Per una città non sessista (1980)

«Il posto della donna è la casa»: uno dei principi fondanti della progettazione urbanistica e architettonica americana dell’ultimo secolo. Principio implicito più che esplicito, per le professioni connesse a predominanza maschile, che non si trova certo a caratteri cubitali dentro i manuali di progettazione. E che ha prodotto molte meno discussioni di altri principi organizzativi della città americana contemporanea nell’epoca del capitalismo monopolistico, come l’incredibile corsa alle trasformazioni private, la dipendenza quasi feticista da milioni di automobili, i consumi dissipatori di energia. Ma le donne hanno comunque di fatto respinto questo principio, entrando in numeri crescenti nel mercato del lavoro. Case, quartieri, città, pensati per una donna confinata alle pareti domestiche, ci limitano dal punto di vista fisico, sociale, economico. Ed è sommamente frustrante dover resistere a queste imposizioni, per riuscire a lavorare, a tempo pieno o parziale che sia. La mia tesi è che l’unica uscita da questa situazione sia sviluppare un diverso paradigma della casa, del quartiere, della città. Per iniziare a descrivere il tipo di insediamento umano, con caratteri fisici, sociali, economici in grado di favorire anziché limitare, l’attività delle donne che lavorano e delle loro famiglie, risulta essenziale riconoscerne le necessità, per cominciare la trasformazione delle case attuali e da realizzarsi in futuro, in modi tali da andare incontro alle loro necessità.

Quando parliamo della città americana nell’ultimo quarto del ventesimo secolo, si deve evitare quella falsa distinzione tra città centrale e suburbio, tra luoghi dell’abitare e del lavoro, e considerare invece come un tutto unico la regione urbana. È in questo tipo di regione che risiede oltre la metà della popolazione, nel suburbio disperso dei «quartieri dormitorio». Gran parte dell’urbanizzato negli Stati Uniti consiste di «sprawl suburbano»: casette unifamiliari raggruppate dentro a zone segregate per classe, separate da superstrade, servite da centri commerciali e fasce di attività. Ci sono oltre cinquanta milioni di queste casette appoggiate al suolo, e circa due terzi degli americani «possiedono» la propria, grazie a mutui di lungo periodo, come l’oltre 77% degli iscritti al maggiore sindacato nazionale. Maschi bianchi lavoratori qualificati, tutti con una probabilità molto maggiore di diventare proprietari di casa che non donne o rappresentanti delle minoranze, a cui è sempre stato negato un analogo accesso al credito per la casa. Chi lavora si sposta quotidianamente, verso il nucleo centrale o altre zone della fascia suburbana. Nelle aree metropolitane studiate tra il 1975 e il 1976, ci si spostava per lavoro – con mezzi pubblici o auto private – in media per una quindicina di chilometri, sia all’andata che al ritorno.

Ci sono più di cento milioni di auto private, parcheggiate in garage da due o tre posti (luoghi che da soli sarebbero considerati stupendi alloggi in parecchi paesi in via di sviluppo). Gli Stati Uniti, dove abita solo il 13% della popolazione mondiale, consumano il 41% del totale delle auto per il trasporto passeggeri, col loro sistema di case e trasporti. Le radici di tutto si trovano nelle politiche economiche e ambientali del passato. Verso al fine del XIX secolo, c’erano milioni di famiglie immigrate ammucchiati nei tuguri delle città industriali, e senza la prospettiva ottenere condizioni abitative migliori. Poi dopo una serie di scioperi e manifestazioni, più o meno tra il 1890 e gli anni ’20 del secolo successivo, alcuni industriali iniziarono a considerare l’opportunità di decentrare gli impianti affrontando anche la questione delle abitazioni, nelle propria prospettiva di un nuovo ordine. «Una buona casa fa il buon lavoratore» suonava lo slogan della Industrial Housing Associates nel 1919. Che insieme ad altri convinse le grandi imprese a muoversi verso un modello di abitazione per le famiglie dei propri dipendenti maschi bianchi, ed eliminare il conflitto industriale.

