Prospettive pratiche della pianificazione regionale in Italia (1955)

lazioMi sia consentita una breve e rapida premessa sull’evoluzione che l’urbanistica ha compiuto in questi ultimi anni. Da una dottrina e da una legislazione incerte e frammentarie si è passati allo sviluppo di una disciplina unitaria che è venuta man mano abbracciando materie e campi sempre più vasti e che ha condotto l’operare urbanistico a stringere legami sempre più stretti con la economia, la sociologia e – talvolta – anche con la politica. L’entrare in rapporto con queste discipline ha molto giovato all’urbanistica, per il superamento da un lato del formalismo che le attribuivano i tecnici puri e, dall’altro, dell’astrattismo di schemi e di formule che non si addicevano ad una realtà di continuo mutevole, quale è data dall’evoluzione dell’ambiente di una città o di un territorio, spesso soggetti a fenomeni demografici, fisici, naturali di vasta portata.

Ma, occorre dire subito, la tendenza ad integrarsi in quelle scienze affini ha costituito anche un elemento pericoloso, poiché l’urbanistica ha minacciato talvolta di sconfinare in campi che non le sono e non debbono esserle propri. Il giusto equilibrio che la disciplina urbanistica dovrebbe cercare, secondo il concetto più aggiornato che tende ora ad affermarsi, non soltanto in Italia, è dato piuttosto dalla necessità di una reciproca collaborazione, che deve estrinsecarsi sia sul piano concreto di un lavoro di gruppo, sia nell’ambito culturale e professionale, sia nella sfera più vasta della collaborazione di categorie, di interessi, di cittadinanza. L’urbanistica moderna, e la possibilità di una sua azione risolutiva in campo pratico, nascono esclusivamente da siffatte forme di collaborazioni e di convergenze; ed è confortante il fatto che questa coscienza si vada diffondendo sempre maggiormente, talché, oggi, i problemi urbanistici non sono più oggetto di trattazione ristretta ad ambienti tecnici o specializzati, ma traggono la più viva luce proprio dal dibattito aperto a tutti nelle sedi più avvertite e qualificate.

Fatte queste necessarie premesse, credo utile dapprima analizzare storicamente lo sviluppo dei concetti posti a base della pianificazione regionale per passare poi in rassegna, criticamente, i metodi per lo studio e la realizzazione dei singoli piani, e desumere, infine, l’indirizzo per le concrete prospettive della pianificazione regionale in Italia. I piani regionali, è risaputo, si rifanno ad esigenze già avvertite prima della guerra, quando l’espandersi delle grandi città, la istituzione di zone industriali, la valorizzazione del turismo e del paesaggio, l’impianto delle grandi reti per il traffico e le comunicazioni, dei bacini idroelettrici, delle opere di bonifica ecc., imposero alla pianificazione urbanistica un impegno non più limitato ai singoli abitati, ma un richiamo sempre più esteso al territorio ad essi circostante, fino alla valutazione dell’intera regione economica: alla intera regione, cioè, entro cui un abitato, o gruppo di abitati a carattere affine, esercita la propria la propria influenza e risente dell’influenza esterna.

Tali esigenze trovarono un provvido riconoscimento nel «piano territoriale di coordinamento» previsto, con spirito che potremmo definire lungimirante, dalla legge urbanistica emanata nel 1942: legge fondamentale, sia per la organicità e la compiutezza dell’impostazione, sia per la presenza degli istituti che essa prevede e che ne fanno, nonostante alcune mende non difficilmente eliminabili, una legge tuttora valida ed operante. Questa legge infatti prevede, in pochi concisi articoli, vaste possibilità, che hanno consentito l’impianto, non soltanto formale, degli studi nelle singole regioni d’Italia. Tali articoli danno facoltà alla Amministrazione dei lavori Pubblici di formare i piani regionali; ma questo non in forma diretta e paternalistica, ma soltanto in funzione di coordinamento anche in stretto rapporto ai programmi nazionali di opere (reti stradali, acquedotti, ferrovie). La conclusione dello strumento è anche essa un fatto positivo, poiché consente quella aderenza ai problemi ed alle situazioni che può suggerire eventuali opportuni adattamenti, conseguenti alle prime esperienze, pervenendo a manifestare infine indirizzi concreti sull’esatto contenuto dei piani e sulla metodologia per realizzare lo studio.

