Realtà e problemi della periferia (1969) Parte seconda

Una nuova strategia per la periferia urbana

Il discorso che è stato fin qui sviluppato consente di formulare alcune ipotesi di lavoro dalle quali poter far discendere una nuova strategia di sviluppo delle zone periferiche della città. Si è in precedenza affermato che il problema dello sviluppo della città può essere affrontato come un problema di analisi dei processi di relazione sociale spazialmente strutturati. Dalla assunzione di questo concetto dipendono in modo consequenziale alcune considerazioni. In primo luogo, se si considera una relazione umana in termini di rapporti funzionali di natura bilaterale o multilaterale tra due o più persone o tra persone e oggetti fisici si possono in essa riscontrare tre elementi caratterizzanti:

  • la relazione è causata
  • la relazione è motivata (motivazione di natura latente o manifesta)
  • la relazione è diretta verso uno scopo (scopo implicito o esplicito, cosciente e non cosciente)

Se si conviene su ciò, la relazione umana potrebbe essere assunta come «misura» delle esigenze funzionali tese a raggiungere determinati obiettivi di natura sociale, spirituale, culturale, economica. Da ciò discende la considerazione che, avendo la società urbana-moderna aumentato in notevole misura il suo sistema di informazioni e di comunicazioni, ha prodotto e produce un correlativo aumento nelle relazioni umane e, quindi, un analogo aumento nel numero di esigenze funzionali. Per comprendere ciò è sufficiente pensare ai mezzi di comunicazione di massa, e agli effetti che essi producono sul sistema di relazioni e sul sorgere di esigenze funzionali di tipo sociale. È indubbio inoltre che la «mobilità»e la «dinamica» sociali rappresentino incontestabilmente due tratti caratteristici del modo di vita urbano.

Una spiegazione delle ragioni per cui la mobilità verticale (sociale) e orizzontale (territoriale) delle persone – nonché il dinamismo della vita urbana – è aumentato in larga misura, può essere ricondotta al problema delle aumentate esigenze di relazione. Questi due fenomeni sono, infatti, funzione diretta delle esigenze di relazione, le quali, a loro volta, dipendono da un insieme di fattori causanti, di natura sociale, economica, culturale. Si potrebbe, pertanto, affermare che tanto più aumentano i fattori causanti tanto più aumentano le relazioni sociali; queste, a loro volta, producono una «domanda» sempre più elevata di mobilità. La mobilità verticale rappresenta, da questo punto di vista, un elemento fondamentale e una concausa non marginale di crisi dei sistemi sociali rigidi, cioè di sistemi, che per loro natura, non consentono a questa esigenza di mobilità di esprimersi compiutamente.

In modo analogo la mobilità orizzontale rappresenta, dallo stesso punto di vista, un elemento indubbio di disarticolazione di strutture urbane «stazionarie», cioè di strutture che, per loro natura,non consentono all’esigenza umana di una maggiore «accessibilità del territorio» una sua concreta possibilità di esplicazione. In sostanza, si può affermare che il dato più caratteristico della città moderna è proprio questo multiforme, complesso e articolato sistema di relazioni. In secondo luogo, occorre osservare che ogni persona, per effetto di queste esigenze di relazione, partecipa ad un numero assai grande di gruppi. In ciascuno di questi gruppi, tuttavia, non esaurisce tutte le sue disposizioni sociali, ma svolge in ciascuno di essi solo alcune «funzioni» sociali. È qui il connotato distintivo della società urbano-moderna, che la fa essere diversa dalla società stazionaria. Basterebbe, infatti, pensare al ruolo e alla funzione di una comunità essenziale della società, la famiglia, nel sistema urbano e nel sistema stazionario per comprendere le modificazioni che si sono prodotte.

Nella società stazionaria, l’individuo aveva come unico sistema di riferimento la famiglia e in essa svolgeva ed esauriva quasi tutte le sue funzioni sociali. Nella società urbano-moderna, invece, la famiglia nucleare rappresenta ancora un gruppo primario di natura fondamentale, ma non rappresenta certamente più l’unico gruppo in cui si intrattengono delle relazioni sociali. Per il fatto che ad ogni sottosistema di funzioni corrisponde un particolare «raggruppamento» si può ritenere come fatto emergente della società urbano-moderna il sorgere delle «comunità di interesse», cioè di comunità nelle quali si intrattengono relazioni sociali specializzate.