«Un lavoratore soddisfatto vuol dire più profitti, quelli insoddisfatti sono un pessimo investimento» cinguettavano. Gli uomini percepivano un «assegno familiare» e potevano diventare «proprietari» di casa pagandosi rate di mutuo regolari, mentre le loro mogli erano le «amministratrici» della stessa casa, prendendosi cura di coniuge e figli. Il marito tornava a casa dalla giornata di lavoro in fabbrica o in ufficio, e trovava l’ambiente privato domestico, del tutto staccato dal mondo del lavoro e dalle sue tensioni, dalla città inquinata, dal degrado sociale, dall’alienazione personale. Entrava in uno spazio sereno la cui integrità materiale ed emotiva era compito specifico della moglie. La casa suburbana diventava così il palcoscenico su cui si rappresentava la realtà della divisione sessuale del lavoro: merce per eccellenza, pungolo per il lavoro maschile stipendiato e contenitore di lavoro femminile non pagato. Faceva sì che il genere diventasse molto più importante delle classi in quanto autodefinizione, che il consumo diventasse più coinvolgente della produzione. In una brillante trattazione del tema «il patriarca schiavo del salario» Stuart Ewen ci dimostra quanto capitalismo e antifemminismo si sovrappongano nella politica della casa in proprietà e dei consumi di massa: il patriarca, con la sua casa che è il suo «castello», è obbligato a lavorare anno dopo anno per guadagnare a sufficienza da sostenere il proprio ambiente privato.

All’inizio si tratta di una strategia di alcune grandi imprese, particolarmente interessate a una forza lavoro molto docile, ma poi si allarga a tutte quelle che intendono spostarsi dalle produzioni belliche della prima guerra mondiale a quelle del tempo di pace, per le apparecchiature domestiche di milioni di famiglie. Lo sviluppo del settore pubblicitario, ben documentato da Ewen, è a sostegno dell’ideale dei consumi di massa e promuove il modello dell’abitare suburbano, che usa al massimo queste varie apparecchiature. Chi abita una casa isolata avverte il bisogno un po’ di tutto. Compra prima l’abitazione stessa, ma poi anche l’auto, la cucina, il frigorifero, l’aspirapolvere, la lavatrice, la moquette. Christine Frederick, nel suo Selling Mrs. Consumer del 1929, sostiene la proprietà della casa, un credito al consumo, e dà consigli agli operatori del mercato su come condizionare le donne americane.

Nel 1931 la presidenza Hoover con la sua Commission on Home Ownership and Home Building fissa l’obiettivo nazionale della casa unifamiliare in proprietà, che però verrà rinviato a causa della depressione e della guerra per oltre un decennio. In un concorso sponsorizzato dalla General Motors nel 1935, gli architetti progettano la «Casa per la famiglia Bliss», e i vincitori la riempiono di elettrodomestici senza pensare affatto alle bollette elettriche. Verso la fine degli anni ’40 la casa unifamiliare è sostenuta dall’Agenzia Federale per l’Abitazione e dalle agevolazioni per i finanziamenti, e si diffonde in massa la realizzazione di alloggi singoli, molto privati, ad elevati consumi energetici. Un successone del periodo immediatamente post bellico si intitola non a caso «Mi Comprerò quel Sogno».

La Signora Consumatrice, come la chiamava Christine Frederick, è la forza che spinge tutta l’economia in avanti negli anni ’50. Le donne di casa sperimentano ciò che Betty Friedan ha chiamato la «mistica del femminile», poi ribattezzata da Peter Filene «mistica del domestico». La famiglia occupa il proprio spazio fisico, ma il suo spazio psicologico viene invece occupato assai efficacemente e come mai prima d’ora, dai mezzi di comunicazione di massa e dagli esperti di discipline sociali. Cresce la privacy ma diventano enormi le pressioni perché i consumi diventino molto conformisti, e consumare costa. Diventano sempre di più le donne che entrano nel mercato del lavoro a guadagnare, dato che la donna di casa oltre che frenetica consumatrice è anche obbligata a contribuire a tutte quelle spese.Nello stesso modo in cui la massa dei lavoratori maschi bianchi è arrivata al possesso della «casa dei sogni» nel suburbio, dove realizzare le proprie fantasie di autorità patriarcale e di consumi, anche le loro mogli entrano nel mercato del lavoro stipendiato. Nel 1975, la famiglia con due componenti che lavorano pesa per il 39% del totale. Un altro 13% si compone di genitori single, in genere donne. Sette su dieci lavorano per motivi economici, e oltre il 50% dei ragazzi e bambini da zero a diciassette anni ha una mamma lavoratrice.

