Immigrazione, centri urbani, economie

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Foto F. Bottini

Gli studi sulla realtà delle imprese di immigrati non hanno bisogno di motivazioni particolari. Il semplice fatto che queste imprese siano aumentate in modo vistoso in molte metropoli del mondo occidentale dovrebbe essere sufficiente a convincere le autorità, i politici, i ricercatori e gli analisti sociali che vale la pena di dedicarsi a questo argomento. Anticipando un’obiezione comune, si deve sottolineare che l’impresa gestita da immigrati non deve essere vista in modo romantico.

Spesso nasconde un lavoro duro e mal pagato, e le barriere all’uso di lavoro regolare che esistono nei paesi di accoglienza non sono sempre neutrali in questo senso. Non sono solo le barriere linguistiche o la mancanza di formazione, a presentare ostacoli per gli immigrati, ma anche il pregiudizio e la xenofobia. Ma anche demonizzare il fenomeno – vederlo come parte di una consolidata alienazione – non aiuta. In paesi come il Regno Unito o gli Stati Uniti, molti gruppi di immigrati sono riusciti con successo ad uscire dalla propria comunità etnica, e ad unirsi alla maggioranza della popolazione. In tal modo le attività sono state in grado di crescere notevolmente di dimensione. Ma ci sono altri motivi per studiare le economie etniche, in quanto caso speciale, che mostrano elementi validi per l’economia in generale.

Gli immigrati non sono, dopotutto, i soli individui vulnerabili nei paesi del mondo ricco, e attraverso l’imprenditore immigrato forse è possibile rintracciare un meccanismo più generale. Queste imprese non differiscono in nessun aspetto fondamentale da quelle ordinarie, si tratta più che altro di differenze di livello. È vero, che si basano su risorse di gruppo per diventare possibili, ma lo fa anche la media degli altri imprenditori, anche se non tanto spesso o tanto chiaramente. Si lavora duro, ma lo fanno tutti gli imprenditori in relazione ai dipendenti. Un’importante forza propulsiva per gli imprenditori immigrati, è la difficoltà di trovare lavori interessanti, o semplicemente di trovarne uno qualunque. Ma anche molti imprenditori non immigrati hanno spinte simili. Può essere il caso di superare un basso livello di istruzione, o di istruzione diversa dai propri interessi, o di affrontare la discriminazione di età prevalente nel mercato del lavoro. Ma superare le barriere non è la sola forza propulsiva. Gli imprenditori immigrati sono anche persone in grado di cogliere l’opportunità, esattamente come gli altri imprenditori. A New York, per esempio, i Coreani si sono appropriati del commercio ortofrutticolo: ma solo lì. In altri luoghi degli Stati Uniti si sono avvicinati ad altri settori. Il motivo è che New York ha una struttura urbana tradizionale – dove i negozi di frutta e verdura trovano spazio – piuttosto inconsueta negli Stati Uniti.

Il concetto di capitale sociale ha di recente interessato i ricercatori di economia, come spiegazione del successo delle imprese. Dato che di regola gli imprenditori immigrati trovano più difficile avere finanziamenti dalle banche di quanto non avvenga per la maggioranza della popolazione, e sono per questo motivo più dipendenti dal capitale sociale, il loro caso particolare è un oggetto di studio molto produttivo. La stessa cosa vale per i raggruppamenti. È stato provato, ad esempio, che l’insediamento di immigrati nella stessa area spesso riesce a sfruttare la situazione come risorsa: allo stesso modo in cui agiscono in genere le imprese quando formano raggruppamenti regionali, come dimostrato da Robert Putnam (Putnam et al., 1993).

Quello che gli studi sugli imprenditori immigrati possono mostrare è come tale processo inizi, e come possa variare a seconda dei prerequisiti del luogo, come gruppi etnici simili si collochino in luoghi differenti nel mondo. L’imprenditore immigrato, in quanto membro di un gruppo etnico, è semplicemente un fenomeno interessante da studiare, perché si tratta di una variante estrema dell’imprenditore comune. Può anche darsi – il che sarebbe certamente piuttosto ironico – che le economie etniche, considerate da economisti e sociologi come appartenenti ad uno stadio precapitalistico, siano di fatto l’avanguardia di una nuova economia, caratterizzata da globalizzazione, flessibilità, diversificazione, riduzione dimensionale organizzativa e di urbanizzazione, che si sta sviluppando nel panorama post-fordista.