Che ciò sia vero lo si può desumere dalla stessa considerazione della nostra vita quotidiana. In una nostra giornata media quanti sono i gruppi o le comunità di interesse a cui noi partecipiamo? Certamente più di una. Ciò che varia è la qualità e la quantità di queste comunità, ma ciò dipende dai livelli di mobilità personali e dai gradi di cultura, nonché dalle sensibilità e aspirazioni di ciascuno di noi. Da queste considerazioni si ricava la constatazione che le relazioni sociali che implicano relazioni territoriali sono sono condizionate non tanto o soltanto dalla considerazione fisica dello spazio, ma anche e soprattutto dalla considerazione psicologica del medesimo. Con ciò, infatti, si vuole affermare che lo «spazio», proprio per il suo contenuto simbolico e psicologico, rientra come elemento fondamentale nel processo sociale dello sviluppo urbano.

Per comprendere il significato e le conseguenze che una tale concezione dello spazio può produrre mi sia consentito fare un esempio. Si prenda una famiglia che vive in un alloggio di 80mq. Lo spazio fisico dell’alloggio è definito dalla sua superficie, ma la «misura» dello spazio psico-sociologico non implica solamente un rapporto tra le persone che vivono nell’alloggio e la sua superficie. Per ciascuno dei membri della famiglia lo spazio dell’alloggio è «vissuto» in modo diverso, perché diverse sono le sensibilità, le caratteristiche spirituali, le nature psicologiche dei membri della famiglia. Diverse anche le capacità di «acquisire», «dominare» lo spazio. Per un neonato la capacità di vivere e dominare lo spazio è diversa da quella della persona adulta. Inoltre lo spazio assume un valore di significatività diversa a seconda delle persone che lo vivono.

Ciò vale soprattutto per il «quartiere», il quale è vissuto in modo positivo dall’individuo soltanto nella misura in cui esso non sia semplicemente un «luogo», ma uno «spazio di massima significatività». I nostri quartieri periferici rischiano solo di essere dei luoghi indifferenziati, senza capacità di produrre simboli né richiami significativi per l’uomo. Rischiamo, cioè, di «sradicare e alienare» l’uomo urbano. Per questa ragione si ritiene che oltre ad una diversa, più umana, interpretazione del problema della periferia occorre che essa sia partecipata da coloro che ci vivono. Il discorso sulla periferia si congiunge per questa via al discorso sulla partecipazione e sul decentramento democratico di controlli e di funzioni dal centro agli abitanti dei quartieri periferici.

Il problema della partecipazione e del decentramento democratico

Se si considera la realizzazione del decentramento democratico come strumento idoneo a sollecitare la partecipazione sociale e politica dei cittadini e a trasferire ai medesimi alcuni meccanismi di controllo e di partecipazione al processo di decisioni, occorre dire che il decentramento è un processo che si deve realizzare con il concorso di tutti coloro che nel decentramento credono. L’esigenza del decentramento è nata dal fatto che molte volte ci si è limitati a constatare una diffusa indifferenza e assenteismo sociale. Il problema non è quello di limitarsi a questa constatazione, ma è quello di fare uno sforzo per comprendere le motivazioni e i fattori causanti che in modo prevalente condizionano, frenano e limitano la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica.

Secondo alcuni, la mancanza di partecipazione dipenderebbe prevalentemente da ragioni che hanno da essere ricercate nella storia e nella tradizione politica del nostro paese, che, per molto tempo, avrebbe diseducato e disabituato i cittadini all’impegno sociale e politico. Secondo altri, invece, tali ragioni sarebbero da imputarsi all’immaturità culturale dei cittadini che non consentirebbe loro di comprendere il nesso che lega la sfera dei propri interessi privati con la sfera degli interessi pubblici. Secondo altri, ancora, queste ragioni sono da farsi risalire al sistema politico sociale che, in forza della struttura centralizzata delle decisioni, emarginerebbe qualsiasi probabilità di espressione periferica dei cittadini frustrandone l’impulso a partecipare.

