Mica si coltiva per mangiare

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Foto M. B. Style

Nei primissimi anni ’80, mentre Manhattan lentamente si riprendeva dalla gigantesca crisi urbana così ben riassunta nelle cupe atmosfere del quasi contemporaneo film Fuga da New York, l’artista Agnes Denes piantava il suo Campo di Grano nelle superfici imbonite sulla sponda dell’Hudson di Battery Park. Meno di un ettaro di simbolico campo agricolo, giusto a un paio di isolati delle allora altrettanto simboliche torri gemelle del World Trade Center. Una specie di lavoro misto fra classico landscape e l’allora poco di moda agricoltura urbana, con centinaia di camion di terra di coltura, fatica manuale di pulizia e sgombro macerie, e perfezionamenti per drenaggio, e poi seminatura ancora a mano, pulitura dalle erbacce, con grande e rituale raccolto finale a ferragosto, mezza tonnellata di grano.

Ricorda l’artista che piantare spighe su un terreno che valeva diversi miliardi di dollari era piuttosto paradossale. «Il grano simboleggiava cibo, energia, scambi, economia. E lì evocava una pessima gestione di tutto quanto, gli sprechi, la fame nel mondo, le questioni ambientali. Focalizzava l’attenzione sulle nostre reali priorità». Focalizzare l’attenzione su alcune priorità: questo prova soprattutto a fare quel surreale campo agricolo tra i grattacieli miliardari, pure lui a prezzi di mercato da miliardi se li calcoliamo col metro delle rendite immobiliari, unico criterio che da allora ci hanno insegnato a rispettare. Al punto che spesso anche certe critiche «radicali» a qualsivoglia aspetto della nostra civiltà crollano folgorate in adorazione davanti alle cosiddette tabelline dei conti sfoderate dai ragionieri del capitale. Ma uscendo per un istante dalla solita spirale che ci porta verso liberismo globalizzazione e company, forse è il caso di tornare al punto centrale di questa piccola riflessione, che vorrebbe essere: ma a cosa serve l’agricoltura urbana?

Funzione, ossimoro, ideologia

Se ne dicono e pensano di tutti i colori, perché un terzo di secolo dopo quelle originarie pensate simboliche di Agnes Denes di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, e non solo dei ponti di accesso a Manhattan. Il verde nelle città come sappiamo ha da tempo smesso di essere considerato una specie di strascico del XIX secolo, fisico e mentale, per trasformarsi in una specie di infrastruttura portante della rete urbana, non solo inoltre, ma spesso addirittura invece di quelle classiche «grigie» ingegneristiche. Il verde gestisce i cicli dell’acqua, il verde amministra il clima, il verde può essere una componente organica dell’edilizia stessa, e naturalmente come ci indicava già tanti anni fa quel progetto di installazione vivente della signora Denes, verde è agricoltura. Ma quale, tipo di agricoltura, anche considerando scontato l’andare oltre gli aspetti puramente simbolici del progetto Wheatfield della Battery? Perché è senza dubbio vero che come confermano tante ricerche di serissimi organismi internazionali specializzati, ci sono centinaia di milioni di persone dedite a piantare ogni genere di colture tra case, baracche, superfici dismesse, scarpate ferroviarie e fasce fluviali urbane un po’ precarie, cavandoci di che sostentarsi. Ma è anche vero che queste masse si collocano quasi sempre fisicamente e culturalmente molto lontano da quell’originario simbolico campo di grano tra i grattacieli.

Non di solo pane vive la città

E visto che l’aspirazione di tutto il mondo che si sta via via urbanizzando pare proprio quella di assomigliare via via sempre di più al modello della ricca città occidentale e dei suoi abitanti, ovvero di noialtri, forse è interessante per tutti capire dove è andato e dove va il messaggio delle spighe da qualche milione al chilo tra i grattacieli. L’agricoltura urbana produce cibo, ma (del resto l’ha fatto per millenni anche quella tradizionale rurale) produce spazio, società, economia, e pare lo stia facendo in modo molto interessante soprattutto nelle città occidentali. Allo stesso modo in cui il verde ha iniziato a svolgere tante funzioni innovative o rivoluzionarie in tempi recenti, anche le colture alimentari si pongono come autentici laboratori di innovazione per esempio ambiental-commerciale quando i neo-contadini si pongono il problema di bilanciare rese e ricavi con la qualità abitativa dei quartieri. Esiste una risorsa suolo, sia intesa come superficie che come nutrienti, che come qualità visiva e infrastruttura verde, che non può e non deve essere munta e poi gettata via andandone a cercare un’altra. In città appare evidente ogni giorno, quel problema di sovrasfruttamento che ha fatto tramontare nella storia intere civiltà poco attente a consumare ciò che non era infinito, e non era rinnovabile. E oltre gli aspetti spaziali e ambientali ci sono quelli, correlati, sociali ed economici: quali relazioni intesse l’attività di coltura e cura della superficie agricola? A quali economie corrisponde il tutto? Che reti di scambi attiva? Sono queste le questioni, e molte molte altre, del tutto avvertibili negli operatori. Il fatto poi di «portare in tavola qualcosa» in realtà, pur centrale, smette di sovrastare ogni altro, e si mescola invece virtuosamente a una produzione di nuova umanità urbana. Non è poco.

Riferimenti:

Elizabeth Royte, Urban farming is booming, but what does it really yeld? Entia, University of Minnesota, aprile 2015

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