Ideologie politiche e scelte urbanistiche (1967)

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Foto F. Bottini (Milano, QT8, 1974)

Sono diversi anni che assistiamo ad un dibattito, in prevalenza a carte coperte, da parte delle diverse forze politiche, nell’ambito parlamentare e partitico, intorno alla legge urbanistica, Le diverse posizioni che ne sono scaturite si sono tradotte in contrasti anche nell’ambito dello stesso governo e di diversi partiti di una medesima coalizione, col risultato che nel volgere di pochi anni numerosi progetti di legge urbanistica sono stati presentati al governo dal Ministro dei Lavori pubblici, e poi ritirati e sostituiti da altri progetti; includenti formule diverse.

A livello governativo nazionale i problemi dell’urbanistica fino ad oggi sono stati, non motivatamente a nostro parere, ridotti soltanto al dibattito intorno alla legge urbanistica, e non invece intorno a tutti quegli elementi che sull’urbanistica influiscono o possono influire in misura rilevante ed alludiamo al piano economico nazionale; all’ente regione e al modo in cui questo si deve organizzare; alla riforma tributaria ed in particolare alla riforma riguardante gli enti locali.

Su taluni di questi argomenti, come la riforma regionale e quella tributaria, per la sensibilizzazione di taluni enti interessati, specialmente le province ed i comuni, il dibattito è attualmente acceso anche nelle sedi politiche periferiche, mentre la discussione sulla programmazione ha perso quasi completamente di mordente, di fronte alle vicende della politica economica nazionale che viene continuamente mostrando come si può benissimo, avendo il programma sulle labbra, continuare pervicacemente all’insegna dell’improvvisazione.

Il dibattito sull’urbanistica verte essenzialmente sul problema delle costrizioni e delle libertà da imporre o concedere ai privati nell’uso del suolo; sui rapporti tra privati ed enti pubblici aventi compiti di pianificazione urbanistica; sui livelli di governo ai quali vengono prese le decisioni attinenti l’organizzazione fisica del territorio; sulle modalità attraverso le quali viene ad essere svolto il processo di pianificazione; sulla regolamentazione del contenzioso; sulle sanzioni per i privati e per gli operatori pubblici, e così via.

Dietro ciascuno di questi elementi è trasparente ed immediato il riferimento per ciascun partito politico alla propria ideologia in termini di rapporti tra cittadino e stato (e comunque con enti pubblici); in termini di proprietà; in termini di accentramento del potere dell’organo statuale oppure in un decentramento ed in una ripartizione di questo potere tra molti livelli di governo, più o meno vicini al cittadino.

Il dibattito si apre così tra chi vuole nella maggiore misura possibile la centralizzazione nell’organo statale e chi, sul fondamento di un giudizio di valore basilare, fondamentale, vuole attribuire il massimo di poteri possibile agli enti intermedi tra il cittadino e lo stato, in vista di uno stato decentrato, fondato sulle autonomie locali; tra chi vuole il massimo di libertà di scelte per i cittadini anche a costo di sacrificare taluni vantaggi economico-tecnico-organizzativi, e chi pone l’obiettivo dell’efficienza come leit-motiv, ipotizzando che presto o tardi tale efficienza non può che ridondare a vantaggio di ciascun cittadino e di tutti i cittadini.

Per questo motivo ogni partito trova facile nell’arengo politico italiano, prendere posizione ideologicamente motivata in pro o contro determinate norme una volta presentate. Più difficile è, più che una scelta tra proposte, svolgere e portare avanti nell’ambito della propria ideologia, un sistema di proposte articolate e costruttive, che esprimano un senso ed una finalità compiuti, che costituiscano cioè un sistema di strumenti amministrativi e tecnici adeguati ad una visione di città che viene preliminarmente posta. Forse non tutti i politici hanno visione artistica e una conseguente capacità di immaginare un assetto concreto della città futura. Epperò anche se non in termini architettonici esatti e con una visione chiara e precisa certo i politici hanno in mente un assetto di città: proprio perché, per professione, sono adusati a pensare ad un modello ideale di rapporti tra cittadini e stato, di enti pubblici tra loro, insomma sono adusati a pensare ad un modello di società totale, nel quale collocano il ruolo dell’imprenditore privato e di quello pubblico, il ruolo del contadino e del sindacato, dell’operaio e del tecnico; dell’artista come dello scienziato. E la città e l’organizzazione fisica urbana e del territorio, non sono che un passo più in là di quella società vagheggiata, o quanto meno ipotizzata, alla quale aspirano a giungere passo a passo, attraverso misure concrete, mediate ovviamente nella realtà politica, nel campo del possibile. Sono la società tradotta nella pietra, negli edifici, nelle strade; e rappresentano le concezioni, le miserie ed i fasti di ogni società e di ogni civiltà.

