Densità edilizia e di popolazione (1950)

Limiti dello zoning

La costruzione della città è un gran parte orientata da leggi che definiscono le regole di comportamento della nostra società altamente strutturata. È caratteristico dei sistemi democratici, che si possa godere di libertà entro determinati limiti fissati dalla legge, a loro volta sanciti da rappresentanti eletti. Sono indispensabili, le scelte indipendenti di alcuni individui: servono come luminosi esempi di buona cittadinanza, ma i comportamenti collettivi in generale, che concorrono a costruire la città, devono rientrare necessariamente entro ciò che «la legge consente». Abbiamo osservato gli effetti del fattore principale di regolamentazione legislativa – lo zoning – sulle città. Evidenziando un limite sostanziale: gli eccessi quantitativi di edificato che consente in un dato spazio. Le norme di azzonamento che fissano i criteri di organizzazione urbana oggi lasciano che una città possa essere soffocata dall’affollamento di persone e edifici. Perché una moderna metropoli possa vivere, ci deve essere spazio sufficiente al suo interno.

Il sovraffollamento di uomini, edificato, trasporti e strutture è la prova, del tutto convincente, del fatto che gli standard dello zoning oggi sono inadeguati. Lo sono soprattutto in due aspetti: 1 – inadeguatezza degli standard minimi; 2 – la traduzione in pratica discrezionale dei medesimi criteri minimi. È essenziale correggere questi due aspetti, per contribuire a stabilizzare sia i valori dei terreni che i bilanci municipali, e naturalmente restituire alla città quel minimo di efficienza che oggi le manca. L’equilibrio fra libertà di agire e ordine generale, è il filo sottile su cui ci muoviamo in quanto democrazia. Un equilibrio indispensabile sia nella costruzione della città che in tanti altri momenti della vita sociale ed economica. Osservando la crescita urbana si nota come tale equilibrio non si realizzi ancora, ma esistono comunque alcuni orientamenti utili per arrivare a una formula in grado di ristabilirlo.

Ci colpiscono, il sovraffollamento, la congestione di alcune parti della città, e al tempo stesso la sottoutilizzazione di altre. Ciò ha prodotto l’idea, ad esempio, che complessi ad appartamenti non debbano essere auspicabili accanto a abitazioni gallion_density_02unifamiliari. Un concetto sostenuto dalle diverse densità dei due tipi di insediamento: pare non esserci molto senso nel chiedere una superficie di 4-500 metri quadrati per ciascun alloggio in certe zone residenziali, mentre in altre della medesima città se ne chiede la metà quando sono destinate ad appartamenti.

Unità di misura

La vera unità di misura nella società, è l’essere umano, da qui dobbiamo calcolare i criteri generali delle città. Si ritiene spesso che le necessità individuali siano variabili. È vero, ma certamente ciò non impedisce di definire criteri comuni di spazio minimo. Cosa riconosciuta dalle leggi vigenti: le ordinanze sull’edilizia prescrivono superfici minime per gli alloggi e le stanze, altezze minime dei soffitti, distanze minime tra i fabbricati – cortili, fronte, retro, laterali – o altezze massime. Chi vuole andare oltre questi minimi prefissati lo può fare, ma le regole prescrivono comunque degli standard comuni. Ma esistono incoerenze davvero assurde nella variabilità degli spazi previsti per funzioni praticamente identiche. Le piccole superfici necessarie quando una zona è ad appartamenti confrontate con quelle assai più ampie sempre per zone ad appartamenti, paiono non tenere affatto conto di eventuali variabili nel taglio degli alloggi, o del tipo di famiglie che li occupano. Abbiamo così appartamenti grandi a sufficienza per ospitare famiglie con molti figli, ma in zone dove la superficie corrispondente prevista non supera i 50 metri quadri ad alloggio, e altri appartamenti più piccoli dove invece lo standard fissato è di 500 metri quadrati. Insomma bisogna dire che il criterio della regola comune è sicuramente accettato da tutti, anche se poi nella pratica applicazione pare non essere tanto valido in sé.