Non è questa certamente la sede per affrontare una interpretazione sociologica sulla mancanza di partecipazione. È sufficiente solo affermare che la scarsa partecipazione è direttamente correlata con un diffuso senso di disagio che esiste tra i cittadini: questo stato d’animo non attiene solamente alla esigenza di soddisfare bisogni materiali (per esempio la richiesta di più complete ed adeguate strutture di quartiere) ma anche, e soprattutto, ad esigenze che ritrovano a loro motivazione nelle vocazioni sociali inespresse dei cittadini. Vi è stato che ha scritto che «i nostri sono tempi di indifferenza e di disagio, indifferenza e disagio non ancora definiti in modo tale da consentire alla ragione e alla sensibilità di operare». Invece di difficoltà, precisabili in termini di valori e di minacce, vi è spesso soltanto lo sconforto di un vago disagio. Invece di problemi netti e concreti vi è spesso soltanto la sensazione oscura di qualche cosa che non va. Non si è ancora in grado di fissare né valori minacciati né ciò che li minaccia: in una parola, le cose non sono maturate al punto della decisione.

Per coloro che riconoscono i valori tradizionali di ragione e di libertà, la difficoltà risiede nel disagio stesso ed il problema è rappresentato dalla indifferenza. Proprio in questa condizione di disagio e di indifferenza è il sintomo tipico del nostro tempo. L’indifferenza quando coinvolge tutti i valori diventa «apatia» ed in disagio quando diventa assoluto, produce ansietà e inquietudine. Il problema che si pone, allora, può essere espresso in questi termini: è sufficiente fermarsi alla constatazione dei dati di fatto (indifferenza e disagio) oppure è necessario analizzare il loro prodotto (l’apatia e inquietudine) per risalire quindi alle motivazioni che li producono? Certo si è che di qualsiasi tipo sia la risposta che verrà data, va, comunque, respinta l’interpretazione che si fonda su fattori di natura psicologica, secondo la quale l’inquietudine dell’uomo dipenderebbe dalla sua stessa natura, dalle forze racchiuse in lui.

Dobbiamo invece pensare che il principale nemico dell’uomo vada ricercato nelle forze inquiete e inquietanti della stessa società contemporanea con i suoi metodi di produzione che alienano l’uomo, con le sue raggiranti tecniche di dominio politico, con la sua anarchia internazionale; in una parola, con le dilaganti trasformazioni della natura stessa dell’uomo e degli scopi della sua vita. Se si accetta, anche solo in parte, questa seconda proposta di interpretazione dell’inquietudine e dell’apatia dell’uomo moderno, è, allora, principale compito del «politico» individuare e definire gli elementi che li producono. Questi concetti potrebbero essere espressi con una frase sintetica, e cioè: «noi siamo in un tempo in cui esiste l’alienazione politica». Con il termine «alienazione politica» intendo il fatto che l’uomo non riconosce più sé stesso come portatore della realtà sociale e di valori politici, ma considera la struttura sociale e la sua organizzazione come entità a sé estranea e impersonale: in una parola, non riconosce più il proprio luogo nei processi di decisione politici e sociali, in quanto da quei processi è estraniato.

La partecipazione politica rappresenta, allora, un problema centrale per la vita sistema democratico, per cui occorre dare di essa una definizione chiara ed inequivoca. Il concetto di partecipazione politica è, infatti, un concetto elusivo e fondamentalmente ambiguo. Si danno definizioni di modi di partecipazione qualitativamente diversi fra di loro e con diversi orientamenti, i quali, tuttavia, vengono indicati con lo stesso termine di «partecipazione sociale e politica». Delle due l’una: o la partecipazione sociale, in quanto non ha luogo in astratto ma in rapporto a particolari strutture, gruppi o istituzioni, non si presta ad una sua concettualizzazione, per cui il termine starebbe ad indicare soltanto una generica azione sociale più o meno condivisa; oppure è possibile individuare proprietà strutturali e funzionali specifiche tali da consentire di dare una definizione di questo concