Una città giardino deve contenersi entro una determinata dimensione. Si tratta di uno dei suoi principi base. Questo capitolo come indica il titolo tratta le dimensioni in quanto sufficienti ad assicurare il godimento di relazioni sociali e vita culturale ai cittadini, ma senza crescere esageratamente per rispondere questa necessità. Perché pare implicito, che alcuni svantaggi di una vita urbana, se paragonata a quella di campagna, vengano abbondantemente controbilanciati dai vantaggi di una maggiore organizzazione economica, delle relazioni sociali, delle amicizie che si intrecciano in città; ma al tempo stesso che appena si raggiungono le dimensioni che consentono questo tipo di vita sociale, qualunque ulteriore crescita non farebbe altro che aggiungere disagi, senza alcun vantaggio in migliori occasioni di vita appagante.
Di conseguenza, pare certamente meglio pensare a moltiplicare le cittadine, anziché consentire che si cresca oltre un certo limite. Così si riassume la politica della città giardino, e questo solleva due questioni, vale a dire: quale è la dimensione auspicabile? e sino a che punto si tratta di un limite davvero applicabile? Va detto che non esistono dimensioni esatte auspicabili sempre e comunque in ogni circostanza. Nel valutare quanto debba essere grande una cittadina, dal punto di vista del suo miglior funzionamento come entità sociale e culturale, non è né possibile, né giusto, ignorare gli aspetti economici e i loro effetti assai concreti sia sulle dimensioni che sulle classi sociali della popolazione, aspetto assai importante da valutare. Esistono ad esempio questioni industriali, per cui è dimostrato che è economicamente vantaggioso svilupparsi su dimensioni tanto ampie da dar lavoro a grandi masse, corrispondenti alla popolazione occupata di una città da 80.000-100.000 abitanti. Ma non è certo auspicabile, che una città si debba concepire pensando a una popolazione interessata e dipendente da una prospettiva industriale.
È economicamente rischioso, e dal punto di vista sociale tende a restringere a ben poco le possibilità dei suoi cittadini. Uno svantaggio particolarmente evidente in certi grossi centri carboniferi, dove esiste pochissima varietà occupazionale, nell’unico settore, dove è difficile sviluppare attività sociali, cultura, non si esce dalla logica del solo lavoro in miniera e dei suoi problemi. Se stabiliamo un vantaggio economico industriale su dimensioni che interessano dai 10.000 ai 20.000 posti di lavoro, dobbiamo dedurne che il limite di popolazione che ha senso per un centro con varie attività è troppo basso per garantire la vita sociale e culturale che vogliamo. Ma si tratta di una difficoltà di dimensioni senza dubbio superabile in molti casi organizzando gruppi di centri di dimensioni minori, così che messi insieme e vicini riescano a funzionare come un grande complesso industriale, con qualche altro settore oltre a quello principale in ciascun centro minore, e senza concentrare tutto in una enorme città.
Ci sono tante possibili situazioni locali a influenzare la dimensione ottima per una cittadina, dal punto di vista economico. Di solito esiste una quantità di popolazione per cui si possono fornire servizi come quelli idrici o di trasporto al costo minimo pro capite; un costo che inizia a crescere se si supera quella soglia. Ad esempio, lo scavo di pozzi a ciascuna casa può rivelarsi molto costoso, e diventa assai più accessibile pro capite servire adeguatamente una popolazione di 50.000-100.000 persone; ma con quantità del genere si può anche esaurire la risorsa disponibile in zona, e dover poi con un incremento di popolazione andare a cercare acqua molto più costosa. Si rileva che in città come New York l’incremento con una popolazione crescente sia stato di quattro o cinque volte pro capite rispetto all’inizio. C’è anche di più, perché i bisogni a volte crescono di più rispetto alla crescita di popolazione. Vale ad esempio per i trasporti passeggeri; la quantità totale di spostamenti, la media di viaggi pro capite, sembra crescere nelle grandi città più rapidamente della superficie occupata dallo sviluppo urbano.