Il fatto che tante persone possano occupare poca superficie di territorio, mentre altre ne godono in sovrabbondanza, in sé non significa certo che i bisogni essenziali siano variabili. Variano la composizione familiare, le caratteristiche dei vari nuclei, le preferenze, ma le variabili andrebbero valutate sui singoli casi. I bambini ad esempio hanno bisogno di molto spazio per potersi muovere e per servizi, spazio che invece non serve agli adulti; le famiglie quindi necessitano di spazio in proporzione ai bambini che le compongono, ma non dimentichiamo le necessità spaziali pro capite degli anziani per il relax, o degli adulti per le pratiche sportive, e quindi è proprio difficile dire che anche queste categorie in genere abbiano bisogno di meno spazio dei bambini. Tutto considerato, calcolando i vari bisogni, ci sono pochi dubbi che la differenza netta di questo spazio possa essere superiore complessivamente al 10% del totale area urbana. Una variabile poi riassorbita calcolando uno «spazio psicologico» di cui oggi si avverte certamente la necessità. Lasciando libertà di scelta agli individui, possiamo legittimamente concludere che le necessità spaziali urbane sono più o meno identiche per tutti. Se le norme di zoning collocano le concentrazioni di popolazione nei pressi delle attività economiche industriali e terziarie, rileviamo che una gran quota di chi lavora in quelle aree ha famiglie che esprimono un bisogno di densità inferiori. E secondo criteri analoghi, ci sono sia anziani che persone sole, pur in grado di adattarsi a una relativa concentrazione, che non hanno alcun bisogno di prossimità ai luoghi del lavoro centrali.

Il sistema a cerchi concentrici e densità decrescenti delle nostre città rappresenta un paradosso. Lo zoning lo accetta, il paradosso, e lo rende eterno facendolo diventare legge. Lo si accetta in generale sulla base della convinzione, falsa, che una elevata densità di popolazione organizzata in un certo modo – per edifici alti – sia una soluzione economica. Le pratiche attuali di azzonamento non hanno alcun rapporto con un’idea di equilibrio fra concentrazione e dispersione di abitanti, case, attività. Lo zoning esprime direttamente i prezzi dei terreni e delle loro trasformazioni: sono questi i criteri, non certo valori umani, ad essere comunemente accettati come unità di misura tale da determinare i piani urbanistici delle nostre città.

Un criterio unico

Se si traducessero in uno standard comune le necessità base delle persone quanto a densità di popolazione, allora le tipologie ad appartamento o la casa unifamiliare, l’edificio alto o quello basso, potrebbero diventare in potenza egualmente auspicabili. Li si accetterebbe vicino nello stesso modo, o come modo di abitare, o luoghi di lavoro. È necessaria una certa varietà di tipologie di alloggio per soddisfare bisogni molto diversificati tra le famiglie in una città. Ma sostanzialmente si tratta di necessità abitative essenziali minime comuni, di cui lo spazio aperto pro capite è una: i servizi nella città si devono calcolare sulla base dei bisogni umani, vero elemento comune. Siamo alla ricerca di una formula di organizzazione della crescita urbana che tenga conto di questo denominatore comune. Una formula che fissi il volume degli edifici a partire da un criterio unico di densità di popolazione auspicabile da tutti. Stabilirebbe un solo criterio per ogni genere di funzione invece che due, tre, a volte addirittura quattro come oggi d’abitudine nelle norme di zoning vigenti. Si stabilirebbe una relazione fissa fra la superficie di pavimento e quella di territorio.

Cerchiamo una formula di crescita urbana in cui un edifico può essere alto o basso, tozzo o slanciato, ma la superficie di pavimento contenuta sostanzialmente uguale.; una formula che respinga l’idea secondo cui si possa far stare più persone in un dato spazio semplicemente sovrapponendo un piano dopo l’altro. Più alto l’edificio, secondo questa nostra formula, più spazio aperto attorno ad esso. Cerchiamo un modo in cui gli investitori in immobili possano da soli determinare le forme che ritengono migliori da un punto di vista del mercato in cui investire: secondo una libertà di scelta esercitata entro un margine per cui non ci possa essere danno per nessuno, dentro e fuori il quartiere. Vorremmo trovare una formula in cui la varietà delle trasformazioni, nelle nostre città, sia contenuta soltanto dalla capacità di urbanisti e progettisti di operare entro una certa cornice di adeguatezza, lavorando su standard dotati di massimi e minimi ma che non irrigidiscono certo l’ambiente urbano.

