L’Architetto che ama lacci e laccioli a sua insaputa

Foto F. Bottini

Ogni qual volta si solleva da vari punti di vista la questione degli alloggi della casa economica o anche in senso lato dello sviluppo urbano, o della sicurezza o altre tematiche strettamente connesse alla forma degli spazi pubblico-privati, puntuale arriva il noto o meno noto architetto progettista che dopo breve premessa cita le meraviglie del Piano INA-Casa che negli anni della ricostruzione post bellica aveva indicato la via di uno sviluppo sia edilizio che sociale meno iniquo di quello che pare delinearsi oggi. E ci mostra come esempi, il noto o meno noto architetto progettista, quegli edifici e quartieri che ancora oggi spiccano nelle nostre città e nelle zone semiperiferiche in cui sono collocate, per la persistente qualità degli alloggi, del verde, degli spazi comuni e pubblici, per la generale soddisfazione degli abitanti, rispetto ad altri quartieri analoghi popolari o piccolo borghesi confinanti. Sotto sotto, insinua il professionista, il motivo sta nella grande qualità e preveggenza delle scelte politiche e organizzative dell’epoca, che avevano affidato a progettisti competenti il compito di concepire luoghi adeguati alle famiglie, alla società, alle realistiche possibilità di spesa e altre aspettative, proiettandosi anche sul futuro. Come possiamo appunto ancora oggi verificare comparando direttamente. In fondo ha ragione, il nostro architetto, ma per un motivo diametralmente opposto a quel che crede: l’innegabile duraturo successo di quei manufatti, di quei luoghi, della micro-società locale che sono stati in grado di costruire sull’arco di qualche generazione, si deve all’aver escluso gli architetti, non al loro ingombrante profondo coinvolgimento professionale.

Il progetto di società

La memoria collettiva di categoria dei progettisti, in modo non dissimile da quella intellettuale più ampia che ciclicamente ripesca il ruolo politico di Adriano Olivetti, è condizionata da un fattore particolare e tutto di ruolo ed economico: essere stati letteralmente «comperati» garantendo solida occupazione anche a giovani relativamente inesperti. Inesperienza che peraltro come ben racconta la Storia dell’Architettura in persona riguardava l’intera categoria o quasi, formata dalle università ancora per rivolgersi a tutt’altra committenza, di solito borghese ed elitaria, considerando l’alloggio popolare un umiliante ripiego. Col Piano INA-Casa e la mole di qualificato lavoro che garantiva, quel ripiego non è più tale e anzi diventa sia occasione di crescita culturale e professionale (con lo studio di manualistica internazionale e ricerche originali) sia di sfogo di intenzioni a lungo coltivate praticamente dalla nascita della figura dell’architetto moderno nel paese tra le due guerre. Facile con queste premesse capire perché quel programma introdotto nella modernizzazione industriale del paese per l’intera categoria dei progettisti si trasforma storicamente nel proprio particolare massiccio contributo alla ricostruzione del Paese, nella dimostrazione di cosa sa fare la categoria quando la si lascia lavorare. Ma proprio qui sta il punto: nella discrasia tra cosa e quanto credono di aver fatto gli architetti (quasi tutto, a sentire certe ricostruzioni autocompiaciute), e quello che effettivamente è avvenuto e merita di essere ricordato e ribadito. A partire dal titolo della «Legge 28 febbraio 1949 n. 43 Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori» che già dovrebbe dire molto: la realizzazione di alloggi e quartieri è collaterale e inserita in un mainstream piuttosto definito.

Famiglia società e loro contenitori

In altre parole, se l’architetto modernista (più in generale il professionista che opera dentro il processo di urbanizzazione industriale novecentesco) in qualche misura interpreta il proprio mandato come discrezionale interfaccia tra una società ancora inadeguata alla metropoli contemporanea, di cui cerca di plasmare gli spazi seguendo lo spunto propositivo delle avanguardie artistiche, o in parte reinterpretando le tradizioni (come fa la scuola del sobborgo giardino), col Piano INA-Casa tutta questa fase si ritiene delegata ad altri. Al programma stesso, alle sue premesse politiche cristiano-solidaristiche di contrasto alle spinte di welfare socialdemocratico della sinistra (portatrice di un modello urbano che in parte si affermerà più tardi), al pilastro fondamentale della famiglia nucleare inserita in un villaggio-vicinato che ricalca mezzo secolo di studi sociologici e ricerche anche di parte religiosa. Basta dare un’occhiata agli infiniti documenti di indirizzo prodotti nell’ambito del Piano dai vari organismi ed Enti in cui si articola, a carattere nazionale o locale, per capire quanto i puri rivendicati «studi tipologici» di alloggio o aggregazione ricalchino di fatto orientamenti già stabiliti, e lo facciano molto più fedelmente di quanto per esempio un Raymond Unwin a suo tempo avesse interpretato e percorso il «Peaceful Path to Real Reform» tracciato nelle forme politico-organizzative da Ebenezer Howard. Del resto per un ceto professionale ancora formatosi all’università con gli esercizi sulla Casa con Studio sulla Scogliera per il Poeta Flautista, tutto quell’inquadramento in fondo era una manna, non certo un ostacolo. Quindi concludendo, quando sentite qualche progettista di grido oggi rimpiangere i bei tempi in cui si finanziavano grandi programmi di edilizia pubblica affidandoli alla categoria, sappiate che sta rimpiangendo una dovizia di quelli che oggi forse chiamerebbe «ostacoli alla creatività». Ma allora erano una chiara idea politica di società, modernizzazione, città e cittadini. Averne, di questi tempi.

Su questo sito Piano INA-Casa  (8 articoli) e Amintore Fanfani (4 articoli) 

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