Ci sono alcune ricerche che lo confermano. È chiaro che l’impresa di immigrati ha giocato un ruolo importante nel processo di miglioramento di aree degradate in molte grandi città dell’Occidente. La vitalità prodotta dalle strade degli immigrati tende ad attrarre il resto della popolazione. La sociologa urbana Saskia Sassen ha indicato come gli imprenditori immigrati si localizzino nelle metropoli del mondo contribuendo all’economia dei servizi (Sassen, 2002). Non si tratta solo dell’esistenza di immigrati che iniziano un’attività, ma anche del fatto che gli immigrati arrivano, attratti dalla possibilità di iniziare un’impresa. L’area di Los Angeles, da regione dominata dalle grandi attività, si è trasformata in una delle aree degli Stati Uniti con la più alta densità di piccole imprese. In questo caso gli immigrati hanno giocato un ruolo fondamentale. Durante il periodo dal 1970 al 1990 la proporzione degli imprenditori locali è aumentata solo di pochi punti percentuali, mentre quella delle attività degli immigrati si incrementava notevolmente.

Ciò che possiamo vedere in varie località nel mondo è, quindi, non solo che le grandi imprese occidentali stanno localizzando la produzione nei paesi a basso costo salariale, ma anche come gli immigrati dal terzo mondo stanno attivando imprese in Occidente, ripristinando così una produzione che era scomparsa. Sia in Europa che negli Stati Uniti l’industria tessile ha, in questo modo, subito un vero e proprio rinascimento. L’enorme diversificazione di prodotti e servizi nelle nostre grandi aree cosmopolite, può anche essere messa in relazione alla crescita delle economie etniche.

La ricerca sulle economie etniche può far luce anche sugli aspetti non-economici dell’impresa. Ad esempio, non è infrequente che imprenditori immigrati diventino importanti esponenti del proprio gruppo etnico, che agiscano come collegamento entro molte reti di relazione, che attraverso la propria presenza nella società rendano il proprio gruppo etnico visibile, che si assumano importanti responsabilità per il proprio ambiente immediato, o ruoli di “personaggio pubblico”. Questi aspetti sociali dell’impresa, sono purtroppo spesso poco considerati. I motivi sono diversi. Per la gran parte del XX secolo, nei paesi occidentali ha dominato la nozione di “logica industriale”. Secondo questa logica, sempre più aree sociali avrebbero dovuto divenire industrializzate. La produzione su larga scala avrebbe prodotto anche una società basata sulla grande impresa, sulla grande organizzazione, su relazioni sempre più formalizzate fra individui anonimi in un ambiente urbano. Semplicemente, non appariva di interesse studiare le condizioni dell’impresa. Quando negli anni ’70 iniziò a crescere il numero delle piccole attività, fu un vero e proprio shock per il mondo della ricerca, e alcuni studiosi dedicarono gli anni ’80 a mettere in dubbio i dati statistici. Un altro motivo è la specializzazione della ricerca: anch’essa è affetta da una “logica industriale”, che porta all’incapacità di vedere le connessioni con fenomeni che si trovano al di fuori del proprio campo. È sintomatico che gli economisti abbiano mostrato un disinteresse quasi totale nel campo della ricerca sulle economie etniche, che è stato invece dominato da sociologi, antropologi, ed esponenti di altre discipline interessate ai temi della migrazione.

Un problema specifico per il sistema industriale e di welfare svedese è, naturalmente, il nostro atteggiamento formale verso i problemi sociali. Pensiamo ai sistemi generali, e tendiamo a mettere in secondo piano la vita al di fuori di questi sistemi.

Esiste in Svezia, ciò che è più importante, una tendenza a mettere la testa sotto la sabbia, quando una ricerca critica, direttamente o indirettamente, il sistema di welfare esistente. Le modifiche introdotte lo scorso anno nel Comitato di indagine sulla discriminazione, trasformato in un programma di ricerca autonomo, hanno probabilmente a che fare col fatto che le conclusioni del Comitato erano state politicamente imbarazzanti: si affermava, in modo diretto, che le politiche seguite erano sbagliate. È stata invece istituita una nuova commissione denominata “Comitato Governativo di Indagine sui Poteri, l’Integrazione, la Discriminazione strutturale”.

