generalizzata, alcuni intraprendenti cittadini hanno anche citato in giudizio centri commerciali per “discriminazione” nei confronti di chi per vari motivi non poteva guidare un’automobile.

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Foto F. Bottini

Ma tornando all’identificazione personale e al ruolo nell’immaginario collettivo che le grandi superfici commerciali si sono ritagliate nei decenni, vale certamente la pena di citare il ricco contenuto di un sito internet interamente dedicato a questo tema, e che costruisce le proprie schede monografiche e storiche sui vari malls “defunti” (e quindi oggetto di vero e proprio culto, pur se laico) accumulando i contributi dei frequentatori. A solo titolo di esempio, basta citare il vero e proprio dickensiano tale of two cities che si sviluppa attorno alle vicende parallele dello University Mall e (anche fisicamente parallelo, visto che sta sull’altro lato della strada) del Park Plaza Mall, alla periferia di Little Rock, Arkansas.

I racconti intrecciati degli ex ragazzini ora maturi padri di famiglia19 narrano di esperienze a dire il vero abbastanza banali, ma soffuse di un’atmosfera piuttosto irreale se si pensa ai fatti che descrivono. Lo University è un centro enclosed, un po’ più vecchio del Park Plaza, che invece è organizzato su una struttura aperta, e le loro epiche battaglie per attirare più clienti del concorrente si giocano ovviamente non solo a colpi di offerte speciali e promozioni, ma anche di refurbishments più o meno radicali, che vanno dall’aggiunta di una vasca per i pesci in fondo alla navata principale, al cambio di anchor store, alla quasi totale ricostruzione del complesso edilizio, con parziale chiusura degli spazi pubblici per un periodo di mesi. A questo proposito, è piuttosto curioso il racconto di come uno dei narratori, bambino, segua i genitori dentro un labirinto di passaggi foderati di legno, da cui non si vede nulla fino a quando improvvisamente non si apre la vetrina illuminata di un punto vendita. Oppure, l’attesa di vedere il risultato finale, e la tristezza nell’osservare come, dopo lustri di fiera lotta per la supremazia, gran parte degli spazi del mall di concezione più tradizionale (il tipo a scatola prevalente da noi) risulti non utilizzata, oppure occupata da ristoranti etnici quasi sempre deserti, o da sedi di associazioni locali, mentre le erbacce invadono i parcheggi e le insegne al neon si spengono una dopo l’altra. Il motivo della crisi, naturalmente, è l’apertura di un centro più grosso, più all’esterno dell’area metropolitana, che per la già citata legge della gravitazione commerciale20 erode la vitalità di quelli minori già esistenti, trasformandoli in quello che la pubblicistica specializzata chiama greyfield, “zona grigia”21.

E questi greyfields stanno ormai sparpagliati in abbondanza per tutto il nord America, e non solo, a segnalare che il ciclo di vita dell’impresa commerciale nel caso della grande distribuzione coincide anche con quello delle superfici occupate. Greyfield è infatti un sito che, come quelli descritti dagli ex frequentatori nostalgici, ha già subito tutte le revisioni possibili, dalle più soffici e superficiali alla ricostruzione dalle fondamenta, cambio di anchor, di proprietà e management. Salvo quella che sempre più spesso si auspica, da parte degli studiosi, degli abitanti, delle amministrazioni: la trasformazione della città virtuale in città vera, dove alla flânerie consumistica si sostituisca il mai dimenticato sidewalk contact teorizzato quasi mezzo secolo fa da Jane Jacobs, quando già l’idea e la realtà annegavano tra ordinanze di zoning a promuovere aree monouso, e paralleli orientamenti degli operatori mirati a “certezze dell’investimento”.

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Foto F. Bottini

Uno studio effettuato da un istituto di ricerca specializzato nel 2001 su un vasto campione USA, calcolava che i greyfields esistenti fra i centri commerciali di scala regionale rappresentassero il 7% del totale, cui andavano aggiunto ben il 12% di altri malls non ancora desertificati, ma sulla buona e sicura strada per diventarlo nel futuro prossimo. La maggioranza di queste (moltissime, davvero) vittime dell’evoluzione commerciale si colloca in aree a basso reddito, o divenute tali con gli anni, con abitazioni vecchie di tipo popolare o simili. Le considerazioni finali della ricerca concludevano così: “riteniamo che la ristrutturazione di queste zone grigie in aree residenziali ad alta densità e a usi misti possa essere di beneficio ai malls regionali esistenti, vitali e in buona salute”22. Ancora, mescolata a ragionevoli considerazioni puramente “tecniche” sul fatto che la ristrutturazione urbanistica anche radicale non è niente di nuovo, sembra emergere un’idea di insediamento ben diversa da quella di suburbia, i cui strumenti progettuali si chiamano tra l’altro infill development (aumento della densità locale) e mixed use (compresenza ravvicinata, piuttosto anomala per la media delle cittadine americane, di usi residenziali, commerciali, produttivi e terziari).

La parola d’ordine, per titillare i gusti degli investitori senza i quali non si muove foglia, è quella di trasformare le aree grigie in miniere d’oro: from grayfield to goldfield. Vorrei aggiungere: peccato che non si possa ritrasformarle anche ed eventualmente nei prati che erano un tempo. Proprio come canta la canzonetta citata in apertura: once there were greenfields.

(fine della prima parte; segue la seconda e ultima puntata; questi paragrafi costituiscono un capitolo centrale di «Nuovi Territori del Commercio», Alinea 2005; l’editore è fallito e il libro non è facilissimo da trovare sul mercato)

NOTE
1 Running all around the Central Park is a wide glass Arcade or Crystal Palace. This building is in wet weather one of the favourite resorts of the people, for the knowledge that its bright shelter is close at hand will tempt people into the park even in the most doubtful of weathers. Here manufactured goods are exposed for sale, and here most of the shopping which requires the job of deliberation and selection is done. The space is however a good deal larger than is required for these purposes, and a considerable part of it is used as a winter garden, and the whole forms a permanent exhibition of a most attractive character – the furthest inhabitant being within 600 yards. Ebenezer Howard, e la sua versione pedonale del moderno Shopping Mall al centro della sua Città Giardino, da un articolo inedito per la Contemporary Review – fine anni ’90 del XIX secolo circa – riportato da R. Beevers, The Garden City Utopia. A critical biography of Ebenezer Howard, MacMillan, London 1988, p. 52
2 Del resto, lo stesso fortunato movimento di Howard, Unwin, Adams ecc. dal punto di vista dell’organizzazione spaziale nasce proprio da un più ampio dibattito contro la concentrazione urbana, ivi compreso il nome Garden City. Le documentate critiche al debole rapporto fra proposte di riforma sociale e corrispondente configurazione spaziale iniziano infatti quasi subito, Cfr. Trystan Edwards, “A criticism of the Garden City Movement”, The Town Planning Review, luglio 1913; id. “A further criticism of the Garden City Movement”, The Town Planning Review, gennaio 1914
3 Cfr. Peter Hall, Colin Ward, Sociable Cities. The Legacy of Ebenezer Howard, Wiley & Sons, Chichester 1998. A proposito del Palazzo di Cristallo di Howard, gli Autori sottolineano, forse con qualche piccola forzatura che: it is clearly the direct precursor of the great enclosed shopping malls … which now crown our city centres and new edge-of-town centres (p. 22).
4 Benton MacKaye, “The Townless Highway”, The New Republic, 12 marzo 1930
5 La descrizione puntuale del freeway business center è contenuta in Howard Basset, Latham C. Squire, “A New Type of Thoroughfare: The “Freeway”, The American City, novembre 1932; la nuova tipologia stradale, somma delle caratteristiche di parkway e highway, entro cui si colloca la nuova proposta commerciale, è dell’avvocato newyorkese Edward M. Basset, noto tra l’altro per aver redatto la prima ordinanza cittadina di zoning del 1916: “The Freeway, a new kind of thoroughfare”, The American City, febbraio 1930. Per alcune riflessioni biografiche e ampi estratti, Cfr. Richard F. Weingroff, Edward M. Basset; The Man Who Gave us “Freeway”, disponibile insieme a molti altri studi di settore nella sezione “storica” del sito Federal Highway Administration http://www.fwha.dot.gov
6 Cfr. Richard Longstreth, The Drive-In, the Supermarket, and the Transformation of Commercial Space in Los Angeles 1914-1941, MIT Press, Cambridge, Mass., London 1999; ampie citazioni e considerazioni di contesto nella recensione critica di James Kessenides al volume, pubblicata da H-Urban, dicembre 1999
7 “La prima migrazione del popolo Americano fu caratterizzata da carro coperto; la successiva dal cavallo d’acciaio, che stese la rete ferroviaria del paese e conferì importanza e prestigio alle città di incrocio e testa. L’attuale migrazione di popolazione è basata sull’automobile; e mentre una futura potrebbe risultare dall’aeroplano, non c’è ragione per pensare che il trasporto di superficie scomparirà nel futuro prossimo, nonostante le due modalità possano divenire più strettamente coordinate”, Benton MacKaye, op. cit. La stessa tesi, di strettissima integrazione fra società americana, automobilismo e “nuova frontiera” extraurbana, è sostenuta negli stessi anni da Roderick Duncan McKenzie, The Metropolitan Community, McGraw Hill. New York 1933, reprint Routledge/Thoemmes Press, London/New York 1997.
8 Seth Harry, A Short History of Suburban Retail, febbraio 2004, disponibile sul sito internet http://user.gru.net/domz dell’urbanista Dom Nozzi.