Del resto la mancanza di una formale norma regolamentare è stata di fatto superata dalla circostanza che il Ministero dei Lavori Pubblici, preoccupandosi di offrire nello spirito della costituzione alle singole regioni la possibilità di predisporre idonei strumenti di pianificazione, sia per far fronte alle necessità del coordinamento degli interventi, sia per suscitare quella coscienza regionale, attraverso la quale ottenere più efficaci prospettive per la soluzione dei problemi locali, prese l’iniziativa di aggiornare il dispositivo della legge del 1942 afferente la pianificazione regionale. Istituì quindi un’apposita commissione interministeriale di studio (in cui erano rappresentate non solo le Amministrazioni dello Stato, ma anche gli enti pubblici e gli Istituti interessati alla pianificazione) che convenne di proporre la costituzione in ogni regione, di appositi organismi, articolati a seconda delle singole situazioni, a cui per unanime designazione, furono preposti i Provveditori Regionali alle OO.PP. Il Ministero dei Lavori Pubblici predispose poi una pubblicazione ufficiale (lavoro «manualistico» realizzato da Giovanni Astengo pubblicato nel 1952 n.d.r.), compilata in perfetto accordo con tutti gli organi e gli istituti di carattere scientifico e culturale interessati alla pianificazione, che dette una larga illustrazione interpretativa agli articoli della legge fondamentale, specialmente per quanto riguarda il contenuto, la metodologia e l’organizzazione degli studi dei piani territoriali, con indicazioni, sia pure sommarie, dei procedimenti di approvazione.

Tali norme generali di metodo predisponevano un omogeneo sviluppo degli studi nelle varie regioni, per far sì che l’indirizzo della pianificazione potesse esprimersi soprattutto da basso, attraverso la collaborazione di tutte le categorie interessate. Farò notare – incidentalmente – che viene così a cadere ogni illazione, se non tendenziosa certamente ingiustificata, circa l’intendimento di affermazioni accentratrici o di dirigismo paternalistico da parte dell’Amministrazione centrale. Il lavoro, impostato in siffatta maniera, si è protratto per alcuni anni ed ha fornito i suoi frutti con l’avviamento agli studi del piano territoriale di coordinamento in tutte le regioni a statuto ordinario, nelle regioni cioè ove il Ministero dei LL.PP. ha competenza, sia pure in forma generale e di inquadramento, in materia urbanistica. In ciascuna di tali regioni sono stati infatti insediati i Comitati direttivi di studio del piano regionale, i quali si avvalgono di speciali Commissioni di consulenza, di organi esecutivi, locali, provinciali e regionali, e di un apposito Ufficio di redazione del piano.

A questi Comitati direttivi spetta ogni iniziativa in materia di studio per la pianificazione della regione di propria competenza: ad essi sono stati forniti, non quale rigido paradigma da applicare meccanicamente, ma piuttosto come possibilità selettiva (col metodo localmente più adatto), dei criteri di indirizzo sui quali modellare la condotta degli studi, che, peraltro, vennero assumendo una mole complessiva ed eccessivamente formalistica, non certo adatti all’indirizzo per la soluzione di problemi contingenti. In massima tale indirizzo discendeva da precedente esperienza di studio in materia di piani regionali e precisamente quella del Piano piemontese, avviato da un gruppo di architetti torinesi, che aveva elaborato una indagine territoriale sul Piemonte, che il Ministero dei LL.PP. ritenne utile riconoscere ufficialmente, quale premessa di avviamento alla compilazione del piano territoriale dell’intera regione piemontese. Il metodo adottato partiva da un’ampia minuziosa indagine di carattere generale, per la quale solo limitatamente potevano utilizzarsi i dati statistici esistenti e questi – a loro volta – dovevano essere integrati da un lavoro di ricerca e di elaborazione.