Ma il passo successivo è che cosa è necessario fare per passare dall’assetto territoriale (cioè di habitat dell’uomo, urbano o rurale che sia) attuale, che presenta tutta una serie di fenomeni e fatti negativi, e la città-obiettivo, la città nella quale si può concretamente realizzare la società per cui si compie quotidianamente la battaglia politica? Qui in realtà si compie la frattura pratica.

Il problema che sorge e che costituisce 1’oggetto principale dell’avvio di una analisi che vorremmo spingere più a fondo in un prossimo futuro è il seguente: su che basi, su quali fondamenti potranno arrivare a compiere le proprie scelte i partiti politici quando non si tratterà più di discutere in modo più o meno esplicito su principi generalissimi, bensì su questioni concrete, precise, quali ad esempio sul piano urbanistico nazionale: sul tracciato delle grandi autostrade, sulla localizzazione dei grandi porti. Oppure quando si dovrà discutere sulla articolazione regionale del piano economico nazionale (nel caso tanto che tale articolazione venga preparata da burocrati a livello centrale, quanto se nasca in base ad una serie di piani locali apprestati a livello di singoli parlamenti regionali, che però devono essere resi compatibili tra loro mediante scelte inevitabili a livello centrale, specie in relazione ai piani di finanziamento delle spese per gli interventi ivi previsti)?

Il timore è che le scelte in tal caso vengano compiute in base al criterio di una contrattazione tra uomini politici per far attribuire risorse ai propri collegi elettorali, con scelte a priori che potranno, o meglio che potranno venire coperte a posteriori attraverso piani urbanistico-economico-finanziari preparati ad hoc; oppure che, con soluzione altrettanto poco valida, ci si limiti, come spesso accade, ad approvare piani tra loro ben coordinati in un sistema perfetto e conchiuso preparato da tecnici, le cui elaborazioni e scelte sembrano scaturire con una razionalità perfetta ed indiscutibile. mentre a volte algoritmi e sistemi di ricerca e analisi raffinati e sofisticati possono anche in questo caso mascherare intuizioni e scelte compiute a priori, questa volta dai tecnici anziché dai politici, magari a tutela di precisi interessi settoriali. Il che può essere una verifica della bontà di certe scelte, ma può anche essere una ulteriore conferma che gli strumenti più sofisticati, così come quelli più semplici ed elementari, dicono molte volte ciò che si vuol far loro dire. Ma con tutto questo arriviamo alle conclusioni che le scelte che i politici dovranno o devono continuamente compiere nel settore urbanistico, a livello centrale, a livello regionale e locale trovano evidentissima difficoltà ad essere legate all’ideologia che più o meno esplicitata e più o meno controversamente interpretata, è propria e sta a fondamento dell’azione concreta di ciascun partito politico.

Per cui, data l’incapacità di tradurre in termini concreti date posizioni ideologiche, il criterio per fare determinate scelte in campo politico-amministrativo è un generico “buon senso comune”, oppure è il contrario di quello che sostengono determinati partiti avversari; oppure è la soluzione che in un certo momento può mostrarsi tecnicamente più efficiente, oppure più produttiva dal punto di vista elettorale; oppure sono interessi materiali di uomini appartenenti al partito o del partito medesimo in sé, che deve trovare le proprie fonti di finanziamento.

Che questi criteri siano adottati può essere inevitabile, ma non certo auspicabile Quanto meno un chiarimento è necessario, e noi vogliamo tentare di iniziare ad esprimerlo.

