Crepuscolo dell’ingegnere demiurgo

1. La crisi di Jack for all the trades

«… vestivano tutti di grigio scuro, con giacche a doppio petto e regoli d’avorio nel taschino, stivaletti neri e lobbie pure nere, quasi sacerdoti di una nuova religione. Li si incontrava ovunque, circondati da un rispetto che sconfinava in reverenza. E gli ingegneri dominavano la città, nel bene e nel male, … iscritti nell’albo d’oro di quelle industrie che rapidamente stavano cambiando l’ottocentesco, bonario volto della città».

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Foto T. Zuccoli

Con questa immagine allo stesso tempo rassicurante e vagamente minacciosa, gli ingegneri si presentano negli anni dell’immediato dopoguerra come «attori forti¯, possibili leaders del processo di modernizzazione di massa che in pochi anni trasformerà radicalmente spazi, aspettative, modi di vita e immaginario collettivo nel nostro paese. Pure, come li descrive esplicitamente l’autore del brano riportato, (e come probabilmente li colloca l’opinione pubblica coeva), gli ingegneri sono «iscritti nell’albo d’oro delle industrie¯: in qualche modo estranei all’interazione sociale, impegnati in un’opera indispensabile, ma in qualche modo appartati dalla vita quotidiana. In più, l’ingegnere che «fa le case¯, che permea in qualche modo con la sua immagine la maggior parte degli oggetti e degli spazi non è più la norma, ma l’eccezione: la professione si sta via via allontanando dall’immediata visibilità, per inserirsi in una logica di apparati amministrativi e d’impresa che forse ne valorizzano il contributo a progetti di ampio respiro, ma certo non contribuiscono ad esaltarne lo specifico ruolo. A ben vedere, ad entrare in crisi non è tanto la figura dell’ingegnere nel suo insieme, quanto la sua diffusione, articolazione e specializzazione, che ha portato nel periodo tra le due guerre ad attenuare l’identificazione dei singoli con la professione (a tutto vantaggio dell’immagine di impresa o di apparato pubblico), e ad indicare anche se in modo non immediatamente percepibile l’emergere di una figura come quella attualmente vincente di ingegnere manager, con un ruolo di interfaccia tra gli ormai infiniti ambiti di specializzazione tecnica, e le necessariamente comprensive decisioni strategiche delle strutture pubbliche e private.

L’ingegnere che si presenta all’immaginario collettivo nel secondo dopoguerra non è molto diverso da quello che di fatto negli anni del fascismo aveva certo sostenuto uno specifico ed esplicito ruolo, lasciando però molto del proprio tradizionale spazio alla nuova figura dell’architetto: «eroe “bello” ed estroso, … più di ogni altro destinato a dare forma visibile al regime¯2. E oltre l’immagine diffusa, qualcosa di più concreto sta emergendo sia nel processo di formazione che in quello associativo, degli sbocchi professionali, dell’identità in senso lato: l’ingegnere «che costruisce le case¯, e più in particolare il tecnico a tutto tondo che si occupa di urbanistica, si allontana sempre più dalle figure reali pure operanti nel campo della pubblica amministrazione, dell’impresa, della libera professione e dell’accademia. Con l’inevitabile senno di poi (ma molte questioni in questo senso erano già state sollevate anche nella seconda metà degli anni Trenta), nel pieno della stagione di approccio multidisciplinare alla progettazione del territorio legata ai governi di centro-sinistra e ai tentativi di programmazione economica, la figura dell’ingegnere emergerà come «aridamente tecnica … e troppo poco attenta ai valori ed alle implicazioni di carattere umano che sono da porre alle basi di ogni corretto operare urbanistico¯3.

Sino alla metà degli anni Venti anche nei sistemi socioeconomici più avanzati a livello internazionale non sembrano esserci dubbi sul ruolo assolutamente di avanguardia svolto dalla classe degli ingegneri nello sviluppo della moderna città industriale, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, e anche se si riconosce da più parti di essere giunti alla fine di un ciclo di pura crescita quantitativa e adattamenti di medio e breve respiro. L’immagine che si propone è la similitudine tra la città «paleotecnica¯ e l’ammiraglia di Nelson, contrapposta alla complessità della città neoindustriale, che assomiglia molto da vicino ad una corazzata. Ad una organizzazione semifeudale corrispondente a tecnologie artigianali, alla concentrazione del potere e della conoscenza che lo sostiene, si sostituisce la complessità organizzativa, l’intreccio delle cognizioni, la specializzazione integrata dal coordinamento e dalla cooperazione: ciò vale per il lavoro, l’abitazione, i servizi. Questo implica la necessità, per gli ingeneri, di articolare la propria professionalità, l’epoca di Jack for all the trades è finita per sempre, e con lei il protagonismo indiscusso e pigliatutto del grande tecnologo. Una visione di insieme non può certo essere negata all’ingegnere, ma ciò implica un più preciso impegno nella politica, nella società, nelle istituzioni associative e locali: «civic spirit should be manifested not by a waving of flags and by boasts of superiority to others, but by searching out the defects in our present make-up and then by aiding others to raise the standards of civic affairs¯4. Nessun dubbio, dunque, sul ruolo degli ingegneri nel costruire la città moderna, ma il dibattito nelle situazioni più avanzate (quella citata è la prolusione a un congresso professionale degli USA) sembra già indicare una direzione, che l’uso del prosaico Jack for all the trades invece dell’aulico deus ex machina in buona parte rivela: l’innovazione tecnologica fine a sé stessa ha fatto il suo tempo, e i soggetti che ne sono stati protagonisti devono iniziare a porsi un problema di identità, di rapporto con la società, di impegno politico in senso lato.