La formula

Siamo abituati all’aspetto di concentrazione tendenzialmente illimitata di persone, consentita nelle zone ad appartamenti delle nostre città, e quindi è diventato d’uso accostare il sovraffollamento al normale sviluppo urbano. Se questa consuetudine si conferma in certe grandi concentrazioni su piccole superfici di grosse città come New York, Chicago o Filadelfia, la media effettiva delle densità, anche in questi mastodonti urbani, non ci dà né indici elevati, né segnali di particolare vitalità indotta allo sviluppo. La densità media nelle città minori sta fra trenta e quaranta famiglie l’ettaro circa, comprendendo tutte le tipologie di alloggi, dalle case unifamiliari agli edifici multipli. Ed è il criterio delle trenta famiglie l’ettaro – vale a dire 100-120 persone – quello che adotteremo per illustrare la nostra formula di calcolo.

gallion_density_01Si tratta di uno standard applicabile a qualunque forma di insediamento residenziale. Piuttosto elevato nel caso delle case unifamiliari, che in media vengono realizzate in numero di 15-18 per ettaro, ma si possono ottenere anche ottime qualità di spazi aperti lavorando sul sistema viario e le forme dei lotti, e qui andrebbe proprio fissato un criterio minimo di densità rispetto a quanto vorrebbero tanti costruttori. Col medesimo metro di valutazione, forse paiono poche, trenta famiglie l’ettaro per zone ad appartamenti. Ma la nostra premessa è soprattutto di evitare una sequenza di standard variabili, cercando comunque una certa uniformità. Con un sistema efficiente di trasporti pubblici veloci si possono servire benissimo milioni di persone insediate a densità di 120 abitanti l’ettaro, entro un raggio di circa venticinque chilometri, e tempi di percorrenza di poco oltre la mezz’ora, e si conti che esistono davvero poche città con più di un milione di abitanti. L’urbanista Harland Bartholomew ritiene che con una densità media di oltre 25 persone ettaro diventi conveniente e praticabile una frequenza di 20 minuti per i mezzi di trasporto pubblici veloci. Per le aree terziario commerciali partiamo da una densità di oltre 400 persone l’ettaro presenti negli edifici di attività economiche, ma visto che esiste un fortissimo traffico pedonale nelle vie di queste zone, poi si deve ridurre il calcolo a poco più della metà.

Sia per le aree residenziali che per quelle terziario commerciali, il nostro schema è rappresentato da una curva ascendente man mano crescono le altezze degli edifici. Così si possono commisurare gli spazi da aggiungere per la mobilità orizzontale e verticale e i relativi servizi di questo genere di fabbricati. Si avvantaggiano anche, gli edifici alti, per quanto riguarda la superficie libera corrispondente, dato che la sua efficacia unitaria cresce man mano aumenta l’altezza. Questa oscillazione di superficie di pavimento in più consentita con l’altezza, è del 10%-15% passando dai due piani ai trenta-quaranta piani, senza alcuna distorsione della formula: si tratta di una differenza che poi non incide affatto su servizi, reti, trasporti. Per applicare la formula non teniamo conto del genere di strutture che l’operatore sceglie di realizzare: l’unica condizione è che la superficie massima coperta deve corrispondere poi a arretramenti (anteriori, posteriori, laterali) e cortili così come specificati nelle norme. Non ci sono altri limiti, né di altezza né di profilo: il criterio per le trasformazioni è la proporzione fra la superficie di pavimento e il «lotto» edificabile su cui si costruisce.