Se ha senso che partiti politici rimangano suddivisi nelle proprie posizioni da macro differenze ideologiche, che cerchino la propria strada e le proprie alleanze per quel tanto di comune che è consentito dalle rispettive ideologie, sarà necessario tentare di sviluppare più di quanto non sia accaduto fino ad oggi un approfondimento ideologico da parte dei singoli partiti, per vedere se dalle impostazioni di fondo, sui grandi temi, sulle grandi scelte, sia possibile calare via via, in modo continuo e sistematico, una soluzione dei minori problemi.

È molto probabile che l’ideologia, il grande patrimonio di idee filosofico politiche calate e interpretate nella realtà concreta e nelle condizioni storiche del paese in un certo momento, non possa che fornire indicazioni di massima, mentre il resto costituisce un fatto o una scelta per così dire “disponibile”, cioè indifferente in sé dal punto di vista partitico politico.

Per esempio, nel patrimonio ideologico dei partiti marxisti e tra gli obiettivi da raggiungere nella società da parte dei medesimi vi è quello fondamentale enunciato da Marx, e ripreso e sviluppato sistematicamente da tutti i pensatori del partito, della eliminazione dello squilibrio città-campagna, squilibrio che sarebbe un portato del sistema capitalistico.

Tale finalità è oggi universalmente accettata, sia da parte delle forze marxiste, sia da chiunque si interessi di organizzazione fisica del territorio. Ma quello su cui ancora oggi non regna l’accordo, quello su cui non è mai regnato l’accordo, anche nell’ambito di quei regimi nei quali l’organizzazione della società si è potuta avviare in modo notevolmente conforme, ed in presenza di pochi vincoli, alle ideologie marxiste, si è aperto il problema del “come” rompere lo squilibrio storico tra città e campagna; con quali strumenti economici, politici, amministrativi, sociologici, ecc. Cioè, se si deve rompere lo squilibrio tra città e campagna, come si deve procedere dal punto di vista urbanistico? Dissolvendo la città nella campagna, in modo che non si abbia più né l’una né l’altra, ma un quid omogeneo? E come è possibile realizzare ciò su territori molto grandi, nei quali la dispersione degli elementi urbani nella campagna implicherebbe ogni caduta di effetto urbano, e la prevalenza dell’elemento depressione, squallore, assenza di servizi, proprio della campagna sulla città con costi molto elevati?

Ecco che allora nascono decine e decine di forme urbane alternative, che vanno dalla città lineare alla città uniformemente distribuita sul territorio, a numerose altre, che nell’Unione Sovietica sono state concretamente tenIate e sperimentate. Nei paesi socialisti, il riferimento alla idea marxista è quasi di rigore, per giustificare molte soluzioni fisicamente assai diverse tra loro, anche nello stesso paese e nello stesso periodo di tempo. In alcuni casi le scelte di pianificazione territoriale ed urbana sono giustificate soltanto ex-post sulla base di principi ideologici. In altri casi invece le scelte sono pragmatiche e prive di qualsiasi sforzo di giustificazione ideologica, anche ex-post.

Nell’esperienza italiana, nel caso delle amministrazioni locali (aventi il compito di organizzare la città e il territorio) nelle quali il potere è detenuto da comunisti, non risulta resistenza di tentativi di giustificare ex-ante o ex-post l’organizzazione della città e del territorio in chiave ideologica; né risultano esistere tentativi di tradurre logicamente e rigorosamente in precetti concreti e operativi (di tecnica urbanistica e pianificatoria in genere) i massimi principi marxisti sulla rottura dello squilibrio tra città e campagna.

Ciò può significare che, o si riconosce l’impossibilità di tradurre il grande simbolo di fondo (rottura dello squilibrio città-campagna) in coerenti termini operativi; oppure che lo si riconosca soltanto come un principio stimolante a livello di coscienza amministrativa, ma non precisabile fino al livello concreto degli strumenti operativi; oppure ancora che manca la volontà politica per uno sforzo di approfondimento culturale. Il risultato quindi, nei diversi ambiti amministrativi del nostro paese, è che sovente la posizione di determinate forze politiche di fronte a determinati provvedimenti urbanistici e pianificatori è basata su motivi essenzialmente di tattica partitica.