Anche se la datazione comporta inevitabilmente qualche forzatura e schematismo, è possibile far iniziare la perdita di ruolo centrale dell’ingegnere nella cultura urbanistica italiana nel 1926. E’ un momento apparentemente straordinario per la professione nel campo dell’intervento sul territorio: la spinta modernizzatrice del fascismo, con la riforma degli enti locali e l’istituzione di una commissione di studio sull’esproprio per pubblica utilità sembra prendere decisamente corpo, e in tempi brevi si attendono grossi impegni per gli apparti pubblici e privati coinvolti nella progettazione ed esecuzione di opere pubbliche. Silvio Ardy pubblica il suo progetto per una struttura nazionale di Urbanesimo e Alti Studi Municipali, la cui fondazione è tra i voti finali dell’ordine del giorno votato il 28 maggio al congresso internazionale di Torino5, e che vede i grandi apparati tecnici in primo piano nella gestione del grande processo di ridisegno nazionale. L’ingegner Cesare Chiodi, nel suo complesso ruolo di professionista, accademico, consigliere comunale e assessore, rappresentante di alcuni interessi dell’impresa privata, istruisce il primo grande concorso di idee per un piano regolatore: gli uffici tecnici comunali, la cultura urbanistica nel suo insieme, i grandi interessi legati alle infrastrutture saranno chiamati a confrontarsi su una ipotesi di programma a scala di regione metropolitana6. Ma ben presto questa serie di progetti prenderà una strada diversa: la riorganizzazione degli enti locali prenderà strade completamente opposte a quelle auspicate da Ardy, e l’Istituto di «urbanesimo¯ che in pochi anni vedrà la luce sta nascendo esattamente in opposizione al progetto del 19267; il concorso di Milano di fatto si limita ad inaugurare – indipendentemente dalle intenzioni originali dei promotori – una decennale stagione in cui il «ludo cartaceo¯ avrà la prevalenza sulle questioni concrete. In particolare l’esperienza del concorso milanese, con il totale accantonamento dell’ipotesi regionalista high-tech, basata sull’ipotesi di un accordo programmatico tra imprese ed amministrazioni pubbliche ai vari livelli, sembra emblematica riguardo al ruolo non primario degli ingegneri nella costruzione dell’immaginario disciplinare urbanistico contemporaneo8.

Con gli anni Trenta il successo dell’associazionismo sindacale e dell’INU nel sistema dei concorsi, insieme alla relativamente modesta quota di effettive realizzazioni con contenuti di «piano¯, e alla qualità dell’insegnamento urbanistico9, non sembra sottolineare specificità di contributi degli ingegneri alla costruzione della disciplina. In questo senso, certamente spiccano in senso opposto i contributi di Cesare Chiodi, che con La Città Moderna (spesso e impropriamente accostato a Vecchie città ed edilizia nuova di Giovannoni) tenta un approccio manualistico certo discutibile, comunque di alto livello scientifico nel rapporto tra configurazioni «ideali¯, organizzazione sociale, spazi di mediazione nella pianificazione del territorio. In particolare sul tema emergente e sempre più all’ordine del giorno della localizzazione industriale iniziano gli interventi di Francesco Mauro, ma solo per fare un esempio il ruolo del piano sovracomunale come spazio di concertazione anziché megaprogetto urbanistico non trova visibilità oltre la ristretta cerchia degli intervenuti a qualche convegno locale, mentre di fatto i processi di sviluppo nelle aree più dinamiche hanno già da tempo superato l’ambito cittadino riguardo agli effetti territoriali e alle conseguenti diseconomie10. Il più noto programma culturale in questo senso, in quel periodo, è quello del giovane Adriano Olivetti, che formatosi in una cultura per molti versi simile a quella espressa da Francesco Mauro affida però la formalizzazione della sua proposta di piano regionale (integrazione di agricoltura, industria, turismo) per la Valle d’Aosta al radicalismo dei giovani architetti razionalisti milanesi, che costruiscono sicuramente un emblematico manifesto culturale e professionale, ma altrettanto sicuramente privo dei connotati programmatici minimi che da quasi un decennio a proposito della pianificazione sovracomunale erano ben noti alla cultura italiana11.