Dato che la formula si basa sul rapporto tra spazio aperto disponibile e superfici di pavimento realizzate, si deve considerare come i «lotti» di trasformazione siano solo una parte della città intesa nel suo insieme: vie, parchi e altri spazi pubblici sono da considerarsi a parte. È logico calcolarli, questi spazi, per consentire certe quantità di edificato nei «lotti». Quindi l’area di riferimento si definisce allargandosi fino al punto mediano della strada, o spazio verde o spazio pubblico confinanti col lotto vero e proprio. Più ampi questi spazi, più superficie coperta consentita, visto che comunque la densità di popolazione resta più o meno costante. Proponiamo inoltre di introdurre i terminali a parcheggio organicamente nelle trasformazioni urbanistiche. Nelle zone residenziali gli spazi per la sosta sarebbero un quarto delle superfici di pavimento ammesse, ovvero l’equivalente di una piazzola per ciascuna famiglia; nelle aree terziario commerciali il parcheggio deve corrispondere alla superficie di pavimento totale, con l’aggiunta di quella dei piani terreni. In quale forma mettere poi a disposizione i parcheggi, sta agli operatori decidere, purché si collochino entro le aree di trasformazione.

Non esiste più la necessità di porre dei limiti alle altezze degli edifici, sia residenziali che terziario commerciali: la scelta sta a chi costruisce e investe nelle trasformazioni della città. Man mano aumenta l’altezza, aumenta anche l’area libera attorno all’edificio, e si mantiene fisso un rapporto proporzionale, che esso sia alto o basso. Rispetto alle norme attuali, le densità che suggeriamo sono certamente più basse, ma nel valutare le densità però non andrebbe mai dimenticato che: 1 – dato che le norme attuali non tengono adeguato conto dei fattori umani nelle proporzioni, le città diventano inefficienti e poco consone ai loro autentici scopi; 2 – la distribuzione attuale della popolazione nelle città, intesa come media, non varierebbe affatto applicando la formula. Certo si tratta di cambiare molto decisamente quelle che oggi sono le esorbitanti densità nelle aree urbane centrali più congestionate. Si chiede ragionevolezza nell’organizzazione degli abitanti sul territorio, vuoi per la residenza che per il lavoro. Si condivide l’idea che ci debba essere spazio sufficiente per spostare le persone, e per i servizi che rendono la città comoda e utile. E si respinge invece la tesi, così evidente nelle pratiche attuali, che si possa sovraccaricare all’infinito il territorio di persone.

I criteri usati per la formula sono quelli delle attuali città di dimensione media americane, che mantengono ancora proporzioni umane. Densità che nelle aree terziario commerciali consentono ancora spazi per circolare, parcheggiare, e tutti i servizi necessari alle attività economiche. La questione però non è proprio quella di fissare un massimale preciso numerico attraverso una formula: il bisogno più urgente è invece è limitare la densità in modo da riflettere bisogni, obiettivi, aspirazioni, qualità che si vogliono conservare o ottenere, particolarità locali. Forse si dovranno in questo modo cambiare abitudini consolidate, modificare alcune pratiche, e se è così si tratta di una sfida da affrontare decisamente e risolutamente. Sono scelte dei cittadini, e se non si sceglie, le città sono destinate a continuare nella mediocrità, in alcuni casi nello squallore.

Esiste una alternativa al criterio unico suggerito dalla nostra formula: uno standard triplice che fissa un massimo di densità auspicabile per abitazioni unifamiliari, un minimo di altezze degli edifici per le densità più elevate, più una densità intermedia uguale o maggiore a quella della formula. Una alternativa operante nelle zone a case unifamiliari così come accade oggi con le norme di zoning vigenti, dove sono l’unica tipologia consentita, e dove non si andrebbe oltre le quindici abitazioni ettaro. La nostra formula salirebbe a circa 150 abitanti ettaro, che si traduce in un rapporto fra superficie di pavimento e area libera corrispondente tale da determinare altezze massime a tre piani (due più il terreno). Il terzo criterio – altezze minime degli edifici per consentire alte densità – sarà coerente con la convinzione che fabbricati più alti offrono il vantaggio di popolazione concentrata nelle grandi città, riducendo i tempi di spostamento nella metropoli.

