Milano: autopsia di una città (1992)

Se denaro è potere, potere è denaro: non si scappa. A Milano la trattativa losca fra comuni e imprenditori rivela, sì, scarsa decenza degli amministratori, ma è stata resa possibile dalla comune decisione di abbattere tutti i vincoli che facevano dell’ente locale un soggetto forte. La tangente-story nasce sul terreno su cui è stata giocata la crescita della città. Non a caso la grande tangente è pagata, e organizza addirittura consorzi di imprese, sugli appalti delle opere pubbliche e sulla destinazione delle aree urbane e suburbane. La cui allocazione è mutata di metodo e natura. Non per semplice mutazione genetica dei socialisti, da sempre decisivi a Milano, che fu anche il primo esperimento di centro- sinistra d’Italia. Perché? perché i grandi flussi di migrazione interna fecero esplodere, più che altrove e più che non avesse fatto la guerra, le direttrici della città progettate alla grande dalle giunte riformiste fino al 1922.

Forse nessuna città fu così potentemente investita dalla migrazione dal sud e dal Veneto: il governo di questo tipo di metropoli dovette allargarsi. Quali processi doveva tentare di affrontare? Essenzialmente due: i costi sociali dell’immigrazione, permettendo all’impresa di non elevare eccessivamente i salari – era il comune che forniva prima o poi case, strade, trasporti, scuole e ospedali – e la terziarizzazione della città. Questo era cominciato negli anni Sessanta, perché il perimetro del Comune è ristretto, e presto i grandi complessi industriali si spostarono verso lo hinterland, dove le aree costavano meno e i comuni assumevano i costi di urbanizzazione, mentre l’azienda che se ne andava vendeva vantaggiosamente le aree occupate in città e andate alle stelle come valore. A loro volta, con gli insediamenti industriali salivano i valori delle aree dell’hinterland. Occorreva dunque governare sia la crescita fisica della città reale, sia la trasformazione della Milano storica.

Erano gli anni di una potente spinta a sinistra, fondata su soggetti in mutazione: l’acculturazione, l’unificazione linguistica e di modelli attraverso la tv, la sindacalizzazione avanzata facevano subito degli ex contadini un proletariato baldanzoso nell’espansione, e nei giovani del tutto diverso dal passato. Parallelamente la scolarizzazione formava una marea di studenti e a Milano era stato possibile un passaggio, credo altrove mancato, fra una intellettualità tecnico-scientifica antifascista e l’università: studenti e assistenti, economisti e urbanisti e sociologi, che entravano in quelle commissioni di studio, o negli enti locali o accanto ad essi, a studiare i flussi del mutamento e proporre delle scelte. Così si trovarono sulla scena tre protagonisti: imprenditoria, enti locali e una forza di lavoro in aumento e trasformazione, in piena ebollizione politica e collegata a una nuova intellettualità. Tutti spostati, quali che fossero gli orientamenti politici, sulle domande poste dalla città in cambiamento. Erano i tempi delle Triennali a misura d’uomo, il momento d’una cultura delle riforme. Milano degli anni ’60/’70 fu un laboratorio.

Due strade, un conflitto

E anche il luogo di uno scontro politico sul territorio – lo spazio, la sua natura, dominata da chi, per chi. Al comune, e poi alla regione, si aprivano due strade: o far leva su quello straordinario e acculturato movimento, discutendo con esso lo sviluppo e facendosi sostenere, o pattuire con l’imprenditoria i grandi interessi immobiliari. Il conflitto era chiaro. La scelta fu trattare con gli imprenditori, e comportò la messa fuori gioco sia dei vincoli formali, il piano regolatore che limitava l’uso selvaggio delle aree, sia degli attori sociali – dal sindacato all’Inarch, dai collettivi di base alle commissioni di studio, che opponevano una diversa programmazione.

In questa scelta il Pci fu non meno deciso degli altri: quella marea proletaria e di nuovi tecnici che cercò di esprimersi nei comitati di quartiere, la temette e la sconfessò. Ma così dimise ogni potere contrattuale, e perfino culturale. Muta visibilmente a Milano il tipo del consigliere comunale, sempre più burocrate mediatore: dopo i primi anni ’70 nessun comune pianificò davvero, nessun comprensorio nacque attraverso quella discussione sullo sviluppo che era durata per quasi quindici anni, sola carta di credito del riformismo italiano, a base del movimento regionalista. All’origine dell’estremismo dei movimenti c’è anche questa delusione.