La cosa interessante è che, se il Comitato precedente tentava di analizzare la struttura sociale e le politiche seguite per affrontare il problema della disoccupazione fra immigrati, quello attuale tenta di spiegare la questione attraverso il concetto empiricamente nebuloso di razzismo. Ovvero: non ci sono errori nel modello politico svedese; è il razzismo nascosto in parte del popolo svedese. Ma se studiamo il rapporto OECD Tendenze delle Migrazioni Internazionali, troviamo ad esempio che entro il gruppo di paesi OECD, Belgio, Svezia, Danimarca e Finlandia hanno le quantità più elevate di immigrati disoccupati, mentre paesi come Stati Uniti, Canada e Australia non mostrano differenze di nessun tipo riguardo alla disoccupazione. Se seguiamo la linea della nuova Commissione di inchiesta, allora il razzismo è molto più diffuso qui in Scandinavia, con l’eccezione della Norvegia, che sembra accogliere gli immigrati.

Siamo in un vicolo cieco, teorico e politico. In primo luogo, i modelli di interpretazione appaiono improbabili: non ci sono molti argomenti per sostenere l’idea che il razzismo in Svezia sia maggiore che altrove in Europa.

Secondo, potrebbe essere che il problema di adattamento degli immigrati alla società svedese faccia luce sulle debolezze del modello svedese. I problemi che si trovano di fronte gli immigrati sono molto simili a quelli della maggioranza dei disoccupati. La Svezia, naturalmente, è la terra promessa del fordismo. È vero che, come in alte parti del mondo, abbiamo iniziato a chiudere le produzioni industriali, ma le nostre attività, organizzazione, stato sociale, sono ancora sulla grande scala, e le istituzioni la sostengono. Nonostante sia avvenuta una rapida crescita delle imprese di immigrati in Svezia negli anni recenti, non siamo in una situazione particolarmente buona paragonati ad altre nazioni occidentali. L’economia etnica svedese non rappresenta una quota importante del prodotto nazionale lordo, come ad esempio in Gran Bretagna, dove la popolazione dall’Asia meridionale da sola fattura annualmente 65 miliardi di corone svedesi. Allo stesso tempo, va detto che la Svezia in generale ha una bassa proporzione di imprese rispetto alle nazioni vicine, in un’epoca in cui il numero degli imprenditori aumenta quasi ovunque (Årsbok, 2005).

È anche peggio se guardiamo alla disoccupazione fra gli immigrati svedesi. Qui, come già detto, paragonati agli altri paesi OECD, tocchiamo il livello minimo. Se la disoccupazione è un’importante forza propulsiva per le imprese di immigrati, perché la nostra economia etnica non è proporzionale alla disoccupazione? Mancano le occasioni? Possiamo fare il paragone con gli Stati Uniti, dove nel mercato del lavoro non esiste discriminazione di qualunque tipo riguardo agli immigrati. Essi non sono, in media, disoccupati con più frequenza di quanto non accada alla popolazione residente. D’altra parte, essi non sono neppure sovra-rappresentati come imprenditori, il che non avviene in Svezia.

Può essere che esista una connessione fra l’impresa immigrata e le possibilità per gli altri immigrati di trovare un lavoro?

Un legame ovvio consiste, naturalmente, nel fatto che gli imprenditori immigrati tendono a impiegare persone del proprio gruppo etnico: ma, il che è interessante, non solo da questo gruppo. L’esperienza americana mostra che gli imprenditori immigrati diventano commercialmente più forti nella fase di sviluppo, e ancora di più quando impiegano personale al di fuori del proprio gruppo etnico. L’ambiente di lavoro multiculturale che ne risulta, molto probabilmente contribuisce a migliorare la comprensione fra persone con retroterra differenti. Non è difficile vedere che gli imprenditori immigrati di successo costituiscono parte importante del processo di integrazione.

Ci sono anche altri fenomeni, a unire chi cerca lavoro e chi svolge attività in proprio. Come già notato, questi ultimi soggetti spesso diventano autonominati portavoce per il proprio gruppo etnico, e in tal modo contribuiscono alla solidarietà di gruppo, al senso di un destino condiviso che spesso caratterizza le comunità etniche nei paesi stranieri. Attraverso i propri contatti con clienti, fornitori e autorità, gli immigrati imprenditori formano anche un importante collegamento fra il proprio gruppo e il resto della popolazione. Cosa più importante, essi contribuiscono a mantenere contatti con il paese d’origine e con connazionali in altri paesi.

