La casa deve essere per forza una merce?

Foto F. Bottini

Il paese è sulla soglia di una grave crisi delle abitazioni. Tutti i meccanismi che alimentavano il sistema americano della casa non funzionano più come era successo per un certo periodo. La bolla immobiliare del 2008 ha condotto a un crollo degli investimenti nell’edilizia residenziali, e dieci anni dopo — prima che ci riprendessimo del tutto — la pandemia ha obbligato milioni di lavoratori a riorganizzarsi per operare da casa. L’abitazione in America è un problema che vede da sempre lo scontro tra progressisti che la vedono come un diritto umano, e avidi speculatori che la considerano invece una merce, ma oggi sia gli affitti che i prezzi di acquisto si sono impennati ben oltre le possibilità di molti. Anche i ceti medio-alti iniziano ad abitare in situazioni di affollamento nelle città, mentre all’altra estremità della scala sociale avanza minacciosa una vera e propria crisi degli homeless.

Tradizionalmente le soluzioni si concentrano sulle possibilità del mercato privato e della libera concorrenza. Il ruolo pubblico diventa puramente complementare a questa tendenza. Viene relegato in una posizione di debolezza ed eterni circoli viziosi di passività. E di conseguenza sono molti ad aver definitivamente accettato di dover ad ogni costo comprarsi una casa, o abitare in affitto in un appartamento privato, lasciando al settore pubblico la pura assistenza e la gestione di pochi alloggi per i poverissimi. Eppure esiste un’altra possibilità per affrontare la crisi frontalmente: l’abitazione sociale. Ben diversa dalle tradizionali case popolari americane pubbliche, destinate ai redditi più bassi, questo modello di abitazione può rivolgersi a chiunque. La casa è per tutti coloro che ne hanno urgentemente bisogno: quindi in teoria tutta la popolazione.

L’obiettivo è esattamente di praticare la casa in quanto diritto universale. A questo scopo occorre accantonare quella cultura che in qualche modo considera alcune fasce di popolazione estranee all’idea di abitazione pubblica: che si tratti dei più poveri o dei più ricchi. Tutta la società deve abbandonare la presunzione secondo cui qualcuno non può abitare come e insieme a qualcun altro. Chiunque può coabitare, o ancora meglio chiunque può aspirare a un futuro equo e garantito.

Due grandi problemi

Pensare che il problema della casa in affitto o in proprietà si posso osservare prevalentemente nella prospettiva privata genera due grandi problemi. Il primo è che le costruzioni così avvengano in modo casuale e a seconda di alcuni cicli economici, non per rispondere ai bisogni di case. Durante la bolla edilizia dei primi duemila sono state realizzate milioni di abitazioni, ma dopo la crisi finanziaria il settore ha avuto un crollo e nel 2009 le costruzioni di case in proprietà hanno toccato il minimo storico. Secondo Business Insider poi il paese non ha più recuperato il medesimo livello di prezzi pre-recessione.

La necessità di case non è certo diminuita dato che la popolazione continua a crescere. Ma i costruttori privati non avevano alcun motivo per riprendere a dilagare nel mercato immobiliare, dato che ci sarebbero voluti lunghi anni perché il paese si riprendesse economicamente. Quando si raggiunse di nuovo un certo livello di piena occupazione, la disponibilità immobiliare risultava scarsa, e i prezzi ripresero a salire drasticamente, sull’arco del decennio fino al 35%. Nel 2020, la pandemia al tempo stesso faceva aumentare la domanda e spingeva ulteriormente in alto i prezzi del 20%. Oggi, molto prima che si recuperi il massiccio ritardo nelle realizzazioni edilizie, potrebbe partire un nuovo crollo di mercato. A giugno la Federal Reserve ha rialzato gli interessi dello 0,75%, (l’incremento più elevato da metà anni ’90) e potrebbe alzarli ancora. Di conseguenza, gli interessi sui mutui sono cresciuti dal 3% al 6% in pochi mesi, mentre stagnano i nuovi cantieri per le case.

Il secondo dei due problemi è che il mercato privato mira a guadagnare e non certo a costruire case per rispondere al bisogno di abitazioni. Molte persone non hanno il reddito necessario a coprire le spese per una casa adeguata, altri non possono permettersene proprio nessuna. Ne consegue che in tante città come San Francisco o New York, dove la crescita di posti di lavoro altamente qualificati e pagati supera di gran lunga quella delle nuove abitazioni, i costruttori si rivolgano esclusivamente al mercato di lusso. Le case pubbliche già sono in tutto il paese una risorsa essenziale per i nuclei familiari a basso reddito, specie in posti come New York City. Sono di proprietà dello U.S. Department of Housing and Urban Development e gestite dall’amministrazione locale attraverso agenzie specializzate.Secondo i calcoli della National Coalition for the Homeless, sono circa 1,8 milioni le famiglie che ci abitano.

Ma anche qui sorgono dei problemi. Il primo è che gli edifici sono realizzati e gestiti sotto-costo grazie a sussidi, e che questi vengono tagliati dalle amministrazioni conservatrici, o per crisi economiche. Ed ecco la ragione per cui gli immobili di proprietà pubblica americani hanno un calcolato bisogno di 80 miliardi di investimenti in mancate manutenzioni e altro. Il secondo problema dell’edilizia pubblica è che in America sia rivolta esclusivamente ai redditi più bassi (in genere sotto l’80% di quello medio locale). Il che, unito alla pessima fama dei quartieri popolari pubblici, significa in tante città zone di fatto destinate ad afro-americani poveri (a cui si deve aggiungere il razzismo cronico dei meccanismi di finanziamento). Come hanno notato in molti, compresa la nostra rivista anni fa, le case pubbliche si costruiscono solo in quartieri poveri, neri, già degradati. La concentrazione di povertà si somma ad altra povertà ancora, fino a far coincidere l’idea stessa di quartiere pubblico a quelle caratteristiche di abbandono sovraffollamento e casermoni. Oggi l’edilizia pubblica pesa solo l’1% del totale del mercato delle abitazioni.