Come funziona una casa media per la donna che lavora e la sua famiglia? Funziona male. Sia che si tratti della casetta suburbana o esurbana, o del quartiere popolare centrale, che stia su due livelli, o che si tratti di un capolavoro di architettura moderna in vetrocemento, o di un vecchio palazzone in mattoni ad appartamenti d’affitto, la casa o alloggio invariabilmente si organizza attorno al medesimo gruppo di spazi: cucina, sala da pranzo, soggiorno, camere, garage o zona a parcheggio. Spazi che richiedono qualcuno dedito a cucinare, pulire, badare ai figli, e in genere trasporti privati per la normale esistenza di adulti e bambini. L’organizzazione urbanistica delle aree residenziali fa sì che la casa in genere stia lontana da qualunque ambito collettivo o condiviso – per esempio non esistono servizi comuni o lavanderie annessi all’alloggio. Addirittura in molti casi strutture del genere sono classificate illegali, se qualcuno volesse dotarsene, e addirittura può essere contro le norme anche condividere spazi privati con qualcun altro (parenti o conoscenti).

Dentro l’alloggio la cultura materiale opera contro le esigenze della donna che lavora, esattamente come fuori da esso agiva l’urbanistica: la casa è un contenitore da riempire di merci. Elettrodomestici che servono ad una sola funzione per volta, e anche piuttosto inefficienti, macchine avide di energia, sparse ovunque per lavorare isolate dal resto della famiglia. Tappeti e moquette che devono essere ripassai con l’aspirapolvere, tendaggi da lavare, oggetti svariati che hanno bisogno di cure e riempiono ogni angolo, ostentando stili dal Coloniale, al Mediterraneo, all Provincia Francese e infiniti eclettismi, cose comprate in offerta speciale ai grandi magazzini per ravvivare un po’ quella scatola spoglia che è una casa isolata. Ci si aspetta che la donna che lavora trascorra più tempo nella cura della casa e dei figli di quanto non faccia l’uomo, lavoratore, e le cose in genere vanno proprio così; più tempo occupato negli spostamenti pendolari degli uomini, dato che prendono più frequentemente il mezzo pubblico. Una ricerca ha rilevato che il 70% degli adulti privi di automobile sono donne. E il tipo di quartiere non aiuta certamente. Quella che si chiama una «buona zona» lo è in genere per la comodità di far shopping, a volte anche per il trasporti pubblici, le scuole, ma non per i servizi sociali di sostegno alla donna che lavora, come asili, nidi, ambulatori con orari estesi.

Se la fattiva collaborazione tra marito e moglie entrambi lavoratori riesce a superare alcuni dei problemi di questo modello abitativo, nel caso di crisi familiari come quelle da maltrattamenti emerge la grande vulnerabilità e inadeguatezza. Secondo Colleen McGrath, una donna viene maltrattata in casa ogni trenta secondi negli Stati Uniti. Avviene soprattutto nelle cucine e camere da letto. La correlazione tra percosse e case isolate, o fra casalinghe non lavoratrici e maltrattamenti, si può solo immaginare, ma non c’è alcun dubbio che case e famiglie siano letteralmente scosse, da questa violenza domestica. Per non parlare dei milioni di donne frustrate e alterate a cui vengono somministrati dei tranquillanti dal mercato privato attraverso i medici di famiglia, con lo slogan: «Non si può certo curare l’ambiente, ma cambiare il suo umore».

E la donna che se ne va dalla casa unifamiliare isolata o dall’appartamento, non trova troppe alternative disponibili. La divorziata o maltrattata media oggi cerca contemporaneamente casa, lavoro, servizi per la cura dei figli. E scopre che mettere insieme in qualche modo tutte le sue complicate esigenze familiari, con l’offerta disponibile quanto a lavoro, case, servizi sociali, risulta impossibile. Un solo contesto che unisse alloggio, servizi, lavoro, potrebbe risolvere parecchie difficoltà, ma l’attuale organizzazione pubblica, pensata sulle esigenze di famiglie e quartieri considerati decorosi, parte dal presupposto della famiglia tradizionale: il marito che lavora e la moglie casalinga sono il modello. Anche a fronte dell’enorme mutamento demografico, programmi come quelli delle case popolari, i sostegni ai soggetti deboli, quelli per l’alimentazione, continuano ad essere modellati sull’ideale della famiglia che abita in una casetta o in appartamento, con qualcuno addetto a preparare i pasti e badare ai bambini per parecchie ore al giorno.