2. Cultura tecnica e ricostruzione tra rotture e continuità

«Pensiamo … che nell’immane opera di ricostruzione la prima e l’ultima parola debba spettare ai tecnici, ascoltando, naturalmente, politici e giuristi, mentre l’inverso ci porterebbe a continuare … nel trionfo delle incompetenze … Piegati e piagati, abbiamo il dovere di risorgere …: l’ingegnere deve essere e sarà al fulcro della rinascita … con l’autorità affettuosa, che gli deriva da un lato dalla coltura, dall’altro dalla comunanza di fatica, sofferenza, realizzazioni e speranze¯12.

A ben vedere, non c’è molta distanza tra queste considerazioni sul primato degli ingegneri «nella formazione del … piano regolatore, che deve presiedere alla ricostruzione¯, e le dichiarazioni sul primato della politica di qualche anno prima in tema di urbanistica rurale, decentramento industriale, bonifica integrale. Vincenzo Civico, che tra l’altro sulle pagine de L’ingegnere a cavallo del 1950 riprenderà per un breve periodo la sua fortunata rubrica urbanistica, aveva fatto di questi temi una vera e propria bandiera: la modernizzazione delle campagne, la riorganizzazione in senso perequativo degli insediamenti produttivi, l’effettivo coordinamento tra programma economico e pianificazione territoriale, erano obiettivi praticabili solo con il sostegno di univoche e coerenti decisioni politiche, con la struttura corporativa dei tecnici nel duplice ruolo di consigliere del principe e braccio secolare in grado di tradurre le decisioni in strutture operative. Là dove Civico invocava il primato della politica, chi ora teme il trionfo delle incompetenze tenta in fondo di chiamare a raccolta qualcosa di molto simile ad una corporazione: individui appartenenti a gruppi di interesse e culturali separati, pubblici e privati, con specializzazioni ormai ben distinte, che dovrebbero trovare non solo coesione in un momento di emergenza, ma trasformarla da subito in indiscussa leadership con ruolo di fatto politico.

«Dalle macerie delle nostre città e dei nostri villaggi sale la voce di milioni di italiani che chiedono un tetto ed un focolare¯13, e insieme una vera inversione di tendenza nell’ambito delle decisioni, quella di garantire continuità operativa a programmi di cui si sono poste le premesse, attraverso la decisione politica. Indipendentemente dal fascismo, dall’ordinamento corporativo, dalla proprietà individuale o collettiva dei mezzi di produzione, «un tetto e un focolare¯ vanno di pari passo con la ricostruzione delle città, del tessuto infrastrutturale, con il consolidamento di alcuni obiettivi di decentramento industriale e di modernizzazione delle campagne: in questo senso è da interpretare una inversione di tendenza, «un processo di riorganizzazione, di correzione di errori passati, di evoluzione verso forme migliori di convivenza¯14. In questo senso, va interpretato il nuovo ruolo dei tecnici in una società complessa: non vestali di conoscenza onnicomprensiva, ma cultori di discipline specializzate, che trovano ricomposizione nel quadro politico, sociale, economico. Nessuno spazio, in questa logica, per il demiurgo, deus ex machinaJack for all the trades che dir si voglia.

È politico prima che tecnico il riallineamento, dopo la parentesi corporativa, con le democrazie industriali vincitrici del conflitto mondiale. In questo senso vanno ora interpretate le riflessioni di chi isolatamente, nei lustri precedenti, aveva pensato al piano non come ad un luogo di decisione autocratica, ma come spazio di concertazione tra esigenze dei singoli, vincoli del contesto, ambito delle decisioni strategiche. In altri termini, dopo le sfuriate di Vincenzo Civico che a ridosso del dibattito sulla legge urbanistica tuonava nel 1942 su decentramento industriale e avvenire della nazione¯15, nella mutata situazione del dopoguerra assumono senso nuovo riflessioni come quelle di Francesco Mauro, che nel 1944 aveva pubblicato da Hoepli i due volumi del suo Industrie e Ubicazioni. Non è un caso, se tra i rarissimi articoli che tra il 1945 e il 1948 affrontano su L’ingegnere il problema della ricostruzione in una logica di piano, spiccano le lunghe recensioni dell’opera di Mauro, o altri interventi dell’autore sullo stesso tema.