Tale comportamento di fronte a questi problemi è tipico nell’ambito delle amministrazioni locali italiane, non solo dei rappresentanti del partito comunista, bensì dei rappresentanti di qualsiasi altro partito. La particolare enfasi da noi posta sul caso delle repubbliche socialiste e del partito comunista nel nostro paese è dovuta al fatto che per tale settore politico l’ideologia in termini urbanistici, partendo dalla concezione marxista di cui si è detto, è stata da mezzo secolo e oltre la più sviluppata e analizzata; che per tale settore politico la disputa e l’approfondimento ideologico sono per tradizione e di fatto molto più avanzati che nel caso degli altri partiti politici.

Il problema però che si pone a questo punto è la ricerca di una norma di atteggiamento e di comportamento che permetta di valutare la razionalità delle prese di posizione dei diversi partiti politici, nel campo urbanistico, nel caso italiano in particolare.

Si afferma che la deideologizzazione dei partiti politici sia una delle connotazioni più rilevanti dei partiti medesimi nel mondo occidentale, in connessione con il progresso economico e sociale. Si pone allora il problema in base a che cosa possano venire compiute le scelte, dalle più piccole alle più grandi.

Noi siamo convinti che le scelte siano sempre compiute sulla base di giudizi di valore anche se, come in taluni partiti politici nei paesi anglosassoni, il partito è ufficialmente sostanzialmente agnostico; ma l’ideologia cacciata dalla finestra rientra dalla porta, attraverso le scelte sub-partitiche, o a livello di singoli membri del partito, nel momento del voto, nel momento della decisione.

Se ciò è vero, tanto vale che (quanto meno nel caso del nostro paese in cui tale deideologizzazione formale del partito non è certo così avanzata) il sistema delle coerenze tra scelte e ideologie sia verificato nella maggiore misura possibile.

Molto probabilmente però l’ideologia, calata e precisata nel concreto, nelle realtà territoriali e storiche non sarà tale, come si è detto, da fornire al politico indicazioni precise sul modo di “fare la città”, cioè sulla forma della città, sul tipo edilizio, sulla concreta organizzazione fisica del territorio.

Ad un determinato punto le scelte potranno palesarsi come indifferenti dal punto di vista ideologico; quindi da compiersi nel modo più razionale (cioè più logico, più economico, più efficiente) possibile, in relazione agli obiettivi da soddisfare, alle funzioni da svolgere. Salvo compiere una verifica successiva che la soluzione tecnicamente valida non contrasti con quanto ideologicamente acquisito.

Ora un fatto va decisamente sottolineato, fatto denso di rilevanti conseguenze. Abbiamo visto spesso, da parte dei diversi partiti politici, accettare suggerimenti e proposte dei tecnici, in campo urbanistico, proposte magari brillanti e potenzialmente cariche di suggestione, da porre a mo’ di simbolo sulle proprie bandiere. Non solo: ma davanti a sé medesimi e davanti agli altri l’intuizione di una idea diventa un postulato; una forma o una idea che può presupporre molte valide alternative viene considerata come l’unica possibile, non sottoponibile ad alcun procedimento critico, di verifica, bensì soltanto a discorsi e ad analisi ad obiettivo finalizzato e prestabilito: di dimostrare cioè la validità della tesi o delle tesi preliminarmente poste.

Non si tratta allora più di un problema ideologico o di un problema scientifico. È evidente infatti che a questo punto una tale posizione precluda ogni possibilità di ulteriore dibattito. In realtà, come abbiamo voluto dedurre da quanto abbiamo esposto, l’esigenza è quella di individuare un’area di “indifferenza” tra le soluzioni concrete proponibili, nell’ambito della quale sia possibile sviluppare, a livello interpartitico, una discussione e un dibattito. Dovrà poi, sì, ulteriormente avvenire un processo di filtraggio sulla base della ideologia di ciascun partito per controllare la coerenza e validità generale delle scelte.

(Questo articolo era proposto come editoriale dalla rivista Città e Società, luglio-agosto 1967)

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