Questo primo periodo di esperienze fu assai utile per la dimostrazione della pratica possibilità e della convenienza di studiare unitariamente una situazione urbanistica complessa, al fine di ricavarne opportuni suggerimenti sulla direzione, il carattere e la misura dei principali interventi da applicare coordinatamente in un ambito così vasto come quello di una intera regione. In ogni caso il processo di elaborazione del piano regionale attraverso i Comitati anzidetti, rese molto più accessibile il concetto di «pianificazione territoriale». Tanto accessibile – direi quasi comune – che in esso confluiscono ormai gli apporti del «mondo culturale» di quello politico-sociale, nonché il portato pratico di recentissime esperienze. Sotto l’aspetto dell’apporto culturale va ricordato soprattutto l’incontro tra esperti italiani e americani, svoltosi a Ischia nello scorso mese di giugno.

Nelle discussioni del Convegno è venuta ad acquisire particolare importanza l’idea della «pianificazione continua» che conduce alla concezione della regione quale fattore attivo ed autodeterminante della pianificazione: «non regione pianificata, ma regione pianificante»; il che implica un assetto permanente degli organi di pianificazione, per modo che questi non abbiano a limitare la loro opera nella elaborazione di un progetto più o meno dettagliato che non può prescindere da una visione statica, per quanto viva, della realtà; ma debbano invece continuare nel tempo il loro lavoro di studio e di coordinazione, evitando una visuale cristallizzata di programmi e realizzando invece, in forma integrale, quella elasticità ed adattabilità del piano alle situazioni di tempo e di luogo, ch eè la base prima del successo di ogni programmazione concreta. Altro apporto scaturito dall’incontro di Ischia concerne il riconoscimento dell’importanza del lavoro di gruppo, ma del gruppo non formato di elementi di una stessa categoria professionale, bensì di esperti dei vari rami: tra questi esperti dovrebbe primeggiare la figura dell’urbanista, ma nella misura in cui costui sarà capace di agire come elemento equilibratore e coordinatore delle varie discipline, tra le quali, – quindi – nessuna preminenza deve spettare, né all’architetto, né all’agronomo, né al tecnico specializzato. La deficienza di persone che possano assumere tale figura è stata francamente riconosciuta come una delle cause principali dell’attuale disagio.

Ho dianzi indicato come preminenti le esigenze di carattere sociale e politico – conseguenti all’azione di Governo – che hanno fortemente contribuito ad attualizzare l’utilità dei piani regionali e quindi a rivederne la impostazione metodologica originaria. Un concreto avvicinamento alla pianificazione urbanistica fu quello degli organi preposti all’attuazione del piano decennale per lo sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia, o «Piano Vanoni», che riconobbero sia la opportunità di basare gli sviluppi particolari del piano sul graduato e differenziato soddisfacimento delle esigenze regionali, individuabili dai piani territoriali, sia la validità dello strumento urbanistico posto in essere nelle singole regioni, ai fini di un coordinato dosaggio degli interventi. Non è certo ammissibile attendere che le ricerche analitiche sulla situazione delle regioni siano esaurite prima di procedere alla realizzazione di piani di opere così urgenti e di così vasta portata, come quello ora accennato, e come altri ancora che non è possibile certo enumerare in forma completa (Piano Fanfani per le case operaie, Piano Romita per l’eliminazione delel case malsane, Piano Romita per le autostrade, piani di riforme fondiarie e di valorizzazione di ampi territori, piani di sfruttamento dell’energia ecc.) né procrastinare l’entrata in vigore di tutti questi piani nella pur legittima aspettativa che si mettano prima a punto i piani urbanistici di tutte le regioni.