La recensione coglie lo spunto per sottolineare il ruolo delle industrie nel costruire la pace, in una ottica di collaborazione tra impresa, azione politica, e consapevolezza sociale e professionale, «tenace eccitamento delle sane energie umane che dovranno presiedere alla riorganizzazione del nostro Paese .. verso gli ardui problemi del domani¯16. La questione ubicazionale, posta in termini complessi (ovvero legata alla responsabilità sociale dell’impresa), da un lato mette in primo piano la capacità decisionale degli apparati pubblici ed il loro ruolo in termini di piano di sviluppo coordinato, dall’altro cerca di presentare la managerialità di impresa come strettamente integrata ad una visione strategica del rapporto tra bacini territoriali anche vasti, settori produttivi, risorse. Solo in questo quadro generale è possibile collocare la ricostruzione edilizia, che per essere propulsiva rispetto ai numerosi settori industriali che coinvolge dovrà seguire un programma di: massimizzazione nell’uso delle risorse umane e intellettuali; decentramento e razionalizzazione distributiva sul territorio.

In due interventi distinti e separati nel tempo, ma paragonabili riguardo al contenuto, lo stesso Francesco Mauro espliciterà le proprie idee sul ruolo del settore pubblico e dell’impresa privata nella ricostruzione e nel superamento degli squilibri economici e territoriali, nel quadro del nuovo sistema internazionale di cui l’Italia fa parte. A parere di Mauro le imprese italiane anche dal punto di vista ubicazionale e di rapporto con il territorio sono abituate ad agire in una logica di tipo monopolistico e/o con un forte sostegno pubblico, che a lungo andare ha determinato un degrado culturale e di conoscenze tecniche, al punto da far sottovalutare elementi che in una logica concorrenziale possono e devono condizionare i piani insediativi, dai costi infrastrutturali, a quelli ambientali, sociali, per finire con il grado di spill-over tecnologico, economico e organizzativo in grado di generare nuovi stimoli. Anche gli elementi climatici e di qualità della vita locale per alcune imprese possono essere elementi strategici di attrazione, ed è una cultura arretrata quella che pensa alle «dolcezze climatiche, in quanto capaci di ammollire il vigore individuale, fino dai tempi ormai remoti degli ozi di Capua¯17. Quando risolte le prime emergenze della ricostruzione si ripresenta l’eterno problema del Mezzogiorno, Mauro ritiene di individuare in una prospettiva essenzialmente tecnica, oltre la decisione politica che evidentemente considera cosa fatta, l’avvio di una soluzione della questione. Il problema è quello di comprendere quali industrie, e come, potrebbero aver interesse ad insediarsi nelle zone meridionali, e se gli incentivi possono essere di semplice comunicazione pubblicitaria, oppure di tipo diverso come l’elevazione dei ratings locali attraverso investimenti pubblici. E questi investimenti pubblici, come e dove dovrebbero essere indirizzati? E’ comunque certo, a parere di Mauro, che le risorse pubbliche dovranno valorizzare vocazionalità ben definite e individuate, e coordinare gli interventi perché «Interessa che colui che colloca un nuovo impianto in un punto piuttosto che nell’altro, sia messo in grado di fare buoni affari … da una piena cognizione delle condizioni tutte, proprie alla località¯18.

Prospettive nuove, in un quadro che però evidenzia gli elementi della continuità, forse più espliciti sulle pagine de L’Ingegnere di quanto non accada, per i temi dell’urbanistica e del territorio, nel dibattito degli architetti. Forse per puro caso, ma comunque emblematico di tale continuità, è il commento al secondo congresso INU affidato a distanza di dieci anni allo stesso Vincenzo Civico. Scorrendo la cronaca del convegno si ha l’impressione che ben poco sia cambiato, salvo una fastidiosa Costituzione che promuovendo le regioni e le autonomie locali vanificherebbe la legge urbanistica del 1942 «ipertrofizzando ed esasperando, attraverso gli inevitabili localismi, i difetti derivanti dalla pluralità, difformità e frammentarietà delle leggi¯ regionali. Concludendo, Civico lamenta che «La grande assente del Congresso è stata l’urbanistica rurale, cioè la vera urbanistica italiana: eppure è essa che ha dominato, anche se inespressa, l’intero Congresso¯19. Niente male in quanto a coerenza, visto che al congresso del 1937 Civico aveva tuonato testualmente dallo stesso palco: Urbanistica Rurale = Urbanistica Fascista.

