«Cielo Grigio Su»

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Foto F. Bottini

In principio erano i pionieri delle macchine volanti, quei tizi da copertina di Giulio Verne a cavallo di una specie di ibrido fra una mongolfiera, una botte per stagionare il whisky e un tandem a pedali da passeggio al parco la domenica. Fanno sostanzialmente parte della stessa generazione anche tutti i vari contemporanei del Barone Rosso von Richthofen, o di Charles Lindbergh, la cui impresa di trasvolata atlantica apre di fatto tecnicamente le porte ai vantaggi dell’aviazione civile. Quello che accade poi, è il progressivo saturarsi dei cieli, sempre più pieni di gente che va e viene svolazzando per ogni dove, pagando sempre meno, felice e contenta. Fino all’annuncio dell’uomo simbolo di questo letterale dilagare del volo, Michael O’Leary di Ryanair: «La mia visione è che tra cinque massimo dieci anni i nostri biglietti di volo saranno gratuiti, e gli aerei completamente pieni; guadagneremo dalle compartecipazioni agli utili degli aeroporti, quelli delle attività commerciali alimentate proprio dai nostri passeggeri» (dichiarazione alla conferenza Airport Operators Association di Londra). Una ammissione, forse involontaria, di un aspetto del tutto sottovalutato del dilagare dell’aviazione civile novecentesca, ma ampiamente previsto dagli specialisti fin dall’epoca dei pionieri: quel che succede nell’aria rarefatta d’alta quota, è poco o nulla rispetto a quel che succede nella valle di lacrime del terra terra.

Gli impatti dell’atterraggio

Dentro al famoso (per altri motivi) pionieristico schema territoriale del Piano Regionale di New York, pubblicato in forma definitiva nel 1931, ma sviluppatosi proprio nei medesimi anni in cui crescevano le innovazioni tecniche poi collaudate da Charles Lindbergh, ci sono alcuni brevi quanto significativi passaggi dedicati proprio al rapporto tra forma territoriale e potenzialità di sviluppo dell’aviazione e delle relative infrastrutture. E per tutto il corso degli anni fino alla seconda guerra mondiale, mescolati ai lunghi saggi della cosiddetta «urbanistica antiaerea» (vedi tag a fondo pagina), compaiono ancora chiari segnali del medesimo tipo: l’aeroporto si consolida come un equivalente dello scalo ferroviario o portuale tradizionale, un punto fisso irrinunciabile nell’organizzazione del territorio. Ci penseranno poi ad esempio i grandi piani regionali americani per le aree delle grandi città (quello di Washington D.C. a cui lavora anche Lewis Mumford) a chiarire meglio l’ormai fondamentale ruolo di hub, attorno a cui ancorare tutta la politica di espansione suburbana, autostradale, dei nodi di servizio. Nell’antico Piano di New York si era sostenuto che «probabilmente il trasporto aereo sarà un mezzo di lusso, non farà davvero concorrenza né alle ferrovie né ad altre forme di mobilità locale. Nè si prevede lo sviluppo di un trasporto merci aereo di una certa consistenza, salvo posta e carichi leggeri e costosi». Previsioni errate, visto che i voli dalla fine della guerra diventeranno via via rapidamente un fatto di massa, con aeromobili sempre più grossi e sofisticati, tariffe in discesa, e soprattutto infrastrutture a terra sempre più invadenti e condizionanti. Fino ai giorni dei cargo, del low cost, della fine del modo di dire «jet set» a indicare una fascia sociale privilegiata che può permettersi di volare.

La città per aria

L’aeroporto finisce per allargarsi al tal punto, da ribaltare le gerarchie territoriali (o almeno provarci assai seriamente) e diventare esso stesso ragion d’essere dell’insediamento. Questa almeno è la tesi portante di Aerotropoli (John Kasarda e Greg Lindsay), titolo di un libro e soprattutto parola chiave di una lunghissima attività di divulgazione e lobbying tutt’ora in corso. Il concetto, per usare le poche parole che aprono il sito dedicato, è quello di «Una inedita forma urbana dove la città si realizza attorno allo scalo, mettendo in collegamento immediato tutti i soggetti dello sviluppo economico e i mercati». L’immagine piuttosto inquietante che si proietta, in fondo, è quella di una rete mondiale di poli urbano-aeroportuali di serie socioeconomica A, sorta di mega gated community dell’aria collegate tra loro, ma autoreferenziali rispetto al resto dell’universo, di serie B perché tagliato fuori dagli scambi che contano. Ma non si può certo dire che gli scali aeroportuali veri attuali, tendenzialmente, non provino a configurarsi in un modo analogo, assorbendo e gonfiando tantissimi aspetti del modello di cittadella commerciale e di servizio suburbana, o shopping mall. Esattamente col ruolo drenante di risorse, traffici, ruoli, assunto dagli anni ’50 in poi dai centri commerciali a orientamento automobilistico, di cui il terminal aeroportuale moderno si sente erede legittimo. E appare quindi piuttosto preoccupante, dopo questo lungo percorso storico-logico, quell’affermazione di Michael O’Leary di Ryanair, sulla imminente possibilità dei voli gratuiti, perché tanto «guadagneremo con le attività commerciali aeroportuali». Tutto il peggio della cittadella commerciale classica, tutto il peggio dell’aeronautica storicamente semi-militarizzata, e oggi anche di più col terrorismo internazionale, e tutta la recente vicenda dei ricatti territoriali locali operati dalle compagnie low cost, che saltellano da uno scalo all’altro ribaltando ruoli, gerarchie, azzerando valore di investimenti e aspettative. Mentre i cieli locali urbani iniziano virtualmente a popolarsi dei nuovi, ronzanti elicotterini (per adesso virtuali) che ruotano attorno alla app di UBER. Decisamente, «Cielo Grigio Su».

Riferimenti:
– Gwyn Topham, Many Ryanair flights could be free in a decade, says its chief, The Guardian, 22 novembre 2016
– Karrie Jacobs, Urbanistica solubile all’istante (Quick fix urbanism, trad. it. F. Bottini per eddyburg-mall), Metropolis febbraio 2011
– Fabrizio Bottini, L’ombra sinistra di UBER sulle città, Eddyburg, 2 novembre 2016
– Marilyn B. Style, L’invasione delle trottole volanti, La Città Conquistatrice, 1 novembre 2016

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