Chi diresse da allora la crescita urbana, perché di «sviluppo» non si può parlare? Furono transitorie holding, perlopiù mediate dalle banche, a definire l’allocazione dei suoli e delle risorse, presentandoli ai comuni, resi sempre meno autonomi dalla pratica, inaugurata dal centro-sinistra, di dipendenza appena nascosta dei comuni dal potere centrale dei partiti del governo. Da allora la sinistra milanese non fu più in grado di offrire un’alternativa di idee al bulldozer degli interessi finanziari, delle rendite e dell’industria. Sbaglia chi crede che la giunta milanese scelse, contro spinte vetero o populiste, una progettazione della città e dell’immediato hinterland che dava priorità a un «terziario avanzato» in un tessuto urbano riqualificato: molto presto la «intelligenza sociale», anche con qualche interessante collettivo di lavoro relativamente autonomo, si collocava fuori città. Il Psi giocò talvolta contro i due partiti più forti, ma di rimessa: neanche quando ebbe Milano fra le mani riuscì a darsi una immagine, che non fosse il settore dell’alta moda (con produzione al nero) e della pubblicità: poca roba, e rispetto ai grandi progetti e alle grandi tecnologie che agivano nell’industria, poco avanzata. Come in altri comuni, Milano fu in coda a una ristrutturazione in cui non mise becco, e della quale ereditò i frutti più amari, come l’emarginazione giovanile.

Nulla più di questo. Differentemente da Parigi, che sviluppò la produzione «immateriale» parallelamente al decentramento dell’industria (comando e comando tecnologico alla Defense, per esempio) e lo accompagnò con una riqualificazione dei servizi e la produzione di grandi flussi culturali, dal Beaubourg al museo d’Orsay al centro di studi islamici alla nuova biblioteca nazionale al centro musicologico dell’Opera – Milano si è solo intasata, a dispetto delle possibilità offerte dal tradizionale sventagliamento produttivo. Non parliamo di farsi capitale della cultura. Forse, una volta rotto con gli intellettuali delle nuove generazioni, avere una idea forte era imposSibile. Parigi elaborò il ’68 dopo averlo sconfitto. A Milano nessuno elaborò nulla, il solo “nuovo” è stato Berlusconi: fatti i soldi sulla veneranda speculazione immobiliare, quando crebbe sulla comunicazione bypassò la città. Non ci sono stati grandi scontri su una “idea”, condivisibile o no che fosse, della città: le giunte non hanno ne volato ne rischiato alto, si sono assoggettate a grandi opere – tipo passante ferroviario – non pensate da loro, sottratte a qualsiasi confronto sullo sviluppo città-regione. Da qui sono passate al negoziato basso, contrattarono sui soli poteri che già restavano: avvantaggiare nell’appalto, nei costi, nei tempi questo o quell’imprenditore o pacchetto di imprenditori.

Benzina sulla paglia

Se si ragionasse, la più grande dissipazione di denaro pubblico si troverebbe, più che sulle tangenti, nel salto di tutti i tempi e preventivi inizialmente votati. Che non siano oggetto di una procedura penale nulla toglie alla responsabilità politica. Lo scandalo del Piccolo Teatro sta nei dieci anni impiegati a non finirlo: quindi sul triplicamento, decuplicamento della spesa. Il sistema è lo stesso che a Roma, i cantieri non terminano mai – e fra un po’ qualcuno ci dirà che è stato chiuso un occhio «per dare lavoro». Chi non è stato d’accordo? Chi ne ha fatto un caso nazionale? Sulla assenza di un’idea pubblica forte che regolasse la crescita della città-regione e sulla presenza di orrendi traffici, sono nate le leghe, confluenza di interessi minori esclusi e furore autentico della gente. Bossi, Cossiga. Segni, Scalfari hanno buttato benzina da sponde solo apparentemente opposte e di paglia per prender fuoco ce n’era.

Oggi l’opposizione appare terrificantemente incapace perfino di capire dove è fallita. Ne ha un’idea su quel che «invece» vorrebbe fare, oltre che allontanare da se montagne di fango, per usare una parola gentile. Va anche detto che nessuno gliela chiede. I più esposti e arroganti sono buttati a mare grazie alla magistratura che, fino a ieri silente, leva infine la spada vendicatrice. Ma l’avvocato della Fiat, Chiusano, indica la strada: se le grandi opere fossero o fossero considerate private, dove sarebbero corruzione e concussione? Il reato sparirebbe, con reciproca soddisfazione. Avanti dunque con l’abolizione di quel che una volta erano le proprietà e i vincoli pubblici, ridotti a merci da acquistare con mancia. E nessuno alza la voce: la sinistra, separatasi dalla base che vent’anni fa la investì come una fiumana, non è più che un contenitore elettorale, mera parvenza di fronte a interlocutori potenti. Dai quali Psi e Pds sono sconfitti, come la Dc, ma non per sola tangente; per non essere riusciti a capire e guidare uno solo dei processi sociali reali di mutamento della città. La politica o è una cosa seria, o è meno di niente.

Da: il manifesto, 15 maggio 1992 (il titolo scelto dalla redazione era «Non di sola tangente»)

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