Oltre la facile ironia, gli elementi di continuità sono davvero un tratto caratterizzante del L’Ingegnere, visto che temi complessi come quelli oggetto della carta costituzionale diventano spesso argomenti di riflessione nel loro rapporto con la disciplina urbanistica. Un tema di fondo come quello del rapporto tra proprietà del suolo, rendita, esproprio, pubblica utilità, diventa ad esempio oggetto di studio nei suoi rapporti con la storia nazionale, la contingenza della riscrittura delle regole di convivenza civile, l’occasione della tabula rasa rappresentata dal cambio di regime e dalle esigenze della ricostruzione20. La stessa questione del rapporto tra esigenze nazionali e autonomie locali è posta qualche anno più tardi dal Chiodi in termini ribaltati rispetto a quelli di Vincenzo Civico, a partire da un giudizio lapidario sul passato: «Nell’epoca podestarile i piani regolatori erano un campo fertile per le esercitazioni e le improvvisazioni di estrosi amministratori». Nella contingenza dei primi anni di pace e dell’incertezza istituzionale, però, la Costituzione, delegando alle regioni la materia urbanistica, pur con le condivisibili esigenze di democrazia e decentramento, da questo punto di vista rischia di vanificare il senso unificante della legge del 1942, come già si nota nel caso di enti a statuto speciale che stanno studiando provvedimenti in questo senso. In particolare le tendenze che stanno emergendo sono «provinciali¯ perché eludono il problema di un piano nazionale, e di strumenti territoriali inseriti in questo schema, escludendo correlazioni sia di tipo redazionale che organizzativo, ed inserendo anche elementi in palese contrasto con le norme fondamentali del 1942. Solo per fare un esempio, in alcune delle nuove norme il piano non dovrebbe coprire l’intero territorio comunale, e in generale questo tipo di atteggiamento è «un passo indietro, ritornando ad un particolarismo locale che è inconciliabile coi moderni indirizzi¯, che intendono il sistema territoriale come fortemente interrelato, a favore e non contro la difesa delle caratteristiche e risorse locali. «Pensiamoci fin che siamo in tempo¯21.

A concludere la questione della continuità, il riemergere di questioni come la sicurezza del sistema produttivo e infrastrutturale dagli attacchi militari, con quello che ne segue in termini di decentramento industriale, ruolo della decisione pubblica riguardo alle più o meno manifeste vocazionalità locali. In altre parole l’auspicio di una cultura del territorio che vada oltre la contemplazione e proposizione di nuove forme insediative, ma sappia conciliare l’esplosione delle nuove istanze particolari con una idea di coordinamento, indispensabile per una nazione moderna: «un piano regolatore non può essere frutto di una sola competenza (che, per lo più è … eminentemente artistica), in quanto troppe .. sono le materie da trattare¯22. La questione sicurezza è complessa, e concerne sia i modi dell’insediamento che la sua struttura funzionale ed organizzativa, a partire da un decentramento delle attività produttive e conseguentemente di residenza e servizi, ed in questo senso è auspicabile l’inserimento nei gruppi di lavoro preposti allo studio dei piani, di tecnici appartenenti alle competenze connesse ai vari elementi di forza e fragilità dei sistemi insediativi rispetto al tema della sicurezza, con particolare riguardo alle emergenze belliche. Questo, a ben vedere, non si discosta molto dagli auspicabili elementi di efficienza inseriti in un piano, ma introduce fattori nuovi o amplifica il significato di altri, come la velocità di connessione, l’intermodalità di trasporto, il fabbisogno energetico e in generale la vulnerabilità del sistema socioeconomico territoriale intesa in senso lato anche nel tempo.

Quelli del rapporto tra assetto territoriale e sviluppo sono problemi aperti almeno da quando con la fine degli anni Trenta l’accelerarsi dei processi di industrializzazione iniziava a porre in modo non solo accademico il nodo del piano territoriale, e ad aggiungere alle finalità classiche di tutela e riequilibrio e temi dell’efficienza. In particolare per la cultura degli ingegneri, che nel dibattito ufficiale urbanistico aveva nel periodo tra le due guerre perso terreno rispetto all’approccio degli architetti, sicuramente più efficace in termini di comunicazione e ricerca del consenso, si aprono con il dopoguerra nuove prospettive. Ma, almeno da quanto emerge dalle pagine de L’Ingegnere, l’impegno della categoria non va oltre la partecipazione ai convegni INU e relativi resoconti, del resto senza evidenti distinzioni culturali o programmatiche. La parte del leone, tra i contributi legati in vario modo ai temi del territorio, è destinata a questioni sicuramente di notevole entità, ma affrontate secondo un approccio settoriale: reti di distribuzione elettrica, metanodotti, portualità, autostrade, metropolitane e ferrovie, acquedotti, navigazione interna. Tutti questi argomenti, se certo contribuiscono a costruire una cultura dell’intervento sul territorio, lo fanno sulle pagine della Rivista in modo disorganico (per usare un termine caro alla cultura INU dell’epoca), ovvero senza alcun riferimento esplicito o comunque visibile con gli altri articoli di taglio dichiaratamente urbanistico: i resoconti dei congressi e convegni di urbanistica si mischiano senza soluzione di continuità con saggi provenienti dalle più disparate specializzazioni che a vario titolo interessano gli ingegneri, e soprattutto non cercano – né trovano – particolari relazioni con temi e argomenti contigui.