Concretamente, è l’ultimo tipo di contatto a rappresentare spesso il prerequisito più importante per l’insediamento di un’attività. Molti imprenditori immigrati iniziano importando beni di cui esiste domanda all’interno del proprio gruppo, ma che non si trovano nel paese ospite. Questi beni diventano, prima o poi, ricercati anche dal resto della popolazione, e ne risulta un mercato più cosmopolita e una maggiore vitalità urbana. La presenza di imprenditori etnici negli spazi pubblici della città contribuisce anche ad aumentare la visibilità delle minoranze, il che può portare alla diminuzione delle differenze culturali.

C’è anche un altro angolo ‘cieco’ nelle analisi sociali correnti, che può essere spiegato dalle economie etniche, ed è il significato della città.

Economisti e sociologi, in particolare, tendono a vedere la città come quantità nota, risultato dello sviluppo tecnologico ed economico. Ciò, semplicemente, non è vero, il che è dimostrato da un esame rapido della storia dell’urbanistica. L’urbanistica moderna, così come è stata praticata in occidente dopo l’ultima guerra, separando e specializzando attività e collegandole con percorsi specializzati, è il risultato di un’ideologia dominante precedente. Nel pieno dell’epoca dell’ingegneria sociale, architetti, urbanisti, sociologi e politici, vedevano nell’industrialismo la formula generale del progresso, e le città venivano ricostruite con la grande impresa come modello organizzativo.

Abbiamo smesso di edificare secondo la rete di strade e piazze della città storica, e invece realizzato ovunque suburbi. Le zone residenziali, i centri commerciali, le company towns e le zone industriali erano progettate come énclaves isolate attorno alle città storiche. Quando questo nuovo sistema di costruire città fu impiegato su larga scala, incontrò aspre critiche, non ultima quella della sinistra. Il marxista Henri LeFebvre (1968) riassume il dibattito con queste eleganti parole:

«La città era un prerequisito dell’industria. Senza queste densità e opportunità, il primo capitalismo non sarebbe mai stato in grado di realizzare i suoi piani grandiosi. Ma ora che tutta la società è stata industrializzata e urbanizzata, la città reale è stata annichilita. Segregazione, separazione e semplificazione funzionale hanno impoverito la vita urbana, che era un tempo caratterizzata da varietà, mobilità, incontri, feste e giochi. I luoghi di incontro sono diventati parcheggi. Ora la lotta è per il diritto alla città».

In origine, non è il mercato a richiedere la subordinazione della città, ma il mercato si adatta rapidamente ai prerequisiti ideologici, e anche ora stiamo continuando a costruire in questo modo, nonostante chi costruisce abbia perso i contatti con l’ideologia originaria. Quello che economisti, sociologi e molti altri dimenticano, è che la forma della città influenza in quanto tale la vita economica. Influenza, per esempio, la formazione del capitale sociale, le agglomerazioni e i distretti, che spesso hanno un ruolo decisivo nella possibilità di stabilire un’impresa. Semplificando un po’, si potrebbe dire che le attività su larga scala sono favorite dall’urbanistica moderna, mentre quelle più piccole sono svantaggiate. È nella strada commerciale classica, la Hornsgatan di Stoccolma per esempio, che fioriscono al meglio i piccoli negozi, non solo perché c’è un gran numero di pedoni, ma anche perché il tessuto urbano consente una complessità socioeconomica che rende più facile iniziare e gestire un’attività. Si offre anche flessibilità al processo di creazione dell’impresa. Chi non può permettersi una localizzazione sulla Hornsgatan lo può fare su una strada laterale. In un centro commerciale, occasioni de genere non si presentano.

E la dimensione spaziale non è rilevante solo per i piccoli negozi.Sono la maggior parte delle piccole attività ad aver bisogno delle funzioni della città classica, come ha compreso LeFebvre. D’altra parte le grandi attività, all’apice dell’industrialismo, erano in gran parte autosufficienti, nel senso che non dipendevano dalle risorse della città nello stesso modo delle piccole imprese. Oggi, con le grandi unità che spezzettano il proprio ciclo produttivo su unità più piccole o ricorrono a imprese esterne, la situazione è diversa.