Inoltre, il costo pro capite degli investimenti in mobilità cresce, indubbiamente col crescere del territorio occupato dalla città, e abbiamo un considerevole incremento totale dei costi di spostamento, ben oltre la soglia di quanto sia economico. John Lothrop ha calcolato recentemente che a New York un incremento di popolazione del 30% corrisponde a una crescita del 400% dei costi di predisposizione di infrastrutture varie di traffico. Poi esistono altre trasformazioni – le linee telefoniche paiono le più evidenti – dove l’aumento di popolazione necessariamente complica il sistema facendo crescere i costi pro capite con la popolazione, anche se va detto che ciò aumenta anche enormemente i vantaggi del singolo abbonato. Gran parte degli utenti le potenzialità non le usa: un abbonato di Londra non chiama più amici e conoscenti di quanto non faccia l’abitante di un centro di 50.000 abitanti, ma come dice il capo dell’American Telephone and Telegraph:
«Forniamo a ciascun utente telefonico di New York City centinaia di migliaia di contatti, mentre in una cittadina sarebbero soltanto poche migliaia. Ed è questo il motivo per cui qui chiediamo di più per ciascun abbonamento rispetto a centri di dimensioni più modeste»
Questi costi crescenti tendono a fare di una grande città una unità economica poco efficiente dal punto di vista della massa di popolazione. Al tempo stesso va riconosciuto che al crescere degli abitanti aumentano enormemente le possibilità professionali e commerciali, ed è questo senza dubbio il motivo per cui, nonostante le difficoltà economiche, le grandi città continuano a crescere. Appare comunque chiaro che i vantaggi economici di qualcuno interessano la popolazione in generale; così come in qualche misura la popolazione in generale paga i costi di una crescita della città oltre una determinata dimensione favorevole all’economia, mentre restano avvantaggiati alcuni ristretti gruppi. Si potrebbero estendere le occasioni a tutta la popolazione, la cui vita peggiora mentre una minoranza approfitta di alcuni vantaggi. In questi casi la vita nella città troppo cresciuta diventa un gioco d’azzardo, in cui si sacrifica il benessere della maggioranza dei cittadini aumentando le occasioni di pochi privilegiati, di quelli che per così dire fanno saltare il banco.
Pare molto importante riconoscere chiaramente la differenza tra vantaggi economici condivisi da tuta la popolazione, perché si vive e si lavora insieme, e le occasioni di arricchimento di pochi individui derivanti da una indefinita crescita di popolazione entro il loro raggio di interesse. Nel primo caso si tratta di una forza stabile che spinge per il benessere generale e genera quel bacino economico su cui possono prosperare vita e cultura. Nel secondo caso non esiste alcun valore economico generale, e ci si limita a introdurre un elemento di incertezza e di distribuzione diseguale dei vantaggi. Il tema della relativa efficienza economica di centri urbani di varie dimensioni non è stato trattato a sufficienza da consentire di fissare dimensioni definitive medie, in grado di garantire a ciascun cittadino servizi e comodità al costo pro capite inferiore. È auspicabile quindi che l’argomento venga approfondito, così che si possa comprendere quanto possa costare a ciascuno consentire che la propria città cresca in modo indefinito.
L’efficienza economica rappresenta un fattore importante, perché sta alla base della vita sociale, ma non va considerata da sola. Esistono vantaggi nella vita di città, e anche svantaggi – dal punto di vista sociale, dell’istruzione, sanitario – per i quali val bene anche qualche sacrificio sul versante economico. Quindi è meglio considerare la questione dimensioni indipendentemente dal punto di vista della vita sociale e della cultura. Come abbiamo già visto, non esiste un limite stabilito per le migliori occasioni in questi ambiti, dato che esso varia con la varietà dei posti di lavoro disponibili, e di altri fattori legati al tipo e livello di istruzione della popolazione. Né esiste un criterio esatto per la massa ideale economica, quella che fornisce le migliori occasioni a tutta la popolazione al costo inferiore in tempo e lavoro. Se esaminiamo meglio il problema dai due lati scopriremo che invece di un limite, si può definire un certo raggio di dimensioni possibili.
Ci si potrebbe aspettare che, sia socialmente che economicamente, un incremento di popolazione migliori evidentemente l’efficienza e le occasioni sino a un certo limite, poniamo di 50.000 abitanti; che poi a seconda delle circostanze specifiche si migliori ancora nell’uno o in entrambi gli ambiti sino a 75.000 abitanti; che oltre ci sia un lieve calo di efficienza, ancora influenzato da varie circostanze, sino a diventare piuttosto marcato a 150.000 abitanti; quindi la dimensione più conveniente si possa collocare in qualche punto fra una popolazione di 50.000 e di 100.000 persone. Potrebbe facilmente accadere, che il pieno delle occasioni culturali si raggiunga verso i 50.000 abitanti, mentre per l’efficienza economica si debbano raggiungere i 100.000;così si dovrebbe riconoscere che questa efficienza economica è una base tanto essenziale per le occasioni sociali e culturali, che senza eccedere certi limiti, oltre i quali queste occasioni diventerebbero poco praticabili, o praticamente impossibili, da non cercare di contenerla sotto la soglia ottimale. D’altro canto, se si rilevasse che secondo criteri economici si dovrebbe restare al di sotto di quanto consente un pieno dispiegamento delle occasioni culturali, forse qui varrebbe la pena per i cittadini far qualche sacrificio, per avere più possibilità.
