Le città sono vive e vegete anche dopo il Covid-19. Perché per qualcuno sono «morte» da decenni?

foto F. Bottini

Dal momento in cui sono emersi i primissimi casi di coronavirus nella zona di Seattle devastando poi New York City, sono ricominciate le fosche millenarie previsioni sul futuro della città. Fine della densità. A seguire un esodo verso il suburbio e i piccoli centri. Obsolescenza del trasporto pubblico. Il fascino del giardino privato e del lavoro da casa ad abbattere ogni domanda di brulicanti spazi urbani. I collegamenti Zoom a sostituire quei contatti personali diretti che conferivano alle città la loro potenza economica. Insomma la pandemia in breve voleva portarci in dono la Fine delle Città, profezia rilanciata da profeti pensatori, pensierini social, titoli di giornali, spesso con qualche esplicito sadismo per le disgrazie altrui.

Se la prima fase della pandemia ha messo a nudo tante contraddizioni sociali, questa è davvero una molto radicata: il sospetto che l’esistenza urbana in America sia un male assoluto. Poi i marciapiedi hanno tornato a popolarsi, le migrazioni indotte hanno rivelato contorni più chiari, e le ricerche in materia hanno dissolto i dubbi iniziali secondo cui proprio la densità urbana stava alla base del Covid-19. Dopo di che possiamo chiederci di nuovo: ma cosa ci sarà di tanto fascinoso nella sempre incombente Fine delle Città? Perché quell’idea non si estingue da sola?

In America, si tratta di un vero e proprio virus mutante a seconda delle occasioni: la malattia eliminerà le città, oppure lo farà il sovraffollamento, o la corruzione, magari la suburbanizzazione, o la crisi fiscale, le tecnologie, la criminalità, il terrorismo, e ovviamente la pandemia (a differenza chissà perché delle pandemie già arrivate prima). Poi, inevitabilmente, la città non muore affatto. Ma non scompare neppure quell’idea secondo cui scomparirà per certo alla prossima occasione. Abbiamo provato a chiedere a oltre una decina di studiosi di materie urbane – storici, economisti, sociologi, esperti di politiche cittadine – a proposito del perdurare di questa singolare narrativa.

«L’anti-urbanesimo in America è una specie di religione, molto diffusamente praticata anche in tempi normali, e in forme più appassionate quando le città sono effettivamente in crisi» ha scritto Eric Klinenberg, sociologo alla New York University. Un filone ideologico specificamente americano e che risale sino a Thomas Jefferson. Le città inevitabilmente associate alla corruzione e agli stereotipi su immigrati e afro-americani. Città considerate a prescindere luoghi malsani in cui abitare, specie per le famiglie, aggiunge Ingrid Gould Ellen, professore di urbanistica sempre alla N.Y.U. La pandemia ha colpito proprio nel momento in cui questo sospetto ideologico ricominciava a farsi strada in alcune fazioni politiche, col Presidente Trump e altri conservatori e comunicatori pronti a entusiasmarsi davanti a qualunque problema delle città.

«Il fatto di mettere immediatamente sotto accusa tutto ciò che pare non funzionare collocandolo dentro l’anti-urbanesimo, è cosa estremamente prevedibile» spiega David Schleicher, professore alla Yale Law School. «E sarebbe strano se succedesse poniamo come in Francia, dove ovviamente nessuno è sceso per strada gridando PARIGI È FINITA!».

In modo simile David Madden, sociologo alla London School of Economics, dice che Londra è tanto più grande e importante di qualunque altra città britannica, da non far ritenere credibile l’immagine della sua fine. In forme variamente intricate esistono versioni di questa prevista Fine delle Città che circolano durante la pandemia anche tra chi dentro le città ci abita, e si considera progressista.

Ciò probabilmente rispecchia l’ansia di quanti fino alla pandemia stavano benissimo, racconta Sara Jensen Carr, che insegna architettura, urbanistica e arte del paesaggio alla Northeastern University. «Bisogna chiedersi chi ce la racconta in quel modo, e come può trarre vantaggio dall profezia che si auto-avvera». In altri termini quella delle città che sarebbero finite è una conclusione di comodo per chi ha già deciso che gli conviene. Se si è già convinti in partenza che la pandemia abbia sbugiardato gli economisti e urbanisti delle virtù della densità. «Si parte da quella idea un po’ balzana delle città che “fanno bene” come mangiare i broccoli » spiega Jason Barr, economista alla Rutgers. Ma poi, prosegue, ci ritrova pigiati dentro un vagone della metropolitana con l’aria viziata, cominciando a detestare Jane Jacobs che ti avrebbe obbligato a vivere così. «La pandemia è un po’ come un momento “eccoti qua!” che innesca un probabile latente anti-urbanesimo che in qualche misura abbiamo tutti» conclude Barr. In termini più espliciti, la «fine della città» ha spesso rappresentato l’andarsene dalla città di ceti medi bianchi, non certo degli abitanti di colore rimasti lì anche con la pandemia, o delle fasce a basso reddito che continuavano a prendere il trasporto pubblico per andare al lavoro.