La Svezia è una nazione estremista per quanto riguarda la pianificazione urbanistica. In quanto grande nazione industriale, è stata particolarmente radicale nell’attuare un’urbanistica modernista. Nella maggior parte dei piccoli centri i nuclei storici sono stati demoliti per fare spazio ai grandi supermercati e ai grandi parcheggi. In questo modo, abbiamo creato punti di concentrazione nelle zone centrali delle cittadine minori, dove prima esistevano vivaci strade commerciali. In più, abbiamo introdotto le zone pedonalizzate nelle aree centrali, preparando la strada alla localizzazione delle attività ai margini urbani. Il commercio sta diventando sempre più auto-dipendente e di grandi dimensioni. È possibile che la pianificazione urbanistica sia, semplicemente, un ostacolo alle attività di piccola dimensione? Nel campo commerciale e delle attività connesse, indubbiamente sì. Ci sono anche alcuni risvolti interessanti. Il geografo economico americano Richard Florida, nella sua ricerca sul “ceto creativo” (vale a dire i gruppi professionali che generano i principali valori aggiunti in economia), ha indicato quanto le attività economiche siano diventate dipendenti dalle località dove tali individui capaci desiderano vivere. Tale aumento di interesse per il luogo e i suoi caratteri, è chiaramente riflesso in una dichiarazione dell’ex CEO della Hewlett-Packard, Carly Fiorina, alcuni anni fa a un incontro coi governatori degli stati USA: “Potete anche tenervi i vostri sussidi fiscali e le nuove autostrade; noi andremo dove si possono trovare persone competenti”.

Florida, che compie studi dettagliati sulle preferenze del ceto creativo, riconosce che non tutti necessariamente desiderano vivere nelle grandi città, ma, se lo fanno, esse devono essere vivaci, autentiche, cosmopolite.

La presenza di attività locali, e fra le altre di quelle gestite da immigrati, è una delle caratteristiche di questo tipo di ambiente. Il fatto che l’organizzazione urbana delle piccole cittadine svedesi favorisca in modo tanto unilaterale commercio e centri commerciali esterni potrebbe dunque, nel lungo periodo, dimostrarsi un grosso problema.

Se studiamo come si insediano gli immigrati in Svezia, vediamo che raramente riescono a conquistare le zone interne della città, ma in gran parte vivono nelle cosiddette “zone programma milione” (aree edificate nell’ambito di un programma per realizzare un milione di alloggi, dal 1965 al 1974), dove scarseggiano strutture e strade adatte. Un’eccezione è Möllevången a Malmö, e qui le attività gestite da immigrati proliferano. Gli immigrati sono anche diventati visibili, e interagiscono col resto della popolazione. Nel suburbio, sono strade e centri commerciali che contano. Può essere, questa, una delle spiegazioni del fatto che gli immigrati in Svezia non attivano più imprese come risposta alla notevole disoccupazione? Un paragone con la Gran Bretagna, che ha un’economia etnica molto forte, può far luce su questo aspetto, dato che la maggioranza degli immigrati del Regno Unito vive nei distretti storici delle principali città.

Anche da un punto di vista internazionale, esistono pochi studi che in modo sistematico rapportino la struttura insediativa col risultato in termini di imprese di immigrati, ma l’importanza del luogo della città in cui gli immigrati fondano l’impresa emerge chiaramente dalle ricerche. “Ci sono significative differenze fra le varie città per quanto riguarda le attività gestite da immigrati, in parte per le differenze nella struttura urbana e industriale”, scrivono Pyong Gap Min e Mehdi Bozorgmehr (Pyong e Mehdi, 2003) . Ans Rekers e Ronald van Kempen sono più espliciti:

«La struttura spaziale di una città è importante per la funzione dei contenitori di attività. In molti paesi dell’Europa occidentale ci sono enormi differenze fra i quartieri delle città costruiti prima della seconda guerra mondiale, o dopo. Nei quartieri della vecchia città, negozi e altri esercizi crescono più meno spontaneamente attorno ai mercati quotidiani e lungo certe strade. Queste strutture ora hanno trovato nuovi utenti fra gli imprenditori etnici. I quartieri della città moderna d’altra parte sono spesso pianificati con cura, in molti casi in modo molto rigido. Talvolta ci sono leggi sul poter o non poter stabilire un’attività … Almeno formalmente, è molto più difficile iniziare un’attività in queste zone» (Rekers e Van Kempen, 2000).