Dai centri di 50.000 abitanti alle città la cui popolazione si calcola in milioni, ci sono tante possibilità di dimensione che risulta molto difficile individuare qualche soglia; ma quel grande studioso delle cose umane e della vita che è Lord Bryce, uno che mai potrebbe sottovalutare le occasioni di cultura, indica come dimensione auspicabile per una città i 50.000-70.000 abitanti, mentre dubita che possano derivare vantaggi culturali di alcun tipo oltre una popolazione di 100.000, in grado di compensare i relativi sacrifici. E val la pena di esaminare alcune condizioni di vita relative alla dimensione più piccola menzionata. Cominciamo con l’istruzione: in un centro di 50.000 abitanti ce ne saranno approssimativamente 10.000 di età in cui si va a scuola.
Ciò comporta la presenza di 300-400 insegnanti almeno. Non ci sono certo le condizioni per un tipo di istruzione di livello universitario, ma appare chiaro come ci sia una quantità sufficiente di intellettuali e professori per consentire organizzazione efficiente e notevole varietà. Nel nostro paese le circoscrizioni con una popolazione di 10.000 abitanti e i settori urbani con 20.000 residenti sono riconosciuti Ente per l’Istruzione del livello elementare e medio; non c’è dubbio che una cittadina con varia popolazione di 50.000-75.000 abitanti, per fare qualche esempio come Chester, Exeter, Lincoln, York, Dudley, o Burton-on-Trent, possa offrire strutture educative che al livello elementare e medio certamente corrispondono a quanto si trova anche nelle grandi città; centri così possono anche offrire scuole superiori specializzate sia nell’ambito tecnico che artistico. Mentre per quanto riguarda l’istruzione superiore universitaria, o quella di formazione tecnica avanzata e specializzata, le più grandi concentrazioni di popolazione hanno un certo vantaggio, che però si può colmare associandosi fra gruppi di centri minori. E se guardiamo meglio, molti degli istituti di istruzione più avanzati poi non si trovano nelle grandi città, ma però attirano studenti e risorse da molte cittadine, o addirittura dall’intera nazione.
Guardando la cosa da un altro punto di vista, vediamo che anche in una cittadina con solo 50.000 abitanti la maggioranza degli studenti frequenta una scuola nella zona in cui abita, e solo negli ultimi anni un istituto che fa riferimento all’intera città. Con il crescere delle dimensioni, aumenta anche il decentramento degli istituti scolastici, e ancor più degli enti culturali e di varie attività sociali, così che solo una piccolissima parte della popolazione, in un centro molto grande, davvero approfitta dei vantaggi dovuti alla dimensione. Contenere la città certamente può significare imporre dei limiti all’offerta: per esempio ci sono gli assai costosi allestimenti e produzioni teatrali, liriche o di altri spettacoli, che è possibile sostenere solo se si hanno grossi numeri di spettatori e per un lungo periodo, cosa non possibile in centri di 50.000 o anche 100.000 abitanti. Ma pare chiaro comunque che ciò non comporta un vero limite in fatto di cultura. Sono in molti a credere invece che le condizioni imposte da alcuni spettacoli si siano addirittura rivelate peggiorative del livello dell’offerta teatrale, e negli anni recenti c’è stato un impegno a formare compagnie e teatri minori locali. In alcune città canadesi i teatri si allontanano dal centro verso la periferia, e anche nel nostro paese c’è l’esempio dello Everyman Theatre a Hampstead, considerato di alto valore culturale.
La crescita musicale come noto è del tutto indipendente da grandi concentrazioni di popolazione. Molte cittadine anche piuttosto piccole sono diventate famose per la propria scena musicale, manifestazioni periodiche, scuole di settore, orchestre in grado di raggiungere altissimi livelli di esecuzione. Quel magnifico edificio che si chiama Mozarteum a Salisburgo, con annessa una straordinaria scuola e a cui fa riferimento una grande orchestra, si può citare come esempio; così come sono altri esempi di rassegne musicali Hereford, o di studi e rappresentazioni Glastonbury. Musica, spettacoli, danze popolari e tante altre forme di intrattenimento, si caratterizzano per l’offrire tante occasioni al pubblico, di partecipare in vario modo anche alla preparazione, e nascono spontaneamente sia nei piccoli centri che in quartieri delle grandi città, là dove esiste una particolare rete di scambi tra una popolazione composita e in grado di esprimere questo genere di cose. Forme di intrattenimento spontaneo dotate di valore culturale e formativo, che molto probabilmente compensano in abbondanza qualunque differenza con la grande città e i suoi spettacoli di alto profilo.
