Consumo di suolo e politiche di contenimento (1)

Il territorio della città fra controurbanizzazione e diffusione

Le società contemporanee con economie avanzate presentano un evidente paradosso nelle loro dinamiche urbane: anche in un periodo come quello attuale, di stasi della crescita demografica e caratterizzato, inoltre, da una flebile dinamica economica, i processi insediativi misurabili in superficie urbanizzata non conoscono inversioni di tendenza. In alcuni contesti emerge, addirittura, una proporzione inversa fra crescita demografica ed espansione urbana, dove le aree metropolitane in declino presentano il più alto tasso di crescita.

Fino a pochi anni fa, fino all’avvento di una nuova formazione storica chiamata comunemente post-fordista, la crescita delle città significava insieme crescita demografica e crescita fisica. Infatti, ogni incremento di abitanti comportava un maggiore fabbisogno di abitazioni, un più alto numero di posti di lavoro, nuovi e più qualificati servizi e, in definitiva, più spazio. La disciplina urbanistica era chiamata proprio a governare questa crescita urbana (Zucconi, 1999). In Italia, l’idea di crescita permea l’urbanistica tanto che, fino agli anni Ottanta, il tema dell’espansione è stato il tema dominante nel dibattito sulla città ed è stato, agli occhi di molti, il fine principale dell’urbanistica, necessariamente da razionalizzare ma mai da limitare. Soltanto verso la fine degli anni Ottanta si comincia a ipotizzare il passaggio dalla cultura dell’espansione a quella della trasformazione (Campos Venuti, 1987). Fino a oggi, questa posizione culturale non ha però veramente contrastato l’ideologia della crescita. Anche nel disegno di legge urbanistica nazionale, promosso nella legislatura passata dal centrodestra, ma avallato dall’istituto nazionale di urbanistica1, il riferimento al recupero e alla riqualificazione dei territori già urbanizzati appare più come omaggio ai programmi di rinnovo urbano europei piuttosto che come una strategia politica autentica. In altri paesi europei, le posizioni culturali e politiche sembrano più articolate, anche se il fenomeno della crescita urbana si presenta con dinamiche simili.

L’andamento dell’occupazione di suolo per fini urbani, slegato, come si è detto, dalle dinamiche demografiche ed economiche, rischia di creare un equivoco fra chi annuncia il rallentamento della crescita urbana, basandosi sull’analisi di dati demografici ed economici e chi invece vive l’affollamento quotidiano dei centri urbani e l’intasamento delle arterie di comunicazione. L’ipotesi della morte della città si scontra così visivamente con l’interminabile espansione dell’urbanizzazione dei suoli e con i problemi ambientali a essa connessi.

Le ipotesi di declino delle città si basano, infatti, soprattutto sugli andamenti demografici. Se per crescita urbana si intende un “processo di concentrazione della popolazione che implica un movimento da uno stato di minore concentrazione a uno stato di maggiore concentrazione2, il fenomeno del suo rallentamento appare indiscutibile, soprattutto nel nostro paese. Come è ampiamente dimostrato (Martinotti, 1993), la crescita urbana in Italia segue, fino al 1971, la regola tradizionale: tassi di crescita crescenti per dimensioni urbane crescenti. Ovvero, dall’inizio dell’urbanesimo a metà dell’Ottocento fino agli anni Settanta del secolo successivo, più sono grandi le città, più è alto il loro tasso di crescita. Dagli anni Settanta in poi si registra invece una brusca inversione nella curva dell’aggregato dei comuni sopra i 100.000 abitanti, introducendo una variazione nel sistema urbano italiano “comparabile, per profondità se non per segno, a quella introdotta dalla industrializzazione e dall’unificazione nella seconda metà dell’Ottocento” (Martinotti, 1993: 27).

Se con crescita urbana si intende, invece, il fenomeno di espansione fisica della città, allora non risulta leggibile alcun inversione della curva di crescita. In Italia, in tutti i contesti locali dove è stata ricostruita la dinamica storica dell’occupazione di suolo per fini urbani risulta che dalla rivoluzione industriale in poi, lo sviluppo insediativo segue, nella propria tendenza di crescita, quello demografico. Fino agli anni della ricostruzione nel secondo dopoguerra, la crescita è lenta ma costante. Dagli anni Cinquanta in poi, sia la crescita demografica, sia quella insediativa subiscono una decisa accelerazione ma della stessa intensità. Solo dalla metà degli anni Settanta la dinamica dei due fenomeni diverge decisamente, azzerandosi la crescita demografica. L’espansione urbana, invece, continua con gli stessi tassi di crescita.

Oggi le città si trovano di fronte a due fenomeni legati fra di loro. Dal punto di vista demografico, la maggior parte delle aree metropolitane e non presenta una crescita pari a zero. Alla stasi della dinamica demografica corrisponde però un aumento della mobilità delle persone e un conseguente massiccio movimento demografico in uscita dalle città. L’uso antropico dello spazio è invece in crescita costante. Se la pressione sugli usi del suolo erano dovute, una volta, alla crescita della popolazione, oggi è alimentata dalla competizione fra usi diversi, residenziali e di consumo, da parte della popolazione residente di altre popolazioni: pendolari, turisti, studenti, eccetera (Cori, 1999).

Nella sostanza si tratta della tendenza al decentramento dalla città centrale alle aree più periferiche, dal comune capoluogo ai comuni di corona. La definizione più precisa di questa tendenza al rallentamento dello sviluppo urbano centrale è stata data probabilmente da Brian L.J. Berry, il quale con il termine di counter-urbanization ha rovesciato l’originaria definizione di Tisdale, definendola “un processo di deconcentrazione della popolazione che implica un passaggio da uno stato maggiore di concentrazione a uno di minore concentrazione”. La tendenza di fondo, secondo l’autore, è quella che punta a una “civiltà urbana senza città”, in linea con quell’ideologia antiurbana che è una componente importante del pensiero anglosassone3.

Fra gli urbanisti italiani c’è chi, descrivendo lo stesso fenomeno di deconcentrazione della popolazione, ne dà un’interpretazione culturale in qualche misura opposta. Secondo Francesco Indovina, più che di controurbanizzazione si dovrebbe parlare di diffusione dell’effetto città a livello territoriale. La stessa contrapposizione fra città e campagna non avrebbe più alcun significato, in quanto il territorio assomiglierebbe sempre più a un’enorme città con alcune zone agricole intercluse. “Si viene a configurare un territorio costituito da una città diffusa, mentre al suo interno trova collocazione la città concentrata. Il fenomeno urbano, cioè, si estende senza modificarsi del tutto, assume la sua tradizionale caratteristica ma solo a livello dimensionale più ampio” (Indovina, 1990: 38).

Il fenomeno della deconcentrazione della popolazione, interpretato di volta in volta come controurbanizzazione oppure come diffusione urbana, è stato anche in Italia oggetto di una notevole quantità di studi, sia nel campo della sociologia urbana (Della Pergola, Melucci, Martinotti), sia in quello dell’urbanistica e della geografia urbana (Dematteis, Indovina, Secchi).

D’altra parte, il paesaggio italiano è stato trasformato profondamente dai fenomeni in atto. Tutte le grandi città italiane sembrano ormai essersi dissolte nelle loro aree metropolitane le quali possono essere descritte “come una rete policentrica poggiante su una trama di reticoli che a sua volta si distacca da un sottofondo interstiziale continuo di localizzazioni diffuse (residenze, verde, eccetera).” (Dematteis, 1990). E c’è addirittura chi si spinge a descrivere il Nord Italia come “megalopoli padana”, rete di città interessate da continui flussi economici e sociali, e dove il territorio “privato ormai dei riferimenti storici, politici e culturali che un tempo costituivano l’anima della grande pianura, scenario di storia come pochi altri in Italia e in Europa, ci appare sempre più indistinto e unificato” (Turri, 2000).

Non si può però non rilevare una certa incongruenza fra l’enfasi data al concetto della diffusione urbana, accompagnato dall’immagine di una campagna ridotta ad alcuni brandelli di un paesaggio storico sopravvissuto, e i molteplici significati del fenomeno. Dopo tre lustri di teorizzazione e sperimentazione della città diffusa, sembra troppo ottimistica la presunzione che la città diffusa non sarebbe mera urbanizzazione diffusa. L’ipotesi che la diluizione della città sul territorio arricchirebbe quest’ultimo di qualità e servizi tipicamente urbani sembra, in larga misura, un’illusione. La città diffusa non si differenzia poi tanto dalla periferia dormitorio e non sembra vero che essa eluda attese speculative e segregazione sociale.

“In futuro ci potremo trovare con una popolazione insediata in modo diffuso, ma con una accresciuta concentrazione del potere di decisione e, quindi, con una più strutturata gerarchizzazione dello spazio. Non è indifferente, infatti, cosa si diffonde e cosa si concentra” (Indovina, 1990: 39).