Può essere necessario qualche chiarimento. Non si tratta della distinzione fra città interna ed esterna, ma di diversi tipi di forma insediativa. Per motivi storici, noi associamo comunemente alcuni tipi di tessuto con la città interna, e altri col suburbio, ma le cose possono variare. In alcune zone interne delle città statunitensi la morfologia urbana locale si è dissolta, producendo quartieri atrofizzati. Qui, vivere nella inner-city è un elemento di svantaggio.

Ci sono anche casi, come il Belgio, dove gli immigrati sono riusciti a stabilirsi nei distretti della città storica, senza che l’economia etnica abbia raggiunto livelli interessanti. Il Belgio, esattamente come la Svezia, appartiene al gruppo dei “ cattivi ragazzi” per quanto riguarda la disoccupazione fra immigrati, e quindi la pressione ad intraprendere una propria attività dovrebbe essere considerevole, ma il Belgio possiede in generale un debole settore di piccole attività. La situazione nelle città interne del Belgio è anche particolare riguardo allo spostamento dei ceti medi verso il suburbio, in quanto l’ideologia dei Cristiano Democratici ha tentato per un lungo periodo di limitare l’urbanizzazione, poiché si temeva che le masse di lavoratori nelle città si autorganizzassero.

È per motivi come questi che il ruolo dell’insediamento nell’economia è sempre stato tanto difficile da valutare, ma un modo per cogliere davvero il fenomeno è quello di indagare sui processi in corso in una medesima città.

A Stoccolma la struttura urbana tradizionale è compresa nei margini della città vecchia, mentre abbiamo al di fuori la città moderna e dispersa. Quindi c’è un nucleo storico molto piccolo con un tessuto stradale classico, ed edifici che hanno stretta relazione con la strada. Al di fuori del vecchio centro, ci sono molte énclaves, unità di vicinato, che di norma mancano di strade urbane. Soprattutto, appartengono alle “zone programma milione”, dove gli edifici residenziali sono posati liberamente sul terreno, e c’è carenza di strutture. Qui troviamo percorsi, piste ciclabili, strade, parcheggi, e centri commerciali locali.

Il fatto che la città antica abbia una struttura particolarmente favorevole alle piccole attività diventa evidente se studiamo la distribuzione delle imprese da uno a quattro dipendenti a livello strada a Stoccolma. Per cominciare, a parità di popolazione, ci sono quattro volte tanti piccoli esercizi nella città antica. Si possono vedere anche agglomerazioni lungo le strade commerciali importanti e attorno alle piazze della città vecchia, mentre vediamo lupi solitari sparpagliati in quella esterna. La città vecchia subisce però un processo di gentrification via via che diventa più costoso e difficile viverci e lavorare. Il potenziale di vitalità che esiste nella struttura di popolazione del suburbio non si sviluppa, perché il tipo di struttura spaziale pone degli ostacoli. Ma anche i quartieri della città e il suburbio variano in struttura, sia interna che di relazioni col mondo esterno. Rinkeby, con la sua alta quota di immigrati, è uno dei suburbi dotati di una struttura più ‘urbana’. L’insediamento è denso, ha un rudimentale tessuto stradale, e strutture adatte sia sulla piazza sia in altri luoghi. Non sorprende che qui ci sia un gran numero di negozi e altre attività di immigrati.

Una situazione comune riguardo alle economie etniche è che gli immigrati che abitano vicini utilizzino risorse in gruppo per iniziare l’attività, e la vicinanza dei clienti per vender loro merci e servizi. È un processo presumibilmente più facile se l’area possiede un tessuto articolato di ambienti pubblici, dove esistono strutture adatte e si può manifestare una vita di strada. Possiamo fare un paragone con Rosengård a Malmö, che ha un’alta quota di immigrati, ma un insediamento molto più diffuso di quello di Rinkeby. Qui non c’è niente di paragonabile alla stessa vitalità.

Quando è stata colmata la nicchia di mercato costituita dai clienti appartenenti al proprio gruppo etnico, lo stadio successivo è di conquistare nuovi mercati, nella forma di altri immigrati o della popolazione residente. La cosa è più facile, naturalmente, se questo mercato più ampio sta nelle immediate vicinanze. Ma Rinkeby oggi è una énclave isolata. Le comunicazioni con gli immediati dintorni sono scarse, e notevole la distanza dall’ambita città vecchia. Se gli abitanti di Rinkeby vivessero in quartieri urbani con un sistema stradale continuo, avrebbero oggi un ambiente gradevole, che presumibilmente attirerebbe visitatori da altre zone. La segregazione in sé non è necessariamente un problema, può anche essere una risorsa per costruire la solidarietà di gruppo. Il problema per gli immigrati a Stoccolma riguardo al tipo di edificato, è piuttosto la somma di segregazione e isolamento spaziale.

