Natura e civiltà: una predica della domenica (1961)

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Foto F. Bottini

Non una fra le città italiane si sottrae al rimprovero di aver colpa grave contro il buon gusto e la storia: Milano vanta parecchi grattacieli, Napoli ne ha eretto uno nel bel mezzo del panorama cittadino, Torino ha guastato una delle più belle piazze d’Italia, quella di S. Carlo, con la vista di una brutta torre di abitazione. Nessuna sorpassa Roma per il disordine indescrivibile dei suoi quartieri nuovi e delle borgate periferiche. Abitando sulla via Tuscolana sono costretto ad attraversare, passata la porta San Giovanni, un orrendo quartiere, nel quale non esiste ordine razionale nelle vie, possibilità di contemplare case che non siano grottescamente variopinte, e non abbiano balconi siffatti da potere essere talvolta scambiati per vasche da bagno. Percorrendolo nelle ore di mezza oscurità, pare di passare attraverso i canyons dei grattacieli di New York dove lo sguardo non vede la fine degli alveari, nei quali tanta parte dei romani è costretta a vivere. Una mattina volli, dopo averne tanto sentito parlare, percorrere la nuova via detta Olimpica; e, camminando ad andatura moderata, la nostra vettura automobile durò un’ora e mezza a percorrerla intera, dalla partenza sino al ritorno a casa. Non ebbi a ridire sulla via medesima, perché la necessaria fretta nell’aprire il percorso nel giorno dell’inaugurazione delle gare spiega le imperfezioni, i buchi, i salti. Difetti forse evitabili, con più lunga ed accurata preparazione, difetti costosi, ma emendabili.

Quel che non è emendabile è la via Olimpica medesima. Durante quell’ora e mezza potemmo, mia moglie ed io, tener gli occhi lietamente aperti forse per un quarto d’ora; attraversavamo una zona ancora libera di aree non costrutte, di parco, di laghetti artificiali. Il resto era tutto offensivo all’occhio. Si sa che a percorrere vie cittadine non ci si deve attendere a vedere ad ogni tratto capolavori architettonici; ma vedere vie sì, con le case di cui si contempli l’allineamento, si comprenda la conformazione e la direzione. Quel che si vede percorrendo la via Olimpica non è qualcosa che arieggi ad una via vera e propria. No: è un affastellamento di case voltate non si sa come, che si guardano di traverso le une le altre; e non si sa perché siano messe in quel luogo ed in quella postura e non altrove. Talvolta i balconi paiono messi di sghembo e salgono e scendono quelle disgraziate facciate; pieni o con ringhiere; dipinti, i balconi e le persiane e le facciate, con i colori più variati ed offensivi, destinati a sfumare dopo le prime piogge.

Così, per ignoranza di sindaci, di commissioni edilizie sono rovinate e distrutte le grandi e le piccole città italiane. A fatica, cittadini benemeriti e vigili associazioni riescono a impedire gli sconci maggiori frutto dell’insipienza delle teste di macaco insediate nei municipi, dal sindaco agli impiegati degli uffici detti, talvolta per ischerzo, di ornato. Se non fossero le grida dei pochi consapevoli, si continuerebbe a sventrare, ad allineare, ad allargare i nuclei antichi storici delle città e cittadine, allo scopo di risolvere il problema insolubile dell’attraversamento delle automobili, che si risolverà soltanto il giorno nel quale, vista la impossibilità di muoversi, saranno tutti d’accordo nel vietare ai veicoli di entrare nella città antica. Chi vorrà percorrere il Corso a Roma, dovrà di nuovo rassegnarsi ad andare a piedi, forse ad eccezione dei giorni di carnevale.

Dalle città e cittadine la lebbra sale ad allargarsi. Ogni borgo di poche migliaia di abitanti, vuole scimmiottare quel che si fa «in città»; e si elevano grattacieli in sedicesimo, di quattro, cinque o sei piani, dove le distanze sono minime e dove non c’è difficoltà a costruire una casetta su alcune centinaia di metri quadrati di orto e giardino. Si annuncia ora la possibilità del delitto dei delitti. Quando dimoravo ogni tanto per qualche giorno a Posillipo di Napoli – e prediligevo in quel pezzo di paradiso una minuta casina di qualche stanza a picco sul mare – mi accorsi ad un tratto di una grossa nube verso le cinque del pomeriggio, partendo da Pozzuoli e da Bagnoli, giungeva sino alla parte opposta del golfo e ne oscurava l’orizzonte. Un altro giorno, desiderando contemplare lo spettacolo, che avevo visto meraviglioso, del golfo mi spinsi fino al convento di Camaldoli. In fondo, una nuvola di fumo oscurava l’orizzonte. Nel parco, le foglie dei mirabili alberi, essendomi parse da lontano scolorate, preoccupato, andai a toccarle. Erano ricoperte da un leggerissimo strato di polvere. Oggi si annuncia essere in corso la approvazione di un progetto di ampliamento degli stabilimenti dell’Ilva sino al mare di Coroglio-Pozzuoli e di riempimento di una fascia di mare per circa 400 mila metri quadrati.

Anni or sono, mi ero sfogato scrivendo lettere a ministri ed a personaggi investiti di cariche pubbliche per protestare contro lo scempio che le nuvole di polvere vomitata dalle ciminiere degli stabilimenti siderurgici e cementifici facevano del paesaggio del golfo di Napoli, ossia di una delle maggiori meraviglie del mondo. Taccio del danno alla salute e di quello, pur grave, di coltivatori di piante fruttifere, di ortaggi e di fiori. Ma dove hanno la testa gli sciagurati che sovraintendono alla tutela delle bellezze naturali italiane? Non hanno mai riflettuto che il reato che compiono le ciminiere vomitanti fumo e polvere si chiama furto? Che la produzione del fumo e della polvere è un costo dello stabilimento produttore, che i consumatori di acciaio e di cemento sono scorrettamente avvantaggiati perché nel calcolo del costo dell’acciaio e del cemento non si tiene conto del costo di rimangiarsi il fumo e la polvere prodotti dalle ciminiere? Pare, a quanto mi assicurano uomini periti quando stavo lamentando per lettere inutili lo sconcio, che sia tecnicamente possibile far rimangiare il fumo a chi lo produce. Costa: epperciò acciaierie e cementerie preferiscono non pagare il costo ed accollarlo al pubblico, ossia agli innocenti.

Hanno riflettuto i parlamentari i quali chiedono ampliamenti e stabilimenti per dar lavoro, per crescere la produzione, ecc. ecc., al danno arrecato alla collettività? Hanno pensato che l’industria del forestiero, compresi nei forestieri anche gli italiani, i quali vorrebbero poter godere le bellezze del loro paese senza essere ignobilmente insudiciati nel corpo, nei vestiti e nei cibi, è siffatta da sostenere il confronto con tante altre specie di attività economica? Hanno riflettuto che è loro dovere provvedere a costringere i produttori del danno a sostenerne i costi, tutti i costi, anche quelli del rimangiamento del fumo eruttato dalle ciminiere? In tutta Italia e non solo nel golfo di Napoli deve essere reputato fatto illecito quello di attentare alla pubblica salute ed alla pubblica felicità solo per tener basso il prezzo dell’acciaio, del cemento, dei mattoni, e di tutti i beni materiali produttori di polvere e di fumo.

da: Corriere della Sera, 30 luglio 1961 (il titolo scelto per questo articolo di Einaudi è la composizione del nome della rubrica del Corriere, «Predica della Domenica», con la sezione della raccolta di memorie «Natura e Civiltà», degli Atti della Commissione per la Tutela dei Beni Culturali, 1967, Vol. III, che lo riprende)

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