Km0 o desolante localismo

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Foto M. B. Fashion

Lo capiscono tutti, che i comportamenti individuali virtuosi da soli non ci portano da nessuna parte, salvo forse una piccola, certo importante, pace interiore. La melanzana che ci coltiviamo sul balcone, la spesa con qualche fatica in più al negozio dell’angolo dove poi non troviamo davvero tutto, la scelta di certi prodotti sempre che possiamo permetterceli, è un bel sintomo di ripresa, ma non è la cura della malattia. Ci vuole (anche) dell’altro. Ci aiuta forse a intuire meglio la complessità del problema un antico concetto territoriale di economia agraria, quello dei bacini autosufficienti locali. Che pur risultando da statistiche, grafici e tabelle non sono concetti astrusi o specialistici, ma cose molto concrete, tangibili, persino sentimentali. In pratica degli spazi in grado di costruire economia, società, identità, politica, a partire dalla terra, dalla sua composizione chimica, dall’assetto geografico, idrologico, storia locale, rapporti con la regione più vasta. Tanto concreti e solidi, questi bacini, da essere stati a volte molto seriamente proposti come base di articolazione regionale di uno Stato. Le cose poi vanno diversamente perché l’uomo è molto più di ciò che mangia, si sa, ma quell’idea non è affatto male: in fondo una possibile declinazione non modaiola di chilometro zero.

Cos’è il territorio locale? Un intreccio di tante cose, oggettive e soggettive: quanto deve essere distante un negozio per essere locale? Dipende da dove sta o dalle cose che vende? E queste cose da dove devono arrivare? Dieci, cinquanta chilometri? Di più? Le cose cambiano moltissimo ad esempio a seconda se il territorio di riferimento è urbano, dove tutto è o dovrebbe essere più concentrato, oppure rurale dove le distanze aumentano anche parecchio. Un esempio di vera perversione del concetto lo si trova in un modo di dire diffuso (ahimè non solo tra gli operatori) secondo cui esisterebbe una cosa chiamata supermercato locale, per il solo fatto di rivolgersi principalmente a un bacino definito di popolazione, quando come ci raccontano benissimo tanti studi, gli unici rapporti della grande distribuzione coi luoghi sono di sfruttamento: dello spazio, delle risorse naturali, dell’economia, del lavoro. Anche senza demonizzare troppo.

È dal punto di vista alimentare che si è verificato negli anni recenti l’avvicinamento più serio al tema del territorio locale. Con tante iniziative, dai mercati contadini di vendita diretta, agli orti di quartiere o cooperativi, ad alcuni gruppi di acquisto, a sottolineare il rapporto diretto tra geografia, ciò che mangiamo, e in prospettiva tante altre cose, economia prima di tutto. Una sensibilità che paradossalmente ha coinvolto anche i suoi peggiori nemici: anche le grandi catene di distribuzione oggi propongono o fingono di proporre prodotti in qualche modo legati al territorio. Provando però a intervistare i più diretti interessati, e cioè i cittadini consumatori, il concetto di spazio agricolo locale o bacino alimentare che dir si voglia varia soggettivamente anche di parecchio: quasi la metà lo individua in un raggio irrealistico, quasi ridicolo, di una decina di chilometri, che ci ridurrebbe tutti alla fame nel giro di una settimana, o peggio. Ma ci sono comunque percentuali più piccole pur significative che capiscono quanto la dimensione minima debba essere metropolitana o regionale.

Dato che non esiste alcuna (figuriamoci) definizione ufficiale condivisa di alimenti di origine locale i caratteri generali quanti-qualitativi di questo bacino territoriale si devono enunciare per tentativi, a partire da considerazioni varie che possono avvicinarci alla per ora ragionevolmente irraggiungibile meta. Il primo è quello dei prodotti a denominazione di origine, e quindi con confini rigidi e netti riguardo al territorio, e precise norme riguardo al rapporto con lo stesso territorio e la società locali che questi prodotti devono instaurare, almeno sino alla commercializzazione. Il secondo aspetto è quello degli alimenti prodotti, lavorati, e commercializzati all’interno di un definito bacino, indicativamente di alcune decine di chilometri di raggio. Non si tratta oggi solo di un meccanismo arretrato, ovvero di cose tipiche non ancora in grado di fare un salto commerciale come accaduto ad altri prodotti, ma di una specifica rete produzione-distribuzione-consumo virtuosa e consapevole, che ad esempio è stata adottata anche da alcune catene di supermercati che vogliono salvarsi l’anima (o mostrare vistosamente di volerlo fare). Il che ha come premessa prima un rapporto strutturato e particolare fra chi fa la materia prima, chi la trasforma, chi la distribuisce, e poi una certa consapevolezza (non dimentichiamo convenienza e comodità) dei consumatori.