gallion_density_03C’è un senso, in questo dibattito sul ruolo degli edifici alti nella città moderna, ma si deve trattare di vantaggi reali anziché solo ipotizzati. Lo sviluppo in altezza, come auspicabile forma della città, così come viene concepito e praticato oggi, è un’illusione e una delusione, si limita allo sfruttamento dei terreni e a produrre congestione. Per far sì che edifici alti ed elevata concentrazione di popolazione possano svolgere un ruolo utile nella città di oggi, si devono modificare drasticamente le regole di sfruttamento dello spazio. L’alta densità non funziona, se gli edifici alti non hanno abbondanza di spazio libero attorno a sé. Si tratta del fondamento delle radicali teorie ad esempio enunciate da le Corbusier, e della chiave per un efficace sfruttamento delle tipologie alte. Se vogliamo approfittare dei vantaggi, è necessario stabilire coerenti norme urbanistiche, non consentire più come oggi uno sfruttamento intensivo delle superfici senza adeguato spazio aperto, e continuare a produrre congestione e carenza di servizi urbani.

Una elevata densità di popolazione funziona quando corrisponde a una piccola porzione di spazio occupata dagli edifici. Le Corbusier si spinge sino a indicare una quota minima del 5% del totale. La formula che abbiamo descritto sin qui cerca di individuare un criterio unico di densità, attraverso il quale si possano commisurare poi i servizi urbani e mantenere superfici aperte di corrispondenza, senza imporre alcun vincolo alle altezze degli edifici o alle loro forme. Ridurre la superficie occupata dai singoli fabbricati ad alta densità potrebbe produrre risultati analoghi, ma ciò comporta obbligatoriamente fissare altezze minime per mantenere densità. È un’alternativa, ma solleva un problema di accettabilità, paragonata al nostro criterio unico, per produrre città migliori.

Si potrebbe anche pensare che tutta la questione della densità sia soprattutto teorica, una riflessione accademica distante dalla realtà delle vere trasformazioni urbane. E si potrebbe classificare la nostra formula come altamente visionaria. Ma pensiamo per un istante che le nostre città vogliano reagire al disagio della congestione di cui soffrono oggi. Apparirà evidente come moltissimi interventi di quelli in voga, si rivelino poco altro che superficiali e temporanei, ad alleviare un poco il dolore. No si cura così una malattia, e anche i dottori che prescrivono queste terapie in fondo lo sanno, di star rinviando semplicemente un intervento più radicale. Nella diagnosi del male, risaliamo puntualmente alle cause profonde: una eccessiva densità di popolazione e il corrispondente uso intenso dello spazio disponibile. Proponendo una ricetta, individuiamo la proporzionalità della superficie di pavimento realizzata, allo spazio aperto circostante. In fondo si tratta di prescrizioni di zoning, da questo punto di vista nulla di nuovo. La differenza, sta nel momento in cui le intenzioni dello zoning vengono oscurate dalle masse eccessive consentite agli edifici rispetto alle superfici di terreno.

La nostra formula accetta egualmente sia il tipo della bassa casa unifamiliare che il grattacielo torreggiante, ma non il sovraccarico che impongono le elevate densità, ritenendo che si tratti di eccessi non necessari, non auspicabili, non gestibili. Una ulteriore differenza, tra la nostra formula e le pratiche correnti, è la convinzione che possa esistere un criterio unico di densità, per le attività terziario commerciali, e per quelle residenziali, che poi consenta grande libertà ai costruttori, entro una cornice di decisioni democratiche. Un unico standard di spazi aperti corrispondenti agli edifici, li rende accostabili, che si tratti di fabbricati alti o bassi, tozzi o slanciati, e costituisce la piattaforma su cui innestare armoniosamente tutta la varietà e l’espressione di una città democratica. Non basta, liquidarlo come difficilmente applicabile e non pensarci più: sono le nostre città di oggi ad essere difficilmente gestibili, anche se cerchiamo in ogni modo degli strumenti democratici per ripristinare un equilibrio.

da: The Urban Pattern – City planning and design, Van Nostrand, New York 1950 (cap. 25) – Titolo originale: Population density – Traduzione di Fabrizio Bottini – Per gli appassionati di dettagli quantitativi metto qui a disposizione scaricabile in pdf la pagina originale che Gallion dedica alla «Space Control Chart»

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