Edilizia Sociale

Ai problemi esposti sopra prova a dare una risposta il concetto di edilizia sociale. L’idea di fondo è semplicemente di pensare una casa per tutti. Ad esempio, una amministrazione municipale che possiede un complesso ad appartamenti e ne dedica un terzo ad affitti con forti sussidi per famiglie a bassissimo reddito, un terzo a prezzi ancora controllati ma per redditi medi, un terzo ancora aperto e a prezzi di libero mercato. Un tipo di offerta che contemporaneamente si rivolge a tutti i segmenti della domanda, dai più alti ai più bassi, del mercato immobiliare. Un edificio del genere non ha bisogno di sussidi di gestione, visto che le manutenzioni si possono sostenere grazie ai due terzi dei redditi superiori (secondo ripartizioni variabili). Gli affitti si possono mantenere bassi perché l’ente pubblico non ha certo la finalità del guadagno. Anche le costruzioni si finanziano emettendo titoli e senza finanziamenti diretti. Infine, un ampio comparto residenziale di questo tipo fungerebbe da stabilizzatore per l’intero settore edilizio. Il momento migliore per costruire sarebbe naturalmente quello di economia al ribasso, con costi ridotti del lavoro, dei materiali, dei terreni. Invece di abitazioni realizzate tra grandi espansioni e scoppio di bolle immobiliari, con carenza di manodopera fallimenti licenziamenti, ci sarebbe una maggiore stabilità anche nell’occupazione. Agendo sul resto dell’economia.

La casa sociale può assumere le forme tradizionali dell’edificio multifamiliare alto, ma anche organizzarsi diversamente. La cosa più importante è che non sia stigmatizzabile, simbolo di povertà e degrado. Non si tratta di una riflessione puramente teorica. Nella realtà, la casa sociale in varie forme esiste in tutto il mondo, con tante qualità e difetti. Quella di Vienna è una storia particolarmente positiva, visto che tre abitanti su cinque abitano in una casa pubblica. Come ha scritto Peter Dreier, professore di politiche pubbliche all’Occidental College, qui sul Prospect nel 2018, a partire dai primi anni ’20 del secolo scorso l’amministrazione viennese sistematicamente incrementa la propria quota di proprietà di case. Inoltre, la pubblica amministrazione realizza e gestisce servizi comuni come «asili, nidi, consultori, luoghi di incontro, ambulatori» e mantiene il tutto in efficienza con un piccolo prelievo sul reddito delle famiglie. La riuscita di Vienna si deve anche al fatto di aver adottato un modello a redditi compositi per le case pubbliche, che le rende accessibili a chiunque. Una eredità arrivata sino ai nostri giorni concludeva Dreier: «800.000 alloggi che fanno della amministrazione pubblica il principale proprietario di casa della città».

Giusto non vuol dire anche facile

Per cambiare le cose occorre agire a livello nazionale su un programma di case sociali. E un grosso ostacolo è il cosiddetto Faircloth Amendment, approvato durante l’amministrazione Clinton imposto dalla maggioranza parlamentare Repubblicana. Si inserisce dentro una più ampia riforma del welfare col Quality Housing and Work Responsibility Act (1998). L’emendamento specificamente mette un tetto alla quantità di case pubbliche che possono essere realizzate, collegato alle quantità disponibili nel 1999. In pratica per costruire abitazioni pubbliche ne devono essere distrutte altre. Eliminare questo sordido trucco sarebbe un passo avanti importante per qualunque rivitalizzazione del settore pubblico residenziale. Anche se da allora molte amministrazioni statali o cittadine l’emendamento Faircloth hanno imparato ad aggirarlo. Se una abitazione sociale non richiede espressamente sussidi federali- e ne abbiamo descritte sopra – il trucco Faircloth non si applica. La Montgomery County in Maryland ha realizzato diversi progetti secondo quel modello.

Per adesso

Esistono poi altre possibilità di uso immediato. Ad esempio il concetto di community land trust, ente senza scopo di lucro che gestisce alloggi e spazi comuni in una certa zona. Ne esistono già oltre duecento nel paese. Terreno e immobili vengono gestiti dalla comunità che li abita e ne conosce i problemi, assicurando efficienza e giustizia nel tempo. Ma qualunque programma sociale richiede tempo per diventare operativo, ed è oggettivamente difficile di punto in bianco togliere dalla testa delle persone in fatto che la casa sia una merce. In fondo però è proprio il bello delle grandi idee. Lo stato delle cose nel settore, in cui più di un terzo della popolazione spende oltre il 30% per abitare, e il 15% più della metà, non può continuare. Troppa ricchezza nazionale sparisc dentro le tasche degli speculatori, e troppi cittadini sono senza tetto. A grandi problemi grandi soluzioni: come trasformare la casa in diritto.

da: The American Prospect, agosto 1922; Titolo originale: Why We Need Social Housing – Traduzione di Fabrizio Bottini

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