Pedalopoli

on the road

Foto J. B. Gatherer

Tutti ci ricordiamo le immagini tra il grandioso e il paranoico del profetico film di Fritz Lang, Metropolis (1927) dove l’umanità è umiliata e irregimentata dentro un sistema totalitario industriale, di cui le vicende personali di alcuni protagonisti sono solo una metafora. Non è certo un caso se nei movimenti e negli stessi componenti di scenario, quelle folle altro non sono che la riproduzione seriale dell’omino alienato dalla fabbrica di Tempi Moderni (1936), o per altri versi una versione recitata e spettacolarizzata di altre riprese, come quelle dei raduni paramilitari nelle dittature fasciste e naziste europee, che sfilano su grandi arterie e piazze spesso concepite appositamente a quello scopo. Meno chiara è, invece, la forte somiglianza di queste fosche prospettive ai più luminosi (chissà perché, col senno di poi) scenari messi in campo da certo razionalismo meccanicista. Come quei cartoni animati che a partire dagli schizzi dello scenografo Norman Bel Geddes vengono proiettati all’Expo 1939 di New York dentro il padiglione Futurama della General Motors. Qui sono a ben vedere addirittura sparite, le folle umane, che dobbiamo immaginarci chiuse dentro le proprie automobili, mentre scorrono ordinate su autostrade multicorsia verso le proprie destinazioni, vuoi dentro a enormi grattacieli a fabbrica/ufficio, vuoi verso spiagge di massa, vuoi dirette a una futuribile versione dei centri commerciali.

Quello che conta è il metodo/contenitore

La vera differenza, tra l’originario monito di Lang e la roboante promozione futurista di Bel Geddes, a ben vedere non sta nei toni o nell’angolatura delle luci, ma soltanto in un dettaglio apparentemente insignificante, che però traccia a modo suo il solco: i primi camminano, i secondi stanno dentro l’abitacolo, e le forme urbane – un pochino o un tantino – cambiano per assecondare la modalità di spostamento. Sembra una stupidaggine? Non lo è affatto, se consideriamo che Metropolis viene da tutti considerato come profetico avviso delle dittature novecentesche, e Futurama al contrario araldo di modernizzazione automobilistica democratica di massa del dopoguerra. Quel che è identico sono masse infilate a forza dentro contenitori in movimento, i quali (questo ce l’ha raccontato la storia, non i sospetti) le scaraventano autoritariamente qui e là, non importa se in balia di un Duce o Führer sbraitante da un pulpito, o in preda al ciclo produzione/consumismo urbano/suburbano stile L’Uomo dell’Organizzazione, della fase successiva. Una specie di totalitarismo le accomuna invece di dividerle, quelle due immagini, ed è quello dei contenitori stile labirinti per ratti da laboratorio, diversissimi da quelli di qualsiasi città ideale.

Se tanto mi dà tanto, rieccoci di nuovo

Oggi da più parti si dice che l’epoca dell’auto si stia avviando a un lento tramonto, e corposi gruppi di ambientalisti vorrebbero orientare decise politiche pubbliche verso la mobilità urbana ciclabile: sana, sostenibile, senza emissioni, risparmiosa da tanti punti di vista, e possibile alternativa «globale» al sistema dell’auto privata. Globale anche nel senso di iniziare a costruirsi attorno un mondo di riferimento, socioeconomico e spaziale, a partire dalle piste ciclabili che sono moltissimi a considerare senza dubbio alla stregue delle «autostrade del terzo millennio». Ma alla luce delle considerazioni di cui sopra, si rafforza il dubbio che qualcuno non voglia capire il senso di quell’originario monito novecentesco di Fritz Lang scimmiottato a loro insaputa da tanti altri negli anni successivi: la questione non è muoversi a piedi su passerelle, o in auto su multicorsia girate verso il futuro automobilistico del mondo a sprawl. La questione di potersi muove liberamente, nel tempo e nello spazio urbano post-moderno, non certo di nuovo intruppati fra corsie gerarchiche, velocità di movimento prefissate casa-lavoro (e la metropoli dei flussi dove la mettiamo, amici pedalanti conformisti?), ritmi schizofrenicamente divisi fra ore di punta e momenti di morta. Per questo, tutte le volte che qualcuno si entusiasma per le varie pensate di «autostrade della bicicletta» per Fantozzi di massa, più che altro torna in mente Metropolis, e quel che ne è seguito. Ci sarebbe da scuotere il capo per la tristezza, invece di lanciarsi suonando il campanello.

Riferimenti:

Adele Peters, Munich Wants To Build An Autobahn For Bikes, FastCo, 7 agosto 2015

Ne la Città Conquistatrice (oltre a molti testi sulla mobilità) anche alcuni brani di Norman Bel Geddes, Autostrade e Redistribuzione Insediativa (1940)

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