Riconoscendo la necessità di un contesto generale diverso di vita, si potrebbe gestire molto più efficientemente le risorse a disposizione per i nuclei familiari. Anche le donne senza alcun problema finanziario hanno un evidente bisogno di case e servizi diversi. Oggi i problemi di queste lavoratrici vengono considerati tutti problemi «personali», dall’assenza di asili a quella di tempo. Tutti gli interventi in questo senso, dalla cura dei bambini ai mezzi di trasporto all’alimentazione sono risposte private e commerciali: cameriere e baby sitter, asili privati o tanto tempo davanti al televisore; pasti fast food; prestiti agevolati per comprarsi un’auto, la lavatrice, il forno a microonde. Soluzioni commerciali che nascondono il sostanziale fallimento delle politiche per la casa, ma che soprattutto peggiorano la situazione di altre lavoratrici. Perché l’assistenza commerciale produce posti di lavoro non inquadrati e mal pagati, senza contributi. Da questo punto di vista la situazione assomiglia molto alla servitù domestica nelle case borghesi, dove non ci si chiedeva mai come la cameriera addetta o istitutrice trattasse i propri figli. Pensiamo agli insidiosi effetti dell’usare la televisione come strumento per «badare» ai bambini in un momento chiave del loro sviluppo: insomma i problemi logistici di tutte le donne che lavorano non sono certo problemi di tipo personale, e non si possono affidare a certe soluzioni di mercato.

La questione è paradossale. Le donne non possono migliorare la propria situazione domestica finché non cambia quella della posizione economica nella società; le donne non possono migliorare la propria condizione nel mercato del lavoro finché non cambia la loro responsabilità nelle funzioni domestiche. Dunque qualsiasi programma orientato a una giustizia economica e di contesto per le donne, deve per forza superare la divisione economica tradizionale tra casa e lavoro, tra ambiente domestico e luogo di lavoro. Occorre in qualche modo cambiare la condizione della casalinga che ha svolto un lavoro qualificato non retribuito, ma che è una necessità economica per la società; ma cambiare anche la situazione domestica della donna che ha una occupazione pagata. E se architetti e urbanisti considerassero come propria committenza le donne che lavorano e le loro famiglie per un nuovo approccio professionale, respingendo quell’idea tradizionale della casa come «poso della donna»? Se pensassimo a quartieri non sessisti, a una città non sessista, che forma potrebbe assumere?

In alcuni paesi si è cominciato a sviluppare concetti diversi che lavora. Il Codice della Famiglia adottato a Cuba a partire dal 1974, richiede espressamente che lavoro domestico e cura dei figli vengano condivisi. Non sappiamo poi come funzionino le cose nella realtà, ma in termini di principio si stabilisce che l’uomo partecipi a quanto veniva prima considerato «lavoro da donne», ponendo le basi essenziali per una parità. Ma questo Codice della Famiglia non abolisce certo il lavoro domestico, e si basa su accordi privati tra marito e moglie per la messa in pratica quotidiana. Gli uomini si dichiarano spesso non capaci, specie per quanto riguarda la cucina, usando quelle tattiche ben note ai lettori dello studio di Patricia Mainardi, The Politics of Housework, e neppure lo stereotipo sessuale dei lavori professionali femminili al di fuori della casa, nei vari luoghi di cura e assistenza per esempio, è mai stato davvero messo in discussione.

Un altro esperimento riguarda strutture abitative particolari per le donne che lavorano e le loro famiglie. Il costruttore Otto Fick ne realizzò una per primo a Copenhagen nel 1903. In anni successivi furono promosse in Svezia da Alva Myrdal e dagli architetti Sven Ivar Lind e Sven Markelius, chiamate «case di servizio» oppure «case collettive». Progetti che comprendono insieme all’alloggio sia la cura dei bambini che la preparazione del cibo. Come altri analoghi nell’Unione Sovietica degli anni ’20, si offrono servizi, vuoi di tipo commerciale vuoi a gestione completamente pubblica, che sostituiscano il «lavoro da donna» che si fa in casa. La soluzione scandinava non discute davvero l’esclusione del maschio dalle faccende domestiche, né affronta le mutabili esigenze familiari nel tempo, ma riconosce comunque l’importanza del progetto anche fisico per cambiare le cose.