9 L’assonanza (non voluta dall’Autore) di questo highway slum col termine road slum coniato per lo stesso ambiente da MacKaye settant’anni prima, forse la dice lunga sulle implicazioni ambientali dei “cicli di vita” commerciale, forse più di tutte le pur lodevoli iniziative New Urbanism.
10 Alla legge sul deprezzamento accelerato degli immobili fortemente voluta dai Repubblicani, si sommerà due anni dopo lo Interstate Highway Act, sostenuto dalla presidenza Eisenhower per motivi di sicurezza militare, ma sostenuto da una lobby con forti interessi economici nel campo delle costruzioni, e di fatto esiziale nel determinare un enorme sviluppo suburbano. Nei nodi di interscambio delle nuove grandi arterie si collocheranno quasi naturalmente prima gli shopping malls e più tardi le formazioni denominate Edge Cities. Cfr. Dolores Hayden, Building Suburbia. Green Fields and Urban Growth: 1820-2000, Pantheon Books, New York 2003, pp. 162-175.
11 Citato in Malcolm Gladwell, “The Terrazzo Jungle. Fifty years ago the Mall was born. America would never be the same“, The New Yorker, 15 marzo 2004, http://www.newyorker.com/fact/content/?040315fa_fact1 da cui sono tratti anche i dati numerici e le informazioni sul meccanismo di detrazione fiscale.
12 Bruno Zevi, Storia dell’Architettura Moderna, Einaudi, Torino 1994 (I ed. 1950), p. 436.
13 Cfr. Richard Longstreth, City Center to Regional … cit., in particolare il capitolo XI, ironicamente intitolato Nessuna Automobile ha Mai Comprato Niente, dove si confrontano le progettualità di Victor Gruen e Clarence Stein, soprattutto nella capacità di interagire con l’impresa commerciale e le sue strategie.
14 Per la cronaca, il pezzo è Sugar Mountain: “Oh, vivere per sempre a Sugar Mountain, tra i banditori e i palloni colorati. Non puoi avere vent’anni a Sugar Mountain: non credi di essertene andato da lì troppo presto? C’è tanto rumore alla fiera, ma ci sono tutti i tuoi amici, e lo zucchero filato, e mamma e papà”.
15 Michele Sernini, “I centri commerciali dieci anni dopo”, Commercio, n. 63, 1998. Sernini è stato tra l’altro uno dei primi autori italiani ad occuparsi estensivamente e sistematicamente degli aspetti urbanistico-sociali della grande distribuzione. Altri testi e informazioni a questo proposito sono disponibili all’indirizzo http://www.sernini.net/cybercities/distribuzione/distribuzione.htm
16 The Call of the Mall, Paco Underhill, Simon & Schuster 2004, oltre ad essere il resoconto un’indagine con presupposti scientifici sugli aspetti sociali e di immaginario del centro commerciale, è anche un gioco di parole che richiama il titolo originale del famoso libro di Jack London The Call of the Wild.
17 Un medico americano fiducioso (come presumibilmente molti altri suoi colleghi) nelle virtù taumaturgiche nascoste negli spazi privati della grande distribuzione, ma a ben vedere non molto più di un medico italiano che, da ministro della Salute, ha ufficialmente consigliato nella primavera del 2004 agli anziani di cercare refrigerio proprio nei grandi spazi dei centri commerciali. Proprio rispetto agli anziani e ad altre categorie deboli anche gravemente emarginate dallo shopping mall e dall’insieme dell’insediamento suburbano di cui è caposaldo, è dedicato un breve ma denso articolo: Andres Duany, Elizabeth Plater-Zyberk, “The Traditional Neighborhood & Suburban Sprawl”, The Conscious Choice, aprile 2001 http://www.consciouschoice.com
18 Sandra Tsing Loh, “Shopworn”, The Atlantic Monthly, giugno 2004.
19 Le informazioni e osservazioni brevemente riassunte qui, sono desunte dai contributi di due signori che si firmano rispettivamente Jarred Long, e Matthew Thompson, inviati entrambi nell’aprile 2004 al sito http://deadmalls.com
20 Cfr. Seth Harry, A Short History…, cit. Harry si riferisce alla “Legge di Reilly sulla Gravitazione Commerciale, enunciata per la prima volta alla fine degli anni Trenta da William J. Reilly dell’Università del Texas di Austin”, riassunta così dal Manuale per la Progettazione dei Centri Commerciali dello Urban Land Institute: “le persone si spostano verso la concentrazione più grande e più facile da raggiungere”.
21 Il termine greyfield è un neologismo coniato dal Congress for the New Urbanism, allo scopo di assimilare gli spazi commerciali dismessi alla tipologia dei brownfields, ovvero siti industriali dismessi che presentano problemi di bonifica ambientale. Lo scopo, non solo retorico, di questa denominazione è abbastanza chiaro, come si spiegherà in seguito: segnalare un problema socio-urbanistico di una certa rilevanza e diffusione, chiedendo vari tipi di intervento pubblico, normativo, fiscale ecc., a sostegno di progetti di rivitalizzazione.
22 PriceWaterhouseCooper, Global Strategic Real Estate Research Group, Greyfield Regional Mall Study, Congress for the New Urbanism, 2001

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