Infine, per dare sostanza alle diverse interpretazioni che hanno affollato il panorama disciplinare in questi anni, sembra fondamentale tenere presente la dimensione quantitativa del fenomeno. Neanche nel caso peggiore, alla scala nazionale il rapporto fra aree urbanizzate e superficie complessiva del territorio è significativamente superiore al 10%. Non c’è alcun dubbio che lo spazio rurale e aperto costituisce ancora un oggetto centrale nel governo del territorio, non fosse altro in ragione della sua estensione.

La diffusione urbana è molto ben descritta in tutti i suoi aspetti demografici. Per quanto riguarda invece gli aspetti spaziali, molte ricerche si limitano a interpretazioni qualitative, spesso con un fortissimo contenuto normativo. Ciò sorprende soprattutto per il fatto che la crescita fisica delle città, sia dei nuclei centrali, sia dei filamenti che con essi formano le nuove conurbazioni, rimane una delle caratteristiche principali del fenomeno urbano.

Si tratta certamente di una crescita diversa da quella sperimentata dalla città moderna, sia per quanto riguarda la forma urbana che ne consegue (non più compatta ma dispersa, appunto, oppure diffusa), sia per quanto riguarda gli usi che determinano tale crescita (prevalgono sempre più usi legati alla mobilità, al consumo, al loisir). A lungo, la cultura urbanistica in Italia ha sottovalutato l’enorme domanda di spazio espressa dagli stili di vita emergenti. Il teorema della fine dell’espansione urbana era legato, infatti, alla constatazione dell’inversione della crescita demografica, al rallentamento della produzione di nuove abitazioni, al forte incremento alla riabilitazione del patrimonio residenziale invecchiato, alla sempre più rapida espulsione dell’industria e alla conversione a nuovi usi degli spazi liberati (Campos Venuti, 1987: 109). L’enfasi posta sul passaggio da una “cultura dell’espansione” a una “cultura della trasformazione” ha cancellato, di fatto, parole come crescita, ampliamento, espansione dal vocabolario dell’urbanistica. Ma l’abuso di parole come riqualificazione ha portato addirittura a classificare come riqualificazione urbana interventi di mera espansione4.

Forse è stato l’apparente superamento dell’espansione urbana che ha comportato l’abbandono di ogni ricerca sulle dimensioni fisiche della città, a cui si è preferito il mondo infinito delle interpretazioni sociologiche, territoriali, poetiche, eccetera. In Italia, infatti, la più importante indagine quantitativa su scala nazionale risale alla ricerca ItUrb, coordinata negli anni Ottanta da Giovanni Astengo5.

Non è così negli altri paesi con economie avanzate. Con metodologie diverse e per periodi temporali più o meno estesi, in tutti i paesi esistono statistiche ufficiali che registrano la superficie urbanizzata e la sua dinamica nel tempo.

Dai dati emergono chiaramente due modelli insediativi diversi, quello americano, con un consumo di suolo di oltre 1.000 mq per abitante, e quello europeo che si mantiene su numeri alti, ma comunque inferiori della metà circa di quelli americani. Non c’è dubbio che i fenomeni di sprawl urbano sono più presenti in America, dove, per esempio nel Canada, oltre il 60% delle abitazioni sono localizzate in lotti singoli con case unifamiliari6. In Europa, invece, un modello insediativo simile è spesso presente nelle nuove espansioni urbane, la città compatta con tipologie edilizie residenziali multipiano costituisce però ancora un forte riferimento nel paesaggio urbano.

Dall’esposizione sintetica dei dati si potrebbe dedurre che le politiche di contenimento dell’uso di suolo per fini urbani sarebbero molto più urgenti in America piuttosto che in Europa dove, anzi, il margine per un ulteriore consumo sembrerebbe piuttosto ampio. Va però considerata la diversa realtà geografica dei paesi europei rispetto a quelli americani. Il Canada è il secondo paese più grande del mondo e ha una densità insediativa poco superiore a 3 ab/kmq. Negli Stati Uniti la densità non supera poche decine di unità, mentre in Europa raggiunge valori di almeno 100 ab/kmq, superano la soglia dei 200 in Germania e raggiungono quasi le 400 unità in Inghilterra e nei Paesi Bassi.

La maggiore limitatezza della risorsa suolo in Europa risulta evidente dal rapporto fra aree urbanizzate e il totale dell’area di ogni singolo paese. In Europa, almeno il 5% del territorio di ogni singolo stato risulta urbanizzato – in Germania addirittura il 12% – mentre in Canada e negli Stati Uniti tale rapporto risulta decisamente inferiore, rispettivamente dello 0,4% e del 3,2 %. È del tutto evidente che, se i paesi europei si dovessero allineare al consumo di suolo pro capite americano, il rapporto fra aree aperte e aree urbanizzate verrebbe profondamente alterato. Assumendo un valore pari a 1.000 mq/ab, in Germania risulterebbe urbanizzato un quarto della superficie nazionale; in Inghilterra, il territorio artificiale arriverebbe a coprire quasi il 40%, in Svizzera il 18% e in Austria il 10%.