D’altra parte il riconoscimento dell’utilità, anzi dell’indispensabilità dei piani regionali è oramai incontestabile, in quanto solo attraverso piani siffatti si possono contemperare le esigenze con il consenso e con la collaborazione delle popolazioni che, durante la elaborazione, debbono avere facoltà di far sentire la propria voce. Il primo impulso ad una speditezza di procedura fu dato dall’allora Sottosegretario di Stato ai Lavori Pubblici Ecc. Colombo, che propose di esaminare la possibilità di entrare in contatto con le situazioni reali individuando subito i fattori di emergenza. Si svolsero così alcuni esperimenti del massimo interesse, tra i quali scelgo il più significativo per dimostrare come si è giunti, assai recentemente, a indicare una revisione di metodo, di comune accordo con le esigenze della cultura e con le necessità della politica. Intendo richiamarmi in particolare agli studi compiuti in Abruzzo, poiché li ritengo altamente significativi e suscettibili di notevoli ed utili sviluppi anche per le altre regioni d’Italia e preciso punto di partenza per le prospettive pratiche della pianificazione regionale.

L’Abruzzo è una regione costituita da territori di carattere affine per morfologia, carattere della popolazione, condizioni ambientali ecc. suscettibile peraltro di suddivisioni zonali ben individuabili, che si possono considerare a fisionomia autonoma. In uno studio preliminare a titolo puramente ricognitori, si cominciò con il tentativo di circoscrivere questi comprensori che poterono agevolmente determinarsi in certi limiti. Furono così individuati 10 comprensori, per ciascuno dei quali si riconobbe la possibilità e convenienza di studiarne separatamente i caratteri. Alcuni di questi comprensori sono stati più accuratamente studiati in modo da avere in breve volgere di tempo, una indicazione pressoché completa, benché di massima, circa gli interventi da attuare nell’intero territorio regionale. Giova ora anzitutto illustrare il metodo adottato in Abruzzo e le innovazioni introdotte. In sostanza la diversità tra il metodo iniziale (applicato anche in Lombardia) e quello usato nei comprensori abruzzesi, è la seguente: il primo metodo per dare inizio ai ragionamenti del piano, attende che tutto l’immane materiale sia raccolto e classificato; il secondo, sperimentato nella sua prima fase per le indagini sulla valle del Pescara, sulla Piana di Sulmona e sulla Conca del Fucino, inizia la discussione dei dati non appena questi cominciano ad essere raccolti, e questo con due scopi: a) trarre dai dati, via via raccolti, preziose indicazioni per le susseguenti e più sottili fasi della ricerca; b) evitare un volume enorme di indagini superflue mediante il progressivo e ragionato orientamento della ricerca.

Mentre il primitivo metodo voleva iniziare e svolgere contemporaneamente tutto l’intero capitolo delle indagini con lo stesso grado di minuziosità e di precisione fino ad esaurire la ricerca e con la ricerca la pazienza di chi, politico o tecnico-esecutivo, deve aspettare le indicazioni del piano, il secondo metodo, senza peraltro nulla togliere al rigore scientifico della elaborazione, procede invece per successive approssimazioni, adattando ed affinando i diversi strumenti di ricerca, a seconda delle diverse situazioni nelle quali i vari territori affrontati si presentano. Un metodo, questo, quindi più flessibile e più snello del primo; esso ha il pregio di offrire fin dalle prime fasi indicazioni sui problemi concreti del territorio, indicazioni che con il procedere dello studio vanno facendosi sempre più precise ed esaurienti. Volendo prendere a prestito i termini dell’arte militare, si può definire il primo per lo sforzo totale e spesso sproporzionato che richiede, metodo «dell’attacco frontale» ed il secondo, per la sua forza di penetrazione crescente, metodo «dell’attacco a cuneo».

Il metodo indicato agisce su due elementi essenziali: 1) le dimensioni del territorio; 2) le fasi e l’estensione della ricerca. Nell’esperimento in Abruzzo, a scopo organizzativo, il territorio della regione è diviso in zone minori con due criteri diversi a seconda del loro carattere: a) criterio della similitudine formale, esempio nella zona dell’Alto Aventi e Alto Sangro; i Comuni sono omogenei per natura, carattere della popolazione, forma degli abitati, assetto dell’economia; b) criterio della similitudine funzionale (esempio il comprensorio dell’Alto Fucino che include Comuni di carattere diverso tra loro, ma legati da una stessa funzione, che è la bonifica del Fucino). Queste delimitazioni, essendo determinate da ragioni specifiche del carattere dei territori, in genere non corrispondono ai reparti amministrativi. Inoltre il mosaico di tali comprensori, data la diversità dei criteri di delimitazione sopra accennati, può presentare casi di sovrapposizione (Comuni che per similitudine formale appartengano ad un comprensorio e, per similitudine funzionale, ad altro adiacente). Tali sovrapposizioni, assicurando un doppio controllo nello studio di quei territori comunali che osno bivalenti, presenta una conferma della aderenza del metodo alla flessibile realtà dei fatti.