Altri progetti europei allargano il campo rispetto a questa prima Casa di Servizio, con attrezzature aperte al quartiere e alla società. Steilshoop, a Amburgo in Germania dei primi anni ’70, è un complesso di case pubbliche pensato da un gruppo di genitori e singoli completo di altri servizi. Si comprendono anche come abitanti degli ex degenti di strutture psichiatriche, e relative strutture di sostegno, insieme al resto rivolto agli inquilini che partecipano alla gestione. Il che ci fa capire sino a che punto sia possibile ridiscutere certi stereotipi americani attuali, integrando anche anziani, malati, non sposati in nuovi tipi di nuclei familiari e complessi residenziali, invece di segregarli dentro spazi specializzati.

Un altro è il progetto Nina We Homes a Londra, di un gruppo formato nel 1972, a cui si devono sessantatré alloggi distribuiti in sei diversi luoghi e dedicati a genitori single. Le zone di gioco dei bambini e degli asili vengono integrate agli alloggi; nel complesso Fiona House gli alloggi sono pensati in modo da promuovere una cura anche condivisa dei piccoli, e l’asilo si rivolge anche al quartiere con un accesso a pagamento. Così i genitori single possono anche trovare un lavoro pagato di cura dei bambini e aiutare le madri lavoratrici della zona. La cosa davvero interessante qui è l’unificazione tra la casa e il lavoro in una unica entità, almeno per alcuni, e per tutti unificazione tra casa e servizi. Anche negli Stati Uniti esiste una lunga storia di dibattito per una casa più adeguata alle necessità delle donne. Tra la fine del XIX secolo e il primo ‘900 esistono decine di progetti domestici di orientamento femminista, o di architetti che provano a sviluppare servizi comuni annessi agli alloggi privati. Alcuni progetti durano sino a fine anni ’20. In genere però le femministe di quel periodo non colgono la questione dello sfruttamento di altre donne lavoratrici che provvedono al servizio di chi può pagarselo, né considerano l’uomo come corresponsabile, padre e lavoratore, nella «socializzazione» del lavoro domestico femminile. Ma esprimono comunque una forte consapevolezza sulle potenzialità della cooperazione tra le famiglie del quartiere, e dell’importanza economica del «lavoro da donne».

Esiste anche, negli Stati Uniti, il filone delle comunità utopiche socialiste e delle città ideali, oltre che comuni e collettivi degli anni ’60 e ’70, che provano ad allargare l’idea di casa e famiglia. Se certo alcuni gruppi, in particolare quelli di ispirazione religiosa, accettavano e imponevano una tradizionale divisione sessuale del lavoro, altri hanno cercato di rendere le attività di cura una responsabilità sia delle donne che degli uomini. Ed è importante attingere dagli esempio delle vicende migliori di ogni tipo, alla ricerca di modelli per lo spazio non sessista. Certo la maggior parte delle donne lavoratrici non ha alcun interesse ad andare ad abitare in una comunità o comune, così come non propende per una vita familiare burocraticamente governata dallo stato. Quello che si vuole è soprattutto non tanto rinunciare alla vita privata, ma avere a disposizione servizi comuni a sostegno, di questa esistenza privata. Per non parlare di tutto ciò che contribuisce all’indipendenza economica e accresce le possibilità di scelta nelle relazioni sociali e la cura dei figli.

Che forma dovrebbe assumere un programma di questo tipo per gli Stati Uniti? L’obiettivo di riorganizzare sia la casa che il lavoro è perseguibile solo attraverso chi definisce il modello abitativo-lavorativo, donne e uomini impegnati al cambiamento nella vita privata così come nelle responsabilità civili. Si deve trattare di organizzazioni non grandi, partecipate, i cui appartenenti possono cooperare efficacemente. Se dovessi proporre un nome, avrebbe l’acronimo HOMES, per Homemakers Organization for a More Egalitarian Society. I gruppi femministi esistenti, specie quelli che lavorano con le donne maltrattate e i bambini, potrebbero formare nuclei HOMES per rilevare complessi residenziali esistenti in cui sviluppare servizi per gli abitanti, allargando il campo di ciò che già si offre oggi con le consulenti nelle proprie sedi. Le organizzazioni per la proprietà di casa condivisa, vedrebbero in un nucleo HOMES la possibilità di caratterizzare in senso femminista i propri progetti. Un programma di ampiezza sufficiente a trasformare lavoro domestico, casa, quartiere, dovrebbe: (1) coinvolgere sia uomini che donne nelle attività di casa e cura dei figli su basi egualitarie; (2) coinvolgere entrambi su basi egualitarie anche nel mondo del lavoro; (3) eliminare la segregazione residenziale per classi, razze, fasce di età; (4) abolire ogni tipo di programma federale, statale, locale che in qualche modo promuova implicitamente il ruolo della casalinga; (5) cercare di ridurre al minimo il lavoro domestico e lo spreco inutile di energie; (6) accrescere le possibilità di scelta dei nuclei familiari per quanto riguarda le relazioni sociali e il tempo libero. Sono molte le riforme puntuali per puntare a qualcuno di questi obiettivi, ma una strategia per parti potrebbe risultare inefficace. Credo invece che sia necessario per cambiare le cose a questo livello, realizzare un complesso residenziale sperimentale, con caratteri architettonici ed economici che trascendono i concetti correnti di casa, quartiere, città, luogo di lavoro. Nuclei che si potrebbero sia ricavare da quartieri già esistenti, sia costruire nuovi.