Dal punto di vista europeo risulta di una certa utilità studiare la diffusione urbana in paesi come il Canada o come gli Stati Uniti, dove essa non subisce alcuna limitazione. Si può così dimostrare che la progressiva erosione di spazio agricolo non solo non subisce alcun arresto spontaneo, ma addirittura accelera nei contesti a urbanizzazione matura, laddove cioè il fabbisogno di nuovo spazio non è generato da dinamiche socio-demografiche di crescita.

Secondo i dati dell’ente nazionale di statistica, tra il 1971 e il 1996 le città canadesi sono cresciuti nel complesso per circa 1.200.000 ettari, pari al 77% circa della loro estensione. Gran parte della crescita ha interessato città medio-piccole, con meno di 100.000 abitanti, le quali spesso sono raddoppiate in estensione. Oltre il 55% di tutto il suolo urbanizzato è concentrato nelle province di Ontario e Quebec. In queste due province si è registrato nell’intervallo considerato la crescita più alta in termini assoluti, oltre a 600.000 ettari.

Secondo alcuni esperti canadesi, i due principali fattori che hanno determinato la crescita sono l’incremento demografico che nel nuovo mondo, diversamente dal vecchio, gioca ancora un ruolo importante, e i cambiamenti nelle forme insediative (Hofmann, 2001). Caratterizzate dalla dispersione, dalla prevalenza di tipologie residenziali unifamiliari e dalla concentrazione in pochi nodi dei servizi commerciali e ricreativi, sono state rese possibili dalla massiccia motorizzazione della popolazione.

Infatti, nei 25 anni considerati, la popolazione canadese è aumentata del 37%, passando da appena 16,4 milioni a 22,5. Nello stesso periodo, una crescita ancora più alta del numero di veicoli registrati alla motorizzazione li ha portati, nel 1998, alla somma di circa 18 milioni. Considerando anche vecchi e bambini, si tratta di una macchina ogni 1,25 abitanti.

Di conseguenza, il consumo di suolo è cresciuto notevolmente, passando da 980 mq/abitante nel 1971 a oltre 1.200 mq/ab nel 1996. Più ancora dell’incremento va però segnalata l’accelerazione del fenomeno nei tempi recenti.

Negli Stati Uniti, come si è detto, i caratteri dell’urbanizzazione ricalcano quelli del Canada. Il modello insediativo è simile e di conseguenza è simile anche il consumo di suolo per abitante. Anche qui, la crescita delle città è superiore in termini di estensione fisica rispetto all’andamento demografico. Fra il 1982 e il 1997, le aree urbanizzate sono cresciute del 47%, da 20,6 milioni a 30,7 milioni di ettari7, mentre nello stesso lasso di tempo la popolazione ha visto un incremento del 17%.

Per comprendere le ragioni di questa impressionante crescita, una ricerca pubblicata nel 2001 ha cercato di indagare le differenze geografiche presenti all’interno degli Stati Uniti (Fulton, 2001). È chiaramente dimostrato che solo la minima parte delle aree metropolitane si presenta nel 1997 con una densità maggiore rispetto al 1982 (appena il 6%). Le aree metropolitane più densamente abitate sono localizzate nell’Ovest (in California, Nevada e Arizona). Negli altri stati, invece, la crescita degli usi di suolo per fini urbani è più forte, ma per ragioni diverse. Nel Sud, a monte delle espansioni stanno ingenti flussi immigratori, mentre nel Nordest e negli stati centrali le aree metropolitane sono cresciute inesorabilmente nonostante una dinamica demografica irrisoria.

Il risultato più sorprendente dello studio riguarda la correlazione fra crescita demografica e crescita fisica delle città. Secondo gli autori, nei venticinque anni analizzati, il consumo di suolo è cresciuto in genere tanto più velocemente, quanto era lenta la crescita demografica. Il paradosso è che gli stati con un alto tasso di crescita demografica hanno urbanizzato molto meno suolo per abitante rispetto a quegli con una crescita lenta o addirittura negativa. L’area metropolitana di Chicago-Gary-Lake County, per esempio, ha visto fra il 1982 e il 1997 un incremento di suolo urbanizzato del 25%, di fronte a una crescita demografica di appena il 10%; viceversa, nell’area di Los Angeles-Anaheim-Riverside, al 30% di incremento demografico è corrisposto un incremento di aree urbanizzate di tre punti percentuali più basso.

