Quattro domande agli urbanisti (1957)

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pagina pubblicitaria da City Planning,1935

Noi siamo uomini d’oggi; né ci sogniamo nostalgie del passato, ansiosi come siamo di dare a quel che facciamo l’impronta d’oggi e non di ieri. Poiché siamo e teniamo ad essere uomini attuali vediamo tutte le immagini che i quotidiani, i rotocalchi, le riviste, i documentari, il cinematografo e la televisione, ci danno in tanta straripante abbondanza. A me personalmente tutto ciò fa molto piacere perché mi ringiovanisce, mi fa tornare bambino, quando ancora non sapevo leggere e andavo matto per guardare le figure. Ma sia o non sia puerile la smania delle immagini, le riflessioni che possiamo fare seguendo un metodo comparativo sono necessariamente adulte come siamo noi.

Ebbene: vedendo passare centinaia, migliaia d’immagini di metropoli, di città, di borgate di tutto Il mondo un’osservazione viene anche troppo spontanea: che tutte si somigliano, per quel che riguarda l’aspetto dell’attualità, come se si trattasse di fotografie di una sola monotona e banale città, che si potrebbe chiamare metropoli delle scimmie perché queste care bestiole tutto posseggono dell’uomo, salvo l’individualità del carattere e dell’intelligenza, giungendo a fare per istinto d’imitazione ciò che altrimenti non saprebbero fare. Da queste elementari considerazioni scaturisce la prima domanda: “Dobbiamo proprio accettare come fatale questa perdita progressiva ed accelerata del carattere delle città di ogni parte del mondo in omaggio ad una moda facilona che si risolve in un tentativo di ridurre il mondo stupidamente monotono e banale?”.

La mia lunghissima dimestichezza con l’architettura, dimestichezza di cui non conto gli anni per non spaventarvi, mi fa veder chiaro nella professione d’architetto un progressivo sostituirsi dell’elemento brutalmente professionale all’elemento fantastico, inventivo, creativo nel vero senso della parola. Ne ho la conferma in qualche facoltà universitaria di architettura nella quale il tema quasi unico d’esercitazione e di laurea dato agli allievi verte ormai sulla cosiddetta unità d’abitazione. Quei poveretti sono sottoposti ogni giorno a considerare aree, volumi, spazio, stanza, struttura unicamente come elementi dominati dal costo bruto e non dall’ingegno, dal nobile ed umano fine della funzione; hanno cioè obbligo di contentare lo sfruttamento integrale. Donde la ingegnosità forzata, il compromesso divenuto regola, il dispotismo dell’industria edilizia nominato dittatore. Che ciò sia amarissimo tormento nella pratica dell’architetto, con perdita effettiva della sua dignità professionale, è cosa purtroppo vera. Ma che si trasportino nelle aule la ressa e la rissa professionali avvelenate dall’ingordigia della speculazione, è cosa che ripugna a chi ha il senso del religioso rispetto dovuto alle coscienze dei giovani, obbligatorio nell’insegnamento universitario.

Oltre a ciò è divenuto un vezzo da superuomini quello di considerare i temi degli edifici pubblici, tempio o teatro, palazzo od aula di comizi, stadio o palestra di giochi, protagonisti dell’architettura e dell’urbanistica, come i temi di poco interesse ed oltrepassati, col disastroso risultato di far perdete il gusto del problema della copertura dei grandi spazi, cardine dell’architettura di ogni tempo; e con l’altro risultato altrettanto grave di vedere a chi vanno le costruzioni di quei pubblici o privati edifici.

Da qui la seconda domanda: “L’architettura deve rinunciare ad essere un’arte e rassegnarsi ad essere solo un ingegnoso metodo di disegno di macchine, tiranneggiato dal brutale tornaconto economico?”

Il non considerare l’architettura come arte, peggio ancora il considerarla dedita a risolvere problemi isolati e contabili, porta diritto al ritenere trascurabile ogni doveroso accordo con l’ambiente, nel senso più largo e più attuale della parola, ossia con l’aspetto tradizionale delle antiche città o – non dimentichiamolo – con l’aspetto necessariamente armonico delle nuove. La soperchieria della speculazione edilizia, l’acquiescenza degli uffici di tutela, l’avidità di guadagno di certi professionisti sono giunte a tal punto che da ogni parte s’invoca una disciplina edilizia capace di evitare affronti e sfregi, licenza ed arrembaggio, anarchia e corruzione. Bisogna dire ben chiaro che i casi di oltraggioso disaccordo fra antico e nuovo possono essere evitati soltanto da una tale severa, auspicata disciplina. Ma non vi sarà legge capace di imporla se non si presuppone che siffatta disciplina già sia risvegliata e sviluppata nell’animo e nella coscienza degli architetti in quanto artisti. Nessun piano regolatore, per eccellente che sia, avrà mai buon esito e gli architetti non intendono il senso dell’armonia che non è privilegio né dell’antico né del moderno, considerati arbitrariamente nemici, ma sensibilità artistica, desiderio musicale d’accordo e di concentrazione. È inutile, anzi dannoso, il costruire una bella casa moderna quando chi va ad abitarvi porti con sé tutto il ciarpame della rigatteria degli arredi e la volgarità del proprio gusto di villano non ancora rifatto.

Donde la terza domanda: “Il rapporto fra antico e nuovo, facilmente identificabile col contrasto fra antico e nuovo, è il risultato d’una coscienza architettonica deformata da motivi che con l’arte non hanno nulla a che fare?”.

Ormai il terreno si fa sempre più spinoso e pieno di ostacoli. È già grave constatare che enti statali o parastatali, provincie o comuni presiedano, proteggano e magari incoraggino la confusione urbanistica felicemente regnante. Più grave ancora è che qualche ente parastatale che ha compiti tutt’altro che speculativi, trovi nei propri profitti le grossissime somme da concedere in mutuo ai comuni che le domandano per eseguire piani sbagliati o costruire opere progettate, come si sa, dai loro uffici tecnici.

Non diciamo con questo che una savia e severa legislazione non possa portarvi un qualche rimedio, ma si è scettici circa la possibilità di ottenere una tale legislazione se il male ha origine dalla impreparazione delle persone e degli organi che si chiamano competenti e se la burocrazia si distingue per la propria indifferenza verso fini che siano anche un poco più alti della ordinaria amministrazione.

La secolare esperienza dimostra che provvide leggi son quelle che promuovono, determinano, provvedono ad un. avvenire migliore, non quelle negative capaci di agire soltanto per mezzo di divieti. Ma ciò non può avvenire senza una critica seria, obiettiva, spregiudicata del momento attuale fatta non dai governanti che non se ne intendono ma da chi, conoscendo bene i mali, è il solo capace di suggerire i rimedi e proporre le leggi.

Da qui l’ultima delle quattro candide, ingenue domande: “Non sarebbe ormai tempo che gli ordini e gli istituti e le associazioni professionali, consci delle loro funzioni e dell’esempio che da loro s’attende, si uniscano per studiare una legislazione capace di ristabilire i veri valori e di agire tanto sugli organi di governo e d’amministrazione quanto sull’esercizio dignitoso e serio della professione?”.

Estratto da:  Atti del congresso internazionale Attualità urbanistica del monumento e dell’ambiente antico, Triennale di Milano, 28-30 settembre 1957, Centro studi Triennale, Görlich editore, Milano 1958

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