3. Efficienza produttiva e territorio: questioni aperte

In occasione della IX Triennale di Milano, la sezione lombarda dell’INU organizza un convegno sul rapporto tra urbanistica e industria «con il duplice scopo di portare gli urbanisti di tutta Italia a contatto diretto del problema … e di richiamare l’attenzione degli industriali sull’ … organizzazione urbana e regionale¯23. Il resoconto delle giornate di studio che appare su L’Ingegnere, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare da parte di una rivista per altri versi attenta ai temi dell’innovazione, alle tendenze del mondo produttivo, restituisce l’immagine di una sorta di scampagnata culturale, che tra visite alle zone industriali, conferenze e comunicazioni ufficiali, si conclude con appelli ai pubblici poteri perché favoriscano la collaborazione tra urbanistica e industria nei vari campi in cui essa è possibile, in particolare nel quadro dei piani territoriali e nell’incentivare lo sviluppo del Mezzogiorno24: a ben vedere, salvo qualche sfumatura di contenuti, niente di nuovo.

Niente di nuovo soprattutto per quanto riguarda il coinvolgimento degli attori forti delle decisioni localizzative di impresa, ovvero degli industriali, i quali nonostante gli sforzi dell’INU proprio «non riuscivano a comprendere quali concreti vantaggi aziendali potessero trarre dal seguire i criteri di localizzazione indicati nei piani urbanistici piuttosto che i loro criteri di convenienza¯25. Certo, questa è l’epoca del grande coinvolgimento pubblico in un progetto di modernizzazione nazionale, industrializzazione e tentativo di superamento degli squilibri regionali, ma sembra comunque emblematico che ancora il problema dell’ubicazione industriale nel Mezzogiorno sia occasione per affermare regole e principi astratti anziché (come da lustri suggerivano Mauro e il Chiodi) cercare un tavolo di trattativa con le necessità dell’impresa. Il piano territoriale ai sensi della legge del 1942, anzi, è visto come fortemente limitativo riguardo alle possibilità di intervento del ministero dei Lavori Pubblici, e il quadro che si propone è di fatto più simile ad un approccio di bonifica integrale, con i relativi poteri assoluti di una indefinita authority26. E che il riferimento anche esplicito di certa cultura del piano siano i progetti di colonizzazione del periodo tra le due guerre, emerge chiaramente dai commenti alle azioni connesse alla riforma agraria, che ripescano nientemeno che la voce Urbanistica Rurale del congresso INU 1937 lasciandone intatta la costruzione ideologica di intervento nelle campagne secondo principi urbanistici, senza – almeno esplicitamente – richiamare aggiornamenti ed integrazioni di tipo interdisciplinare, pure ben note agli addetti ai lavori27.

Quelli riportati sopra sono semplicemente resoconti di convegni, e dunque riassumono solo in parte la posizione de L’Ingegnere sui vari aspetti del dibattito urbanistico. L’economia di queste note non consente alcun tipo di approfondimento, ma va comunque osservato che a partire dagli anni Cinquanta la quasi totalità degli articoli di urbanistica pubblicati sono, appunto, resoconti di convegni, che poco si discostano dal tono del comunicato ufficiale. Per una presa di posizione culturale precisa della Rivista sui temi della città e del territorio, bisognerà attendere il dibattito sulla riforma della legge urbanistica, quando lo scontro fra interessi economici e sociali concreti vedrà emergere in tutta la loro eloquenza le ideologie degli urbanisti che negli anni della ricostruzione avevano coperto differenze tecniche e culturali anche profonde.