Nel caso di Rosengård c’è un altro elemento di preoccupazione. La struttura interna è diffusa, ma il centro commerciale sta lungo una delle arterie centrali di Malmö. Così si è insediata una delle principali catene svedesi di supermercati alimentari che offre più o meno 25 posti di lavoro a basso salario, ma contemporaneamente getta un’ombra funzionale su tutta la zona. Non è facile fargli concorrenza. Rosengård mostra gli effetti della pianificazione modernista: una generale desolazione, interrotta qui e là da grandi concentrazioni. Questo sistema differisce radicalmente dalla distribuzione continua e molto più variegata di attività della città classica.

Quello che speriamo di spiegare, restringendo queste riflessioni sul rapporto fra economie etniche e organizzazione dell’insediamento, sono i prerequisiti interconnessi di carattere socioeconomico che facilitano la nascita di attività e la creazione di agglomerazioni spontanee. Il rapporto fra zone urbane e risultati economici esiste, ma è una questione di legami complessi. Parlando in generale, si può però su base empirica affermare che la città tradizionale offre maggiori prerequisiti per le piccole attività di quanto non faccia il suburbio, con la sua separazione di funzioni.

L’aspetto forse più interessante delle piccole attività è che ovunque esse si rinnovano con grande rapidità. Le idee vengono sperimentate, raffinate e scartate. Un gran numero di accademici ha sottolineato la maggiore capacità delle piccole imprese di creare innovazioni radicali, rispetto alle grandi attività (Learner, 1999). In Svezia si afferma spesso in termini negativi come solo una piccola percentuale delle piccole attività abbia successo. È un punto di vista su cui richiama l’attenzione lo studioso specializzato in piccole imprese Peter Drucker: “ Aver solo attività hi-tech , non integrate entro una più ampia economia di impresa no-tech , low-tech e middle-tech è come avere la cima di una montagna senza la montagna” (Drucker, 1985). Le piccole attività dunque formano il terreno di coltura su cui prospera lo sviluppo economico. Come si sviluppa e si mantiene, attraverso le reti e culture della conoscenza? La Hornsgatan è da lungo tempo una strada di piccoli negozi. Come si riproducono?

Ci si può chiedere ad esempio cosa abbia significato la distruzione del quartiere attorno a Klara a Stoccolma per la capacità dell’area di produrre nuove attività. Il danno maggiore è stato forse non la chiusura di “Johansson’s Gentlemen’s Outfitters” – avrebbe chiuso comunque, prima o poi – ma che sia stata distrutta la struttura socioeconomica legata alle piccole attività.

Ora ci troviamo in un’economia dai rapidi mutamenti, dove creatività e flessibilità delle piccole imprese sono significative. Gli imprenditori immigrati nelle grandi metropoli dell’occidente si sono dimostrati importanti in questo processo, non solo per quanto riguarda il commercio, ma anche la produzione. Come molti altri piccoli imprenditori, essi dipendono dall’accesso all’ambiente urbano. Quando i modelli organizzativi dell’industrialismo perdono la propria influenza, la città reclama il proprio ruolo come motore dell’economia. Ma il rinascimento della vita urbana porta a un incremento dei prezzi immobiliari. Ora abbiamo scarsità di ambiente urbano a prezzi accessibili e, contemporaneamente, abbiamo moti immigrati in tutta Europa costretti entro suburbi isolati di grandi dimensioni. Non è economicamente possibile demolire tutto quanto, ed è anche difficile cambiare qualcosa, entro le strutture esistenti.

Queste circostanze rappresentano ora uno dei maggiori problemi in Europa. In Svezia molte di queste aree sono di proprietà pubblica, di grandi organizzazioni burocratiche che non vogliono vendere ai residenti, e che preferiscono non trasformare le strutture esistenti.

(testo pubblicato da Metronomie n. 30, 2005 – scelto e tradotto da Fabrizio Bottini)

Riferimenti bibliografici
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