Immaginiamoci quaranta nuclei familiari in un’area metropolitana che formano un gruppo HOMES, e che nella propria articolazione siano rappresentativi della struttura sociale del paese nel suo insieme. Suddivisi in: sette genitori single con quattordici figli (15%); sedici famiglie con due genitori che lavorano, e ventiquattro figli (40%); tredici coppie con un solo componente che lavora, e ventisei figli (35%); quattro individui single, con qualche particolare problema (10%). Abbiamo sessantanove adulti e sessantaquattro minori, da organizzare su quaranta alloggi privati, di dimensioni dal monolocale alle tre camere da letto, tutti con un proprio spazio esterno definito. Oltre agli alloggi si mettono a disposizione anche spazi collettivi e attività: (1) un asilo-doposcuola dotato di spazio esterno a verde, di servizio a quaranta bambini e attività extrascolastiche per sessantaquattro minori; (2) lavanderia per servizio bucato; (3) una cucina che prepara i pasti per il centro bambini, le cene per tutti, e pasti a domicilio per gli anziani del quartiere; (4) uno spaccio alimentare collegato a una cooperativa locale (5) un garage con due furgoni per le consegne di pasti a domicilio su richiesta; (6) un orto-giardino dove coltivare almeno una parte delle cose che si mangiano; (7) un servizio di assistenza domestica rivolto ad anziani, malati, genitori lavoratori momentaneamente indisposti. Servizi collettivi a utenza volontaria, incorporati nella struttura insieme agli alloggi e al verde.

A erogare quei servizi sono necessarie trentasette persone: venti per asilo doposcuola e analoghi; tre per preparazione e distribuzione di cibo; una per la distribuzione di prodotti alimentari; cinque per i lavori domestici; due autisti per i veicoli; due per la lavanderia; una per la manutenzione; una addetta al verde; due all’amministrazione. In alcuni casi si può anche trattare di impiego a tempo parziale. Cura, alimentazione, servizi agli anziani, si possono organizzare come una cooperativa, mentre gli altri posti sarebbero alle dipendenze della cooperativa degli abitanti.

HOMES non è concepito come complesso isolato, ma come esperimento di risposta alle esigenze delle donne in un’area urbana, i cui servizi devono essere disponibili al quartiere in cui l’esperimento si svolge. Che farà aumentare la domanda, di servizi, facendo sì che i posti di lavoro siano reali. Inoltre, anche se la priorità per coprire questi posti va a chi abita HOMES, in molti potrebbero scegliere un lavoro esterno, altri di lavorare all’interno. Creazione e copertura di quei posti di lavoro devono assolutamente evitare di riprodurre gli stereotipi sessuali, come affidare solo a uomini il lavoro di autista, o solo alle donne quelli legati alla cucina. In generale si eviterà quella suddivisione in categorie maschili e femminili, e anche si assumeranno maschi che accettano di condividere su base equa il lavoro domestico in casa: dal punto di vista organizzativo la base sarebbe una sorta di versione del Codice di Famiglia cubano. In un esperimento HOMES non si deve creare artificialmente una società di due classi, dove chi abita e lavora al di fuori del complesso guadagna più di chi ci svolge lavori di servizio interni. I posti di lavoro HOMES sono compensati secondo criteri egualitari, non secondo stereotipi sessuali e pregiudizi. Devono essere classificati come prestazioni qualificate, anziché come avviene ora come mansioni di basso profilo, garantire copertura sanitaria e previdenziale, congedo di maternità, indipendentemente dal tempo parziale o meno del contratto.