1 Alberto Vigevani, Milano ancora ieri. Luoghi, persone, ricordi di una città che è diventata metropoli, Marsilio, Venezia 1996, p. 101;
2 Gian Carlo Calcagno, Il nuovo ingegnere (1923-1961)¯, in Storia d’Italia – Annali – I professionisti, a cura di Maria Malatesta, Einaudi, Torino 1996, pp. 319-320;
3 Francesco Cristiano, La formazione urbanistica dell’ingegnere¯, in L’Ingegnere, febbraio 1966, p. 132;
4 Robert Ridgway, The modern City and the Engineer’s relation to it¯ (Addressed at the annual convention at Cincinnati, Ohio, april 22, 1925), American Society of Civil Engineers, Transactions, Paper 1572, Vol. 88, 1925;
5 Cfr. Silvio Ardy, Proposta di creazione di un Istituto Italiano di Urbanesimo e di Alti Studi Municipali, S.A.V.I.T., Vercelli 1926;
6 Cfr. Cesare Chiodi, Come viene impostato dalla città di Milano lo studio del suo nuovo piano di ampliamento¯, Città di Milano, luglio-agosto 1925;
7 L’Istituto proposto a Torino dall’Ardy, assai pesante anche per la pubblica finanza, sembrava in realtà più acconcio alla formazione di una eletta classe di funzionari comunali, che non alla creazione di un organo di propulsione, controllo e propaganda per la diffusione dei concetti fondamentali della dottrina urbanistica¯. Cfr. Alberto Calza Bini, Per la costituzione di un Centro di Studi Urbanistici in Roma¯, Atti del I Congresso Nazionale di Studi Romani, Roma MCMXXVIII – VI;
8 Oltre alle note tesi di Giuseppe De Finetti a riguardo (Milano, costruzione di una città, ETAS-Kompass, Milano 1968), e ai numerosi studi successivi che ne riprendono gli assunti, vale la pena segnalare la ricostruzione della vicenda e dei suoi sviluppi successivi dal punto di vista dell’impresa¯, focalizzata sulla figura e la fortuna professionale di Marco Semenza, il tecnico dei trasporti vincitore con Piero Portaluppi del concorso 1926-27, che negli anni successivi sino ala secondo dopoguerra continuerà a riproporre con scarso successo uno schema regionale basato sulla riorganizzazione intermodale della mobilità e il decentramento produttivo. Cfr. Amilcare Mantegazza, Claudio Pavese, L’ATM di Milano 1861-1962 – Un secolo di trasporto urbano tra finalità pubbliche e vincoli di bilancio, CIRIEC/Franco Angeli, Milano 1993;
9 Il ruolo dell’associazionismo come gruppo di pressione per i concorsi e le commesse professionali in campo urbanistico, ed insieme la relativa separatezza rispetto ad altri progetti pure connessi alla costruzione e modernizzazione dell’Italia, è ben riassunto in: Attilio Belli, Immagini e concetti nel piano – Inizi dell’urbanistica in Italia, ETAS Libri, Milano 1996. La separazione culturale e organizzativa della urbanistica degli ingegneri¯ dalla urbanistica degli architetti¯ è uno dei temi approfonditi da: Cristina Bianchetti, L’urbanistica al Politecnico di Milano: insegnamento e professione¯, DST, Rassegna di studi e ricerche del Dipartimento di Scienze del Territorio del Politecnico di Milano, n. 9, 1991;
10 Il rapporto tra intervento pubblico e privato, la questione delle risorse effettivamente attivabili in un quadro di modernizzazione senza fratture¯, è sempre e ovviamente alla base dei dibattito sulla pianificazione di area vasta dagli anni Trenta in poi. Per distinguere gli approcci tecnico-realistici¯ da quelli utopico-ideologici¯, basta confrontare la sezione Urbanistica Rurale¯ negli Atti del Primo Congresso Nazionale di Urbanistica (INU, Roma 1937), con le comunicazioni sul piano regionale di due convegni interamente gestiti dagli ingegneri, raccolti rispettivamente in: Atti del convegno lombardo per la casa popolare nei suoi aspetti igienico-sociali, Reale Società di Igiene, Milano 1936; Sindacato Fascista Ingegneri della Provincia di Milano, Atti del Convegno degli Ingegneri per il potenziamento dell’agricoltura ai fini autarchici – Lombardia – Emilia – Tre Venezie – Piemonte, Milano 1938. Il congresso nazionale INU si propone di fatto come coordinatore dell’opera di Enti vari (strade, bonifiche ecc.) senza apparentemente fare molto caso né alle ovvie resistenze all’ingerenza, né all’esistenza di enormi squilibri regionali. I convegni locali (nello spirito delle prime proposte di legge sui piani regionali) tentano di identificare in prima istanza strumenti organizzativi, di monitoraggio e gestione, in figure sociali, economiche, istituzionali esistenti, ribaltando i problemi in risorse di progetto;
11 Cfr. Adriano Olivetti, Gian Luigi Banfi, Ludovico Barbiano di Belgiojoso, Piero Bottoni, Luigi Figini, Italo Lauro, Enrico Peressutti, Gino Pollini, Ernesto Nathan Rogers, Renato Zveteremich, Studi e proposte preliminari per il piano regolatore della Valle d’Aosta, Nuove Edizioni Ivrea, 1943; per il quadro tecnico e istituzionale sul piano regionale si veda almeno Virgilio Testa, Necessità dei piani regionali e loro disciplina giuridica¯, Urbanistica n. 3, 1933;
