Facciamola finita (la città)

galbusera

Foto F. Bottini

Lo spazio pubblico nella sua forma più prosaica, ovvero quello che ci ritroviamo sotto i piedi, finisce talvolta abbastanza emarginato dal dibattito sul tema, salvo nelle forme metaforiche via via scelte dalle prospettive specialistiche e/o di approfondimento che ne analizzano i vari sensi occulti. Tanto occulti e profondi, appunto, da perdere di vista loro malgrado la concreta superficie da cui avevano preso le mosse. Proviamo a restarci.

Nell’ambito pubblico immediatamente immaginabile da un bozzettista della domenica: il reticolo di ambienti costituito dalle strade, spazi collettivi, piazze e verde di una qualunque parte di città o cittadina. Tra l’altro una città o cittadina che può esistere, o iniziare a prendere forma sul tavolo di uno studio di progettazione, per non parlare dell’altro tavolo al piano superiore, ovvero quello dove si decidono i finanziamenti dello spazio pubblico, che ne determineranno effettive dimensioni, natura, qualità.

Tanto per cominciare, essere un punto focale, di incontro, di riferimento, di orientamento. Se possibile, svolgere questo ruolo in modo articolato, ovvero diversificando gli elementi che lo compongono senza perdere l’idea di spazio unitario. Nell’insediamento moderno dove tanto – troppo – è stato concesso alla macchina, soprattutto nella forma su quattro ruote dell’automobile, la pedonalità diventa poi un carattere quasi sovrapposto alla natura pubblica dello spazio (certe volte anche in modo meccanico, acritico, controproducente).

A questo aspetto si legano poi ad esempio le varie forme della sicurezza, reale e percepita, che uniscono le prospettive visuali, l’organizzazione di eventuali barriere e l’eliminazione di altre; una sicurezza che specie nella dimensione percepita si accoppia con la rassicurante identità spaziale di forme e proporzioni, pieni e vuoti, simboli e atmosfera generale. Esiste poi una miriade di aspetti tecnologici, sottesi a ciascuno di questi obiettivi, indispensabili ciascuno e potenzialmente (ahimè, quasi mai) convergenti a formare sistema unitario omogeneo allo spazio definito.

La mia esortazione iniziale a restare per un attimo coi piedi per terra, magari idealmente immobili con altra parte del corpo appoggiata a un sedile, a guardarsi criticamente attorno, non aveva come scopo principale la guida alla scoperta dell’acqua calda. Risulta abbastanza ovvio che quanto descritto sopra corrisponde, più o meno, a qualunque giardinetto con fontanella e chiosco di giornali, tipo «Corvo Parlante» della Settimana Enigmistica.

A qualche lettore saranno però già venuti in mente per difetto altri ambienti del genere, che pur dotati di qualche carattere identico risultano monchi, imperfetti, al limite caricaturali: dal gated garden alla milanese terzo millennio, fino alla striscia commerciale fra due corsie di traffico, dove anche una pompa di benzina coi suoi vapori velenosi diventa occasione di stravaganti interazioni sociali, manco a dirlo baumanianamente liquide.

Ambienti monchi e imperfetti che da un lato costituiscono la stragrande maggioranza quantitativa degli spazi pubblici, dall’altro appaiono via via più vistosamente monchi e maggioritari man mano ci si allontana dal centro storico e/o identitario della città compatta, per riapparire episodicamente e altrettanti significativamente negli ambienti “fuoriporta” di ex aperta campagna suburbanizzata: dal santuario per matrimoni alla moda all’agriturismo con aia e vedute, magari annesso a vecchio borgo con fiera periodica.

Ambienti, tutti (spesso compresi quelli storici) che nel migliore dei casi hanno imboccato un percorso di assimilazione quantomeno tecnica, anche se non necessariamente simbolica e formalizzata, al modello dello shopping mall: accesso rigorosamente automobilistico regolamentato; punti di interfaccia rappresentati dai parcheggi e annessi; una circolazione interna a circuito chiuso e attività piuttosto specializzate. Modello che, a pensarci bene, vale ormai in potenza per quasi tutte le declinazioni e dimensioni di spazio pubblico così come riassunte sopra.
Credo abbia un certo valore generalizzabile, e utile alla lettura del tema di spazio pubblico a scala territoriale, questa tripartizione e relativa segregazione di ambiti: lo spazio privato; l’interfaccia della mobilità (a forte componente automobilistica); lo spazio pubblico vero e proprio. Senza contare che a ben vedere sia l’ambito neutro dell’interfaccia che quello «pubblico» risultano spesso piuttosto sbilanciati verso un approccio privatistico.

La prima osservazione ovvia, dato che si è citato un modello shopping mall, riguarda il forte condizionamento che in tutti gli ambiti a forte componente pedonale esercitano le utenze commerciali e di servizi, come è immediatamente verificabile osservando le variazioni nell’uso degli spazi a seconda degli orari e delle tipologie sociali di riferimento. La seconda, forse meno immediata ma non per questo meno macroscopica, è la sostanziale natura privata (almeno nella percezione individuale) dell’interfaccia, scomposto in una miriade di abitacoli e spazi di pertinenza (la piazzola del parcheggio assimilata al cortile della casa unifamiliare).

Se questa è la prospettiva, un po’ catastrofica ma non troppo, di progressiva riduzione dello spazio pubblico a fruizione collettiva di spazi sostanzialmente privati, che fare?

Direi innanzitutto osservare il problema nelle sue proporzioni reali, e poi agire di conseguenza. A partire da una idea a scala territoriale vasta di ambiti pubblici connessi a rete, recuperando lo spirito originario della pianificazione urbanistica della prima età dell’auto, successivamente ingoiato dall’apparentemente innocuo giocattolino meccanico. Un sistema, ovviamente e naturalmente, integrato a quello insediativo e soprattutto ambientale, che però recuperi in senso pubblico le potenzialità ad esempio della strip produttiva/commerciale, oggi vera e propria no man’s land, regno incontrastato di ogni particolarismo, dall’universo dell’arredobagno a quello della prostituzione, a seconda delle fasce orarie.

Un sistema che deve comunque presupporre un approccio conoscitivo assai pragmatico e concreto, a partire dagli elementi minuti elencati puntigliosamente in apertura. Lontano mille miglia ad esempio dalle facilone bolle speculative della «città infinita». che proprio a partire dal suo aggettivo qualificante rivela presupposti colpevolmente vaghi. Al massimo, contenitore buono (appunto) per enfatizzare gli usi privatistici attuali, moltiplicando contenitori di attività e convegni sponsorizzati. Tutte degnissime funzioni, ovviamente, ma che incontrano fatalmente, anche molto prima del limite di bruntlandiana sostenibilità, quello della più banale e ovvia sopportabilità.

 

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