I vantaggi per il territorio di un approccio locale al ciclo dell’alimentazione sono ambientali, sociali, economici, vagamente riassumibili nel concetto di sostenibilità. Quando si produce, distribuisce, consuma un alimento, specie se secondo tecniche biologiche, entro un bacino circoscritto, nessuno dei benefici in senso lato di questo prodotto esce dal contesto, che così ha una certa autosufficienza, il ciclo si chiude. Cosa che vale anche per aspetti non secondari come la socialità, l’identità. La dimensione virtuale e soggettiva del sistema/ciclo di territorio locale si dovrebbe però sempre accompagnare a una solida base fisica e tangibile, altrimenti si rischia di scivolare nel localismo di facciata di certa grande distribuzione, che va poco oltre il contenuto di un’etichetta o gli slogan di una promozione speciale. È il caso di certe politiche pubbliche che sostengono forme specifiche di distribuzione come i mercati contadini, gli esercizi con base cooperativa ecc., ma che in assenza di una serie di integrate scelte di pianificazione e valorizzazione produttiva paiono poco più di un sostegno all’immagine folk locale, a uso di turisti e cittadini.

Quando la maggior parte dei fattori invece funziona come dovrebbe, e si verifica in tutto o in parte il circuito virtuoso fra produzione, distribuzione, consumo, economia locale, si può parlare di sistema integrato, in grado di auto sostentarsi e migliorarsi nel tempo, se vengono poste in atto azioni pubbliche adeguate per evitare le intrusioni indebite della solita grande distribuzione e del suo ciclo di fornitura, lavoro, trasporti. Questi sistemi un tempo esistevano spontaneamente, e coincidevano più o meno con il raggio di influenza di un centro di mercato, del tipo usato come modello dai pionieri dell’economia territoriale, con le distanze massime a cui un contadino trovava conveniente spostare i frutti del suo lavoro ecc. Con lo sviluppo dei trasporti e delle tecniche di coltura e conservazione prima, del sistema di approvvigionamento e distribuzione delle grandi catene poi, questo modello di parziale autosufficienza dei bacini territoriali integrati è venuto meno, ma ha lasciato qualcosa più di una traccia.

Esistono infatti anche oggi sistemi del genere abbastanza vitali, e che potrebbero diventarlo anche di più se fossero sostenuti da interventi organici, in grado di toccare contemporaneamente tutte le componenti, oltre ad ostacolare il tipo di invadente e indebita concorrenza dei colossi distributivi. Tempo fa la Campaign to Protect Rural England aveva lanciato una iniziativa su questi sistemi alimentari locali, che in fondo rappresentano un modello ideale di autotutela dei territori oggetto di interesse dell’associazione. Erano stati comparati una serie di studi di caso locale a osservazioni generali sul problema di questi distretti, della loro tutela, e implicitamente del modello che possono costituire per attivare esperienze simili. Simili soprattutto nel metodo più che nel merito: è difficile, se non impossibile e contraddittorio, omologare tutto ciò che è strettamente locale, dipendente da variabili troppo specifiche. Ma studiare ciò che accade in una particolarissima valle collinare, può fornire spunti per capire meglio cosa si potrebbe fare in un sistema metropolitano, o in uno di quei quartieri slum delle megalopoli terzomondiali abitati da ex contadini, e dove il know-how più diffuso, quello del coltivatore appunto, viene sistematicamente ignorato in una idea ristretta di ambiente urbano. Insomma capire la differenza tra bacino chiuso perché non ce la fa ad aprirsi, e consapevole integrazione e parziale autosufficienza, rappresenta un passo in avanti per tradurre in azioni pratiche la retorica benintenzionata sulla sostenibilità. Ce n’è un gran bisogno.

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