Esistono molti programmi del Ministero Federale per la Casa a sostegno della realizzazione di alloggi economici e comunque a basso costo, e inoltre agevolazioni sui mutui per la conversione di edilizia già esistente, oltre i cinque alloggi, in complessi cooperativi. Nei programmi del Ministero del Welfare esistono fondi per strutture come i servizi di asilo e doposcuola, o i pasti a domicilio per anziani. Inoltre sia il ministero per la Casa che quello per il Welfare sostengono progetti dimostrativi che affrontano i temi sociali in prospettive nuove. Ci sono molte organizzazioni sindacali, chiese, cooperative edilizie già attive nella costruzione di alloggi senza scopo di lucro. Il criterio della cooperativa a proprietà indivisa offre le migliori garanzie di organizzazione economica e controllo sul progetto edilizio e gli obiettivi sociali degli abitanti.

Ci sono molte entità senza scopo di lucro in grado e disponibili ad aiutare gruppi desiderosi di intraprendere un progetto del genere, e architetti con esperienza specifica in cooperative edilizie. Quello che invece non ha precedenti è l’integrazione, dentro a queste strutture cooperative, di lavoro e servizi collettivi, su dimensioni sufficienti a costituire davvero una differenza per le donne lavoratrici. Le femministe impegnate nel sindacato, là dove la maggioranza delle iscritte sono donne, potrebbero essere molto interessate alla realizzazione di case di questo tipo per i propri membri, ma anche altri sindacati, o cooperative di abitazione esistenti, per introdurre questi servizi e organizzazione. Le femministe al di fuori del movimento cooperativo troveranno la specifica forma della cooperazione comunque ricca di possibilità, sia per la casa che per i servizi alle donne. La Consumer Cooperative Bank di recente istituzione a livello nazionale, ha finanziamenti a sostegno di progetti di ogni tipo, anche per edilizia cooperativa.

In tanti casi è molto più conveniente riorganizzare complessi già esistenti rispetto a nuove costruzioni. Esiste tutta la dotazione di case suburbane con cui misurarsi efficacemente. Ci sono caratteri architettonici degni di essere mantenuti, ma anche esteticamente si può migliorare segnando il diverso accresciuto ruolo sociale. A sostituzione del prato vuoto sul fronte senza marciapiedi, si possono convertire gruppi unifamiliari in strutture multiple, unificare in spazi comuni i parcheggi e il verde collocandolo al centro dell’isolato, introdurre percorsi pedonali di collegamento e marciapiedi che colleghino ogni spazio con il principale centrale; anche una parte dei portici privati, dei garage, dei casotti per gli attrezzi, delle stanze comuni familiari, si possono convertire in altro: da aree per il gioco dei bambini, a luoghi per veicoli a richiesta, o lavanderie.

Una delle immagini mostra un caratteristico anonimo isolato suburbano composto di tredici abitazioni, realizzate speculativamente da diversi operatori, dove ci sono ventisei auto, dieci falciatrici per il prato, tredici spazi esterni per pranzare, doppioni vari di spazio verde, e nessun interfaccia dalla strada. L’epoca di costruzione e il tipo di spazio sono caratteristici: anni ’50, l’epoca di massimo splendore della «mistica del femminile».

Per convertire l’intero isolato e le case che contiene a funzioni più sociali, va innanzitutto definita una zona di attività comuni al suo cuore, destinando sino a 8.000 metri quadrati per funzioni collettive. Sostanzialmente, stiamo rivoltando quell’isolato. Il progetto per Radburn, sviluppato a fine anni ’20 da Henry Wright e Clarence Stein, delinea chiaramente questo principio come uso più adeguato dello spazio nella «epoca dei motori», escludendo le auto dal verde residenziale e specialmente da quello destinato ai più piccoli. A Radburn, New Jersey, e poi a Baldwin Hills, Los Angeles, California, Wright e Stein riescono a ottenere straordinari risultati (con una densità di 18 edifici per ettaro), dato che i complessi multi-alloggio si collocano dentro a spazi verdi liberati dalle auto. Il progetto Baldwin Hills è particolarmente riuscito, ma qualcosa di molto simile è comunque possibile ottenere riorganizzando isolati suburbani esistenti per parti di circa mille metri quadrati. I vantaggi sociali si sommano a quelli estetici, dato che il parco centrale è pensato per accogliere l’asilo-doposcuola, l’orto, tavoli da picnic, campo giochi con altalene e scivoli, deposito alimentari legato alla cooperativa, garage per veicoli a richiesta.