Le fasi della ricerca seguono questo processo: 1) indagine indiretta, ossia raccolta dei dati esistenti, quali i movimenti della popolazione, la situazione dell’edilizia e delle attrezzature, il rapporto popolazione-fonti di reddito; 2) dall’analisi dei dati ricavati nella prima fase si può distinguere, a seconda dei suoi caratteri e dei suoi problemi, il tipo di zona e quindi ricavare una indicazione sugli studi ulteriori. Tali studi, in armonia con le diverse situazioni, saranno condotti mediante rilevamenti diretti, mediante inchieste, mediante indagini campione e mediante gli altri mezzi possibili di ricerca statistica, tecnica ed economica. È chiaro che in questa terza fase si stabilirà il contatto, da un lato con i pianificatori economici e politici, dall’altro con i tecnici specialisti nei vari rami dell’intervento. Per concludere, nelle tre precedenti fasi solo la prima potrà essere comune a tutti i casi di indagine territoriale; le altre, di cui si è cercato di dare una sommaria idea complessiva avranno un diverso sviluppo secondo quanto suggerito via via dallo studio.

È comunque importante notare come, in questo metodo, indagine e piano non siano più due capitoli nettamente distinti, ma due elementi che si formano, si sviluppano, si chiariscono e si precisano parallelamente e a vicenda con lo svolgersi del procedimento di studio. La parola «piano» e con essa le prime indicazioni di massima dell’intervento entrano nel metodo fin dalla fase dell’analisi. Ciò fa di questo metodo un promettente tentativo di diminuire gli attriti e di aumentare il rendimento della complessa macchina della pianificazione. In base al nuovo metodo (o meglio al nuovo indirizzo) il piano si delinea già fin dall’inizio della seconda fase: questo non vuol dire che il piano andrà in atto quando gli studi sono ancora troppo sommari, ma significa però che quanti oggi praticano interventi necessariamente non coordinati, potranno invece tempestivamente attingere sufficienti criteri per non seguire vie errate. E questo mi sembra assai importante! Il piano regionale rimane quindi la prima tappa di orientamento, che varrà ad individuare comprensori sub-regionali od interregionali; nessun limite giurisdizionale potrà opporsi al processo autopianificante né alcun metodo anelastico dovrà intralciarlo.

Le più ardite visioni potrebbero essere giustificate dalla sicurezza di riuscire, finalmente, e perfezionare lo strumento atto ad individuare sia il quadro generale degli interventi necessari che il giusto intervento per ogni contingente. Ma anche senza avventurarsi in quelle che potrebbero apparire illazioni ottimistiche si può forse già contare sulla possibilità di raggiungere in sede esecutiva quella articolazione coordinata degli interventi di portata nazionale che non fu possibile realizzare in sede programmatica, forse proprio per mancanza degli istituti necessari. In conclusione, le prospettive pratiche della pianificazione regionale (definite e perfezionate le norme metodologiche) possono riassumersi nella disponibilità ed agibilità di uno strumento di organizzazione unitaria, per la elevazione del rendimento produttivo, ai fini di una più equa distribuzione delle ricchezze e delle risorse naturali della comunità nazionale, nello spirito della solidarietà umana che ne costituisce il presupposto basilare e motore.

da: Convegno Internazionale sulla Pianificazione Regionale e Provinciale – Passo della Mendola 3-7 settembre 1955 – Economia Trentina n. 1-2, 1956.

Nota: i convegni del Passo della Mendola nel dopoguerra sono considerati «ideologici» della Democrazia Cristiana, anche se si avvalgono di relatori esterni di alto valore scientifico e/o come nel caso di Cesare Valle istituzionale (f.b.)

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