«La distanza sociale è un fenomeno nuovo per urbanisti e residenti bianchi» commenta Andre Perry, ricercatore alla Brookings Institution. «Mentre gli afroamericani sanno benissimo come considerarla». Nei quartieri segregati, dove non esistono campi da gioco o negozi alimentari, si è storicamente guardato abitanti andarsene via, dalle strade, dalle scuole». La distanza sociale si chiamava White flight dice Perry. Margaret O’Mara, storica alla University of Washington, pensa che i recenti foschi presagi sulle città siano solo un prolungamento delle critiche già emerse contro Seattle o New York che sarebbero troppo affollate, dispendiose, ingiuste, «diventate sempre più insostenibili per viverci». Con la pandemia si sono accelerati i processi e li si è messi a nudo.

«La sensazione del tutto ragionevole secondo cui qualcosa non funzionava nelle grandi città americane si intreccia con gli effetti catastrofici del Covid» commenta A.K. Sandoval-Strausz, storico alla Pennsylvania State University. E ciò rende almeno accettabile, se non proprio auspicabile, lo svuotamento delle strade durante la pandemia: una sorta di risarcimento». Ovviamente questa idea – il considerare la città qualcosa di astratto che può peccare ed essere punita per le proprie colpe – ignora il fatto evidente che la pandemia ha colpito soprattutto gli abitanti più vulnerabili, prosegue la riflessione di Sandoval-Strausz. È vero che molti centri hanno perduto residenti, ma i calcoli confondono casi luoghi tendenze. Sono cresciuti i ritmi migratori fuori New York City, ma pare che tantissimi si siano solo trasferiti in cittadine dentro la medesima regione più in periferia. Non si è redistribuito nulla in termini di regione urbana, ma invece cresce l’area metropolitana allargandosi proprio verso quelle cittadine minori. In modo simile, gli abitanti che si sono spostati durante la pandemia da Los Angeles o Seattle verso Austin non lasciavano certo le città ma andavano verso altre diverse (peraltro abbastanza prevedibili). E di nuovo, non si tratta di confrontare ricchezza e declino.

La fine dell’emergenza socio-sanitaria

Momento della verità: la fine ufficiale dell’emergenza coronavirus, dichiarata dall’amministrazione Trump nel 2020, e terminata nel maggio dell’anno successivo. Anche se gli esperti avvertono che il virus non è certo sparito. Ultimo ostacolo: alla dichiarazione di fine emergenza, i passeggeri diretti negli Stati Uniti non devono più mostrare il certificato di vaccinazione Covid. Vari aspetti emotivi: oltre 1,1 milioni di americani sono morti per la pandemia. La dichiarazione di fine emergenza viene accolta in modo complesso da chi è stato colpito n modo più grave. «La reazione alla narrativa del declino può diventare una narrazione opposta di boom urbano, di riprendere col modello di crescita imperante negli ultimi quindici anni salvo piccoli aggiustamenti qui e là» scrive il Professor Madden, della London School of Economics. E si tratta di un errore.

Uno degli elementi di fascino dell’antiurbanesimo di emergenza era che la pandemia potesse risolvere tutti i problemi. Lavoratori qualificati tecnici e amministrativi trasferiti in campagna, abitazioni urbane diventate meno costose per tutti gli altri senza necessità di costruirne di nuove. Viaggi in metropolitana più comodi anche con l’aria condizionata che non funziona, senza bisogno di investire in nuove infrastrutture. Col telelavoro, viene la tentazione di pensare che si possa creare la medesima ricchezza prodotta dall’interazione e condivisione delle idee senza pagare il prezzo del sovraffollamento e dei costi immobiliari inaccessibili, oltre che dei dilemmi politici che sollevano.«Perché non postare tutte le “economie di agglomerazione” dentro a Zoom senza pagare i costi della agglomerazione fisica?» scrive David Albouy, economista alla University of Illinois. «Si può intravvedere un barlume di ottimismo qui». Alla fine continueranno tutti i problemi vecchi e nuovi delle città, insieme alle città stesse e ai loro meriti. Pare una pura follia pensare diversamente.

da: The New York Times, 12 luglio 2021 – Titolo originale: Covid Didn’t Kill Cities. Why Was That Prophecy So Alluring?Traduzione di Fabrizio Bottini

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