La Città Enigmistica

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Foto F. Bottini

C’erano una volta, tanti anni fa, i sociologi urbani impegnati nei loro studi sulla composizione della città e i flussi che la attraversavano. Ovviamente per loro gli spazi fisici erano solo i contenitori di pietra dentro cui si muovevano le passioni, i desideri individuali e collettivi che a quelle pietre conferivano vitalità, nel bene e nel male. Ma ovviamente non potevano non accorgersi dei rapporti di reciproco condizionamento, fra cervelli e mattoni. Anche oltre il noto assunto, caro ai palazzinari, che associa il funzionamento del cervello alla capacità di far soldi, e l’accumulo di mattoni come via più breve per riuscirci. Solo per fare qualche esempio dell’interazione virtuosa fra sociologia urbana e spazio fisico, limitatamente alla forma del quartiere, si può citare innanzitutto la teoria della neighborhood unit di Clarence Perry, elaborata sull’arco di una ventina d’anni, prima leggendo gli spostamenti degli abitanti di varie fasce sociali dalle proprie abitazioni verso i servizi, e poi riferendo i medesimi spostamenti e la loro frequenza e modalità ad alcuni schemi spaziali piuttosto che ad altri.

Nel medesimo campo possiamo poi collocare la vera e propria nascita di alcune figure professionali e correnti di pensiero nell’Italia della ricostruzione post-bellica negli anni ’50 della tumultuosa urbanizzazione e industrializzazione, quando ai villaggi e alle corti rurali per tantissime famiglie si sostituivano gli ambienti nuovi dei quartieri popolari pianificati. E ancora, più o meno contemporaneamente, il tentativo degli studiosi di scienze sociali, di norma abbastanza frustrato (con le New Town britanniche o lo Urban Renewal statunitense) di legare in qualche modo domanda e offerta di quartieri di iniziativa pubblica, progetto spaziale e assegnatari. È pure abbastanza noto che le teorie di Jane Jacobs sul ruolo centrale del «disordine urbano» derivano proprio dal tipo di «ordine» che veniva imposto da progetti nati nell’ambiente sterile di un tavolo da disegno e del tutto ignari, anche se forse con le migliori intenzioni, del conteso sociale in cui si andavano a inserire. Un conto però è studiare sistematicamente qualcosa, cercando il bandolo della matassa, altro conto attaccarsi come una cozza a un solo elemento stridente e costruirci strampalate teorie che non stanno né in cielo né in terra.

Anche la cosiddetta disciplina degli «spazi difendibili» nel quartiere di Oscar Newman, già piuttosto faziosa per conto proprio, dato che in sostanza attribuiva un valore intrinseco superiore alla proprietà privata, spesso condannava gli eccessi di verticalizzazione dei complessi residenziali. Però certi studi come quel rapporto del think-tank conservatore Policy Exchange, Create streets, not just multi-storey estates, fanno proprio di tutto per rendere ridicola ogni critica, magari fondata, a certi difetti spaziali evidenti. Vero, lo sappiamo tutti: i cosiddetti alveari disumani dei complessi di iniziativa pubblica, che pullulano nelle città di tutto il mondo, pare peggiorino man mano crescono le altezze. Pare, ma sarà proprio vero? Cioè, sarà vero che la natura umana, come diceva rendendosi a sua volta ridicolo l’amico dello sprawl Robert Bruegmann, tende istintivamente alla villetta con giardino? Non è più corretto e ragionevole affrontare il tema con la complessità che si merita? Invece no, quel titolo la racconta già tutta la faccenda, le città devono piantarla di essere verticali e diventare invece orizzontali, il quartiere è fatto di relazioni orizzontali (evidentemente l’ascensore è uno strumento del demonio), che sole garantiscono bellezza, giustizia, relazioni amichevoli, sicurezza, magari pure reddito, chissà.

La tesi di Policy Exchange è, tra l’altro, che gli attuali complessi popolari sviluppati in altezza non abbiano densità particolarmente elevate. Forse hanno pure ragione, ma ce lo ricordiamo tutti il motivo per cui generazioni di architetti razionalisti si sono scervellati per pensare quei grandi parallelepipedi: più cose sospese per aria, meno cose posate a terra, e quindi più terra libera per farci del verde o simili. La loro idea di «Costruire strade invece di complessi verticali» implicitamente evoca strade in cui si esce di casa proprio direttamente sulla strada, perché in quello che poteva essere lo spazio pubblico è stata costruita la casa del vicino. Matematico. E poi, anche se in questo specifico rapporto la cosa non è proprio centrale, forse non va dimenticata la produzione precedente di questo centro studi così legato ai Tories. Come dimenticare giusto per l’occasione le loro interminabili tirate a demonizzare la greenbelt agricola attorno alle grandi metropoli, quando spiegano al popolo che il paesaggio deve essere bello, e se non è bello meglio costruirci sopra delle belle casette, di cui c’è tanto bisogno? A questi reazionari e ideologici signori, non passava neppure per la testa quell’equilibrio fra città e campagna già identificato proprio da certi loro connazionali (il riformatore sociale Howard, o il biologo Geddes) un secolo fa, come chiave della sostenibilità metropolitana, e aggi così attuale davanti all’urbanizzazione del pianeta.

Proprio all’urbanizzazione planetaria pensava invece oltreoceano lo statunitense Urban Land Institute affrontando il tema della densità edilizia urbana, anche in quel paese invisa a palazzinari e liberisti destrorsi in genere. Il ragionamento passa proprio dal punto vistosamente e strumentalmente ignorato nel cosiddetto studio di Policy Exchange: crescere un po’ in altezza, consente poi di crescere in superficie dedicata a funzioni diverse da quelle dell’abitazione privata, che siano spazi pubblici, verde, attività economiche, infrastrutture a varie scale. Perché la città, come insegnerebbe il buon senso se non fosse offuscato dagli interessi particolari da sostenere ad ogni costo, si compone di quesiti orizzontali e verticali insieme, come i migliori cruciverba, e solo incrociandoli assume senso. Chi vuole affrontare il problema urbano deve vedere l’intreccio fra spazio, società, natura, geografia, tecnologia, energia, per quello che è, ovvero dove tutto si tiene. Quartieri densi, insomma, non vuol dire ammucchiare appartamenti uno sopra l’altro, e anche le case a torre non devono essere per forza degli incubi architettonici.

Il trucco sta nel mescolare analisi della domanda, analisi vera si intende, e proposte di trasformazione. E poi tenere d’occhio lo svilupparsi di queste trasformazioni, man mano il contesto si adegua, si stabilizza, interagisce. Cosa che ad esempio facevano poco e male certi progettisti del movimento moderno, forse troppo occupati nel loro laboratorio mentale astratto per capire cosa bolliva dentro i corridoi svuotati delle loro unità di abitazione abitate malvolentieri. Il nuovo rapporto elaborato dallo Urban Land Institute esaminando il caso specifico virtuoso di Singapore estrapola Dieci Principi per Città Dense ma Molto Abitabili:

  1. Pianificare per il lungo periodo (esattamente il contrario del muoversi per singoli temi e progetti, così come capita, senza coordinamento urbanistico)
  2. Costruire una città solidale e inclusiva (esattamente il contrario dell’ideologia mercatista che produce zoning segregante, sia sul versante economico, che etnico, che funzionale)
  3. Introdurre elementi naturali nel tessuto della metropoli (ovvero realizzare una sintesi fra ambiente e tecnologia, come quella preconizzata dai teorici delle greenbelt e delle infrastrutture verdi)
  4. Ricomporre, ovviamente rinnovato e arricchito dai portati delle tecnologie e delle conoscenze, il sistema tradizionale del quartiere misto, in cui convivono a distanze fisiche e mentali minime le funzioni dell’abitare, del lavorare, della scuola, della salute, del tempo libero (proprio l’organizzazione fisica rigidamente negata dalle vie residenziali unifamiliari)
  5. Concepire e sfruttare al meglio ogni genere di spazio pubblico, integrandoli nel tessuto della città e dei quartieri in forme sinergiche, così che ogni unità di superficie e specifico uso sfrutti i coefficienti di moltiplicazione esterni del proprio valore intrinseco
  6. Sfruttare la grande densità di ricchezza implicita nella grande densità edilizia, per una rete di trasporti ad elevati investimenti tecnologici e ambientali, che si alimenta dalle fonti rinnovabili di energia, e restituisce efficienza che produce nuova ricchezza … ad libitum
  7. Se proprio la densità rischia di tradursi in effetti visuali sgradevoli per l’occhio umano, vuol dire che non si sanno progettare gli spazi, che non si capisce nulla di progettazione in grande stile. La gente prende l’aereo per andare a vedere le montagne, non si capisce perché dovrebbe detestare una cosa alta, se è casa sua! Quindi darsi da fare per comporre qualità e paesaggio urbano appetibile
  8. La sicurezza è il motivo per cui le città sono nate: ripararsi al meglio dalle forze della natura e da certe manifestazioni sociali poco gradevoli, come l’aggressività dei nostri simili. Oggi uno spazio urbano moderno e funzionale deve garantirne di più, di sicurezza, non di meno in nome del progresso.
  9. La ricerca e l’innovazione, come insegna il buon senso, non sono una cosa che succede solo nei laboratori ad alta tecnologia, ma si sviluppa in modo orizzontale (non dal punto di vista edilizio) con la partecipazione e l’interdisciplinarità. Anche applicate alla produzione di contesti urbani più avanzati.
  10. Infine, la città, specie la grande città, è un prodotto collettivo, che si alimenta di intrecci continui fra gli aspetti individuali, privati, e quelli pubblici ai vari livelli e competenze. Solo un equilibrio e scambio fra tutti gli attori, in varie forme (ad esempio quelle oggi rese possibili dalla tecnologia) garantisce che anche i più gravi disagi ed eventuali errori trovino rimedio adeguato.

Naturalmente pare già di vederli, i nostri eroi della faziosità politica favorevoli alle vie di casette come paradigma di civiltà britannica da barzellette: quelli dell’Urban Land Institute sono solo principi campati per aria, e poi derivano da un caso unico come Singapore. Vero, la città isola è piuttosto famosa per la rigida applicazione di alcune regole urbane, in modi che forse troverebbero più di un ostacolo nella nostra civiltà europea. Il che non toglie però valore a linee guida piuttosto indiscutibili nel loro impianto, e anzi rafforzate dall’emergere da casi concreti, la cui singolarità si può agevolmente verificare, ed eventualmente contestualizzare. Soprattutto il metodo, pare lontano mille miglia dagli schematismi passati dell’idea di quartiere.

Mentre i liberisti di Policy Exchange parevano davvero aver sposato una ipotesi schematica contro un’altra ipotesi schematica: la casetta buona contro il palazzone cattivo. E invece il trucco sta nel non abboccare all’amo dell’eccesso di semplificazione, su un tema come la città che qualche volta davvero finisce per esasperare nelle sue complicazioni e impossibilità di lettura lineare. Ma ci tocca per forza accettarla, la complessità metropolitana, visto che dovremo abitarci in mezzo. Sempre che qualche altro semplificatore ad oltranza, come gli esperti di fonti energetiche strampalate e pericolose, estratte con lo sguardo solo al portafoglio, non accorci la vita all’umanità intera. Ma questa è un’altra storia.

Riferimenti (entrambi pdf direttamente scaricabili):
Policy Exchange, Create streets, not just multi-storey estates, 2013
Urban Land Institute, 10 Principles for Livable High-Density Cities, 2013 (per chi non lo sapesse, quello dei Dieci Principi è un classico marchio di metodo dei rapporti dello ULI, applicato da molti anni a vari temi urbani)

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