Potremmo considerare poi qualsiasi aspetto della vita sociale in modi simili, ma forse basta quanto detto sin qui a indicare quanto sia sopravvalutato il genere di occasioni offerte dalla grandissima città in termini di valorizzazione del talento, mentre non si tiene affatto contro dell’opposto, ovvero che la stessa grande città le occasioni tende a limitarle ad alcune persone particolarmente fortunate, mentre i piccoli centri garantiscono accesso a un grande numero di persone, che possono sviluppare le proprie capacità. Nei campi della vita sociale e culturale, parrebbe che un sistema di centri con popolazioni fra i 50.000 e i 100.000 abitanti, uniti l’un l’altro da un buon sistema di comunicazioni, e individuandone uno che funga da capoluogo per attività piuttosto specializzate focalizzando il bacino di popolazione, possa fornire tutti i vantaggi sinora appannaggio della grande città. Contemporaneamente, il limitare le dimensioni di ciascuno dei centri, organizzandoli al proprio interno in modo tale da consentire a ogni cittadino di raggiungere a piedi gli spazi aperti della campagna circostante, aggiunge alle occasioni quella di una contemplazione della tranquillità, che manca alla stragrande maggioranza di chi abita i grandi centri, e deve convivere in mezzo a trambusto, rumori e confusione costanti gran parte della propria esistenza.
Certo non è facile valutare esattamente quale possa essere l’influsso benefico di un contatto costate con l’aperta campagna, ma certamente è positivo. C’è piacere e curiosità del miglior tipo, nell’osservazione delle piante che crescono, dell’allevamento di animali, del succedersi delle stagioni, ogni cosa dotata di una propria bellezza; e non ci sono dubbi che i vantaggi certi della vita cittadina si debbano ricercare sacrificando al minimo questo contatto intimo con la natura. C’è un aspetto da non trascurare, riguardo alle dimensioni di un centro: più elevato il livello di istruzione e intelligenza, più piccola potrà essere la cittadina per garantire le migliori occasioni sociali e culturali. Se gli abitanti hanno nel loro insieme una istruzione e cultura sufficiente ad apprezzare la musica, il teatro, le arti e tutti gli altri aspetti dell’esistenza, basteranno quantità di popolazione inferiori ad esprimere quelle personalità di alto profilo in grado di diventare poi leader e maestri nelle varie arti e studi, e la stessa poca popolazione sarà in grado di sostenere le necessarie strutture e istituzioni per le attività.
Riguardo al secondo punto, della possibilità di contenere la crescita urbana, diciamo che non c’è nulla di nuovo. Tutte le città europee nel medio evo e sino ad epoche relativamente recenti si limitavano con le proprie fortificazioni, e spesso esisteva all’esterno una fascia di considerevoli dimensioni entro cui era vietata qualunque costruzione. Era il desiderio di sicurezza, a indurre con forza questo limite. Anche nel caso di città moderne sono abbastanza comuni esempi di limitazioni della crescita in alcune direzioni per conservare spazi aperti, come nella fascia progettata attorno alla città di Adelaide. Se la popolazione sostiene questo tipo di limiti, non c’è dubbio che possano essere applicati, ma non funzionerebbero certamente se si trattasse solo di politiche negative: ci devono essere certamente anche contemporanei interventi in positivo per la popolazione che cresce, altrimenti ogni limite posto verrebbe travolto dalla contrarietà dell’opinione pubblica.
Quindi, come parte integrante di politiche di limitazione delle dimensioni delle città, ci deve essere la previsione di centri satellite in quantità sufficiente e adeguatamente collocati, anzi questa scelta dovrebbe precedere qualunque limite posto a una città esistente. Lo strumento per porlo prende la forma del preservare una certa area attorno alla città da qualunque edificazione. Certo pensando alle città attuali quella fascia tenderebbe forse ad essere di profondità inadeguata, e potrebbero svilupparsi più delle periferie che dei centri satellite come auspicabile. Di sicuro una evoluzione politica di questa importanza riguardo alla crescita urbana non si può reggere sulla sola constatazione delle dimensioni ideali da 50.000 a 100.000 abitanti, o come osserva Lord Bryce «la cosa più importante sarebbe fermare la crescita delle città oltre i 200.000» che sarebbero già troppi, e farlo improvvisamente. La cosa più importante, è riconoscere in generale cosa sia auspicabile, e iniziare a lavorare per arrivarci il più in fretta possibile.
da: AA.VV. (a cura di C.B. Purdom), Town theory and practice, Ben Brothers, Londra 1921 – Titolo originale: The town and the best size for good social life – Traduzione di Fabrizio Bottini
Qui su La Città Conquistatrice dalla medesima raccolta vedi anche Theodore G. Chambers, La città circondata da una greenbelt agricola