È possibile trasformare abbastanza facilmente le grandi case unifamiliari frazionandole in ambienti diversi, nonostante le «piante libere» degli anni ’50 e ’60 usate da tantissimi costruttori. Le immagini mostrano questo tipo di trasformazione dell’alloggio dentro il contesto generale descritto in tre unità alloggio, ovvero n due camere (connesso al garage comune), a una sola camera, e un alloggio speciale (per single o persona anziana). Tutte e tre dotate di spazio verde privato, ma che condividono un portico sul fronte e l’ingresso. Resta ancora spazio a sufficienza da mettere a disposizione della collettività, due quinti del totale originale. Colpisce il modo in cui certi ambienti si prestino ad essere convertiti a uso sociale o servizi comuni. Tre garage privati su tredici si possono dare a uso collettivo, per un ufficio centrale dell’intero isolato, il deposito alimentari, e il veicolo a richiesta. È praticabile avere solo venti auto (in dieci garage) e due furgoni, per ventisei alloggi nell’isolato così convertito? Calcolando che almeno alcuni degli abitanti sceglieranno di non lavorare più all’esterno, ma farlo dentro il complesso, e che per tutti gli spostamenti per gli acquisti e i servizi verranno quantomeno ridotti della metà grazie alle disponibilità varie in loco, dalla lavanderia alle cucine, al personale, e alla disponibilità di forme di trasporto collettive, la cosa pare realistica.

E chi nel vicinato non ha interesse per questo tipo di riorganizzazione? A seconda del contesto e del progetto, è anche possibile partire da sole tre o quattro case. A Berkeley, California, dove un gruppo di abitanti di Derby Street ha messo in comune i cortili sul retro per formare un servizio di cura cooperativo, c’era un proprietario non residente che non ha aderito, ma ci si è limitati a «schivare» il lotto recintato senza particolari difficoltà. Ma è evidente che vanno modificate le norme urbanistiche di zona, o richieste varianti di piano, per convertire abitazioni unifamiliari a forme condominiali e plurifunzionali, introducendo commercio e servizi oltre la residenza. Ma stiamo parlando di gruppi organizzati in grado di acquisire perlomeno cinque unità alloggio da gestire cooperativamente, interlocutori di una struttura ministeriale in quanto associazione senza scopo di lucro, e di gestire servizi pur a livello locale. Con un piano che comprenda l’intero isolato, è certamente più semplice ottenere varianti che non con singoli progetti parziali. Possiamo anche immaginarci programmi come case dedicate a ex pazienti psichiatrici, minori fuggiti dalle famiglie, donne maltrattate, in cui si integra la residenza con altre attività sulla dimensione di un intero isolato. Perché spesso progetti del genere incontrano difficoltà a integrarsi nei quartieri: operare a quella scala aiuterebbe.

Credo che mettere in discussione la tradizionale separazione tra spazio pubblico e privato, negli anni ’80 possa diventare un obiettivo prioritario del movimento femminista e di quello socialista. Le donne possono cambiare la divisione sessuale del lavoro domestico, le sue basi economiche privatistiche, la separazione spaziale di residenza e lavoro nella città, affermando il diritto all’eguaglianza nella società. Gli esperimenti che ho proposto, cercano di unire il meglio di quanto già sperimentato in passato, e possibilità attuali, integrando alcuni servizi sociali disponibili oggi negli Stati Uniti. Vorrei vedere attivarsi progetti dimostrativi sul modello HOMES, sia per nuove costruzioni secondo il programma che ho delineato, sia con la trasformazione di spazi di isolati suburbani. Se i primi tentativi riescono, si potrebbe creare in tutto il paese una domanda di abitazioni, servizi, spazi di convivenza e lavoro di quel tipo. Riconoscere che si tratta di una lotta contro gli stereotipi di genere, e contro la discriminazione salariale, capire quanto sia necessario un cambiamento sociale, economico, ambientale, per superare quelle contraddizioni, significa andare oltre case e città pensate secondo i principi di un’altra epoca, quella in cui si pensava che «Il posto della donna è la casa».

da Signs – Journal of Women in Culture and Society, vol. 5, 1980 – titolo originale: What Would a Non-Sexist City Be Like? Speculations on Housing, Urban Design, and Human Work – Traduzione di Fabrizio Bottini
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