12 Giuseppe Stellingwerf, Qualche considerazione sull’opera dell’ingegnere nella ricostruzione nazionale¯, L’Ingegnere settembre 1946, p. 715;
13 Cesare Chiodi, I problemi più gravi ed urgenti dell’urbanistica nell’ora attuale¯, Tracciati – Rassegna tecnica mensile della ricostruzione, n. 7, luglio 1946;
14 Idem;
15 Cfr. Vincenzo Civico, L’urbanistica come problema nazionale¯, e Distribuire il lavoro per distribuire la popolazione¯, rispettivamente in Critica Fascista marzo e maggio 1942;
16 Luigi Gazzaniga, «Industrie e ubicazioni», L’ingegnere maggio 1945 (parte I), dicembre 1945, (parte II);
17 Francesco Mauro, Nuovi appunti sulla localizzazione delle industrie¯, L’Ingegnere aprile 1946;
18 Francesco Mauro, Industrie e ubicazioni – A proposito del Mezzogiorno¯, L’Ingegnere settembre 1948;
19 Vincenzo Civico, Il II Congresso nazionale di urbanistica e di edilizia per la soluzione dei più vitali problemi urbanistici italiani¯, L’Ingegnere novembre 1948;
20 Cfr. Antonio Cecchi, La proprietà del suolo urbano e la rinascita delle grandi città¯, L’Ingegnere novembre 1945. In questo articolo si sostiene che l’eccezionalità del momento storico e le prospettive di sviluppo industriale pongono in primo piano l’esigenza (la possibilità eccezionale) di generalizzare l’istituto del diritto di superficie, salvo non porre la questione in termini di scontro tra intervento pubblico e interessi privati. Le posizioni successive della Rivista, in particolare durante il dibattito sulla riforma Sullo¯, saranno molto più orientate alla difesa degli interessi costituiti;
21 Cesare Chiodi, «Urbanistica nazionale o urbanistica provinciale?», L’Ingegnere dicembre 1951;
22 Giuseppe Stellingwerf, «Piani regolatori e protezione dalle offese belliche», L’Ingegnere agosto 1949;
23 Convegno dell’Istituto Nazionale di Urbanistica¯ [F.Natoli], L’Ingegnere dicembre 1951;
24 Le mozioni finali del convegno, insieme ad un resoconto e al discorso inaugurale, sono pubblicate in L’urbanistica industriale al Convegno di Milano¯, Urbanistica n. 8, 1951; Una scheda¯ del convegno tratta dai documenti ufficiali (atti, resoconti, programmi), sta in: Laura Besati, Istituto Nazionale di Urbanistica (1930 – 1975): un problema storiografico, Tesi di laurea, Relatori Bernardo Secchi, Franco Infussi, Istituto Universitario di Architettura, Venezia, a.a. 1986-1987, Tomo secondo, pp.935-944;
25 Marco Romano, L’urbanistica in Italia nel periodo dello sviluppo: 1942-1980, Marsilio, Venezia 1980, p. 77;
26 Cfr. Mario Zocca, Problemi urbanistici ed edilizi nell’industrializzazione del Mezzogiorno¯, L’Ingegnere dicembre 1952; Sulla stessa linea il resoconto del noto convegno INU di Venezia sulla pianificazione regionale, dove l’estensore ritiene addirittura indispensabile puntualizzare: Sappiamo che c’è ancora qualche architetto che intende l’Urbanistica come Architettura su vasta scala …; ma come lasciamo all’Urbanistica il nuovo significato di pianificazione su vasta scala, lasciamo che l’architetto concepisca e costruisca … Urbanista come urbanista, architetto come architetto¯, Giuseppe Caronia, Politici, urbanisti e architetti a Venezia (ai margini del IV Congresso Nazionale di Urbanistica)¯, L’Ingegnere marzo 1953;
27 Oltre alla produzione disciplinare coeva al congresso del 1937 di cui abbiamo già citato ad esempio il convegno del Collegio Ingegneri di Milano Per il potenziamento dell’agricoltura … (vedi nota 10), basta ricordare solo tra i più noti: Amos Edallo, Ruralistica – Urbanistica rurale con particolare riferimento alla valle padana, Hoepli, Milano 1946; Giovanni Astengo, Mario Bianco, Agricoltura e urbanistica, Andrea Viglongo & C., Torino 1946, e degli stessi autori (con N.Renacco e A.Rizzotti) anche i paragrafi sul tema del Piano regionale del Piemontese¯, Metron n. 14, 1947;

Nota: questo saggio mi venne espressamente richiesto per un convegno di storia dell’urbanistica a Torino negli anni ’90; il giorno del convegno mi fu chiesto per favore  (ufficialmente per motivi di tempo) di non fare la mia comunicazione; poi nemmeno l’articolo (ripeto, scritto ad hoc) venne incluso negli atti; mi ero così indispettito da essermi del tutto dimenticato l’esistenza di quel testo, che ho ritrovato con una certa sorpresa in una cartelletta secondaria dell’hard disk, abbastanza recuperabile dal vetusto sistema di scrittura con cui era stato originariamente elaborato (f.b.)

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