Senza politiche specifiche, la diffusione urbana sembra essere destinata a una continua accelerazione. Ciò che è successo negli Stati Uniti d’America, dove negli anni Ottanta sono stati trasformati in usi urbani 1.550 ettari al giorno, aumentando negli anni Novanta ad addirittura 2.440 ettari al giorno (Scheyer, 2005: 7), pari a oltre 30 mq ad abitante all’anno, sembra essere un esemplificazione estrema delle dinamiche in tutti i paesi sviluppati.

Fine della prima parte. Da: AA.VV. No Sprawl: Perché è necessario controllare la dispersione urbana e il consumo del suolo, a cura di Maria Cristina Gibelli e Edoardo Salzano, Alinea, Firenze 2006 – Qui la seconda parte 

NOTE

1 Come approfondimento si rimanda ai seguenti due testi: il primo è curato dagli estensori e ispiratori del disegno di legge, Mantini, P., Lupi, M., a cura di (2005), I principi del governo del territorio. La riforma urbanistica in Parlamento, Il Sole 24 Ore, Milano; il secondo, invece, edito nella stessa collana del presente volume, è fortemente critico: Gibelli, M. C., a cura di (2005), La controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge “Principi in materia di governo del territorio”, Alinea, Firenze.

2 Si tratta di una definizione a lungo indiscussa di Hope Tisdale, in “The process of urbanization”, Social Forces, 20, 1942, citato in Martinotti, G. (1993), Metropoli. La nuova morfologia sociale ella città, il Mulino, Bologna, p. 24.

3 Berry, B. J. L., a cura di (1976), “Urbanization and counter-urbanization”, in Urban Affairs Annual Review, 11, Sage, Beverly Hills, citato in Martinotti, G. (1993), op. cit. Per quanto riguarda le tendenze antiurbane nella cultura anglosassone si cita, come esempio, autori come Adna Ferrin Weber, H. G. Wells, Frank Lloyd Wright, Lewis Mumford, Homer H. Hoyt.

4 Si consideri, a questo proposito, l’uso che in alcuni contesti locali si è fatto dei cosiddetti articoli 11, ovvero dei programmi di recupero urbano, istituiti con il decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398. A Roma, gli interventi previsti da tali programmi riguardano una superficie complessiva di 7.000 ettari e prevedono una nuova edificazione pari a quasi 5 milioni di metri cubi. In molti casi non si tratta della rivitalizzazione di aree già urbanizzate ma di aree pubbliche non edificate, di aree agricole intercluse, o addirittura di aree esterne al perimetro urbano, connotate anche dalla presenza di beni paesistici e archeologici.

5 La ricerca è pubblicata in Astengo, G., Nucci, C., a cura di (1990), It. Urb. 80. Rapporto sullo stato dell’urbanizzazione in Italia, numero monografico di Quaderni di urbanistica informazioni, n.8, volume primo e secondo, maggio-giugno. Già allora, la principale motivazione della ricerca era l’assenza di dati disponibili sulla dinamica dell’urbanizzazione in Italia. Per la mancanza di risorse non fu però possibile indagare l’intero territorio nazionale e coordinare il rilevamento topografico con quello demografico dell’Istat. Per ogni Regione furono, invece, individuate le aree ritenute più significative, e furono elaborati i dati riguardanti l’occupazione di suolo per fini urbani nel trentennio dal 1951 al 1981.

Data la parzialità dei dati della ricerca It.Urb.80 non è possibile effettuare alcun confronto internazionale. Anche il dato del Corine Land Cover, unico disponibile su scala nazionale, non appare idoneo per un confronto oggettivo. Elaborato nel 1990 e nel 2000 con il metodo della fotointerpretazione in scala al 100.000, indica il territorio modellato artificialmente pari a rispettivamente 13.400 kmq e 14.250 kmq, ovvero pari a circa il 4,5% della superficie territoriale nazionale. Probabilmente a causa del metodo seguito, il dato sembra fortemente sottostimato.

6 Per i dati canadesi citati, qui e nel seguito del testo, si rimanda alle statistiche elaborate dal servizio statistico nazionale, Statistics Canada, Digital Enumeration Area Centroid Files, 1971, 1981, 1991, 1996, 1997.

7 I dati riguardanti gli Stati Uniti sono tratti dall’osservatorio nazionale degli usi del suolo, il National Resources Invntory (NRI); si tratta di indagini condotte ogni 5 anni.

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