Non sarà la paura degli intellettuali (?) a farci mettere a mezz’asta la bandiera della trasformazione

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Foto F. Bottini

Ci sono due famosissimi slogan novecenteschi che accostati riassumono molto bene anche certe distorsioni e strabismi attuali. Il primo è quel passaggio del manifesto del Surrealismo di André Breton che recita: «Non sarà la paura della follia a farci mettere a mezz’asta la bandiera dell’immaginazione». Il secondo è l’altrettanto citata frase di Lenin quando ci rammenta se necessario che «la Rivoluzione non è un pranzo di gala». Notissimi fino ad essere diventati banali, fulminanti nella straordinaria capacità di sintesi, questi due slogan diventano però puntualmente assai complicati e contraddittori. Messi in fila, ci possono per esempio dire che libertà di ricerca non significa automaticamente libertà di applicazione, di questa ricerca, nel corpo vivo della società, perché si potrebbero indurre effetti inimmaginabili nel corso della elaborazione teorica. Al tempo stesso, capire e sapere (o provare ragionevolmente a immaginare) quali siano le differenze tra un pranzo di gala e un selvaggio picnic planetario di massa, aiuta a prepararsi anche sul versante dell’elaborazione. Prendiamo l’esempio già ampiamente citato della macchina per abitare.

Incrostazioni di madrepore umane

Una delle questioni centrali delle avanguardie storiche è la piena accettazione del nuovo paradigma urbano-industriale, e un suo rilancio in termini di riflessione e produzione culturale. Dagli infiniti filoni di questa riflessione spunta anche il concetto di macchina per abitare, che traduce l’originario terrore umano per le industriali fucine di satanasso (mi sia consentita la metafora, tra André Gide e Tex Willer) in teorico sfruttamento delle medesime tecniche produttive applicate alla città e alle case. Non è certo la paura della follia a trattenere l’immaginazione, ma è la sottovalutazione del numero e qualità di invitati, a quello che non può essere un pranzo di gala, a provocare il grosso guaio da cui dobbiamo ancora uscire dopo parecchi decenni. Accade che la famosa madrepora umana metropolitana, così come elegantemente teorizzata a suo tempo da Patrick Geddes, finisce per incrostarsi su quelle macchine da abitare, sabotandone il senso senza che gli ideatori originali capiscano davvero cosa accade. E infatti continueranno per parecchio a progettare le medesime stie per polli, ma non è questo il problema vero, perché quando non si capisce non si capisce, è grave ma non si fa peccato insomma. Più grave è quando si manifesta la paura della follia, si ammaina la bandiera dell’immaginazione, e si vuol restare ostinatamente, ermeticamente chiusi dentro la propria sala da pranzo di gala.

Il terrore della folla

Quel che è accaduto, in sintesi estrema, è che (nel campo dell’architettura/urbanistica, dell’ambiente, e in tanti altri ambiti che interessano la vota quotidiana) la piccola combriccola elitaria che dovrebbe produrre pensiero innovativo pare ormai terrorizzata dalla sola idea di guardarsi avanti, preferendo cullarsi e cullare di riflesso tutti in un nostalgico sguardo al bel tempo che fu, al recupero delle tradizioni, sempre che siano mai esistite davvero. Ma, cosa ancor più grave, al terrore del nuovo si aggiunge oggi soprattutto il terrore di interrompere il pranzo di gala per pochi, le paroline educate e il tintinnio dei bicchieri. Non farlo travolgere dall’irruzione delle masse maleducate, per il timore che diventi qualcos’altro, come è ovvio debba accadere. Tanto conservazionismo che scivola impercettibilmente in conservazione, che sia artistica, urbana, ambientale o politica e sociale, si spiega proprio così. E non è un bene. Soprattutto se riguarda la massificazione di cose vitali, come la consapevolezza ambientale, energetica, le forme di partecipazione (di massa e necessariamente non un pranzo di gala) ai grandi processi di cambiamento degli stili di vita e consumo, necessari a costruire un paradigma di sostenibilità. Un appello appena pubblicato dalla rivista Nature affronta queste tematiche dal punto di vista dell’esclusione delle donne, ma ovviamente il metodo e la prospettiva sono estendibili anche ad altre … ehm, minoranze.

Riferimenti:

Heather Tallis, Jane Lubchenco Working together: A call for inclusive conservation Nature, 5 novembre 2014 [dato che forse la rivista non è liberamente accessibile a tutti, ho incollato l’articolo in un pdf che si scarica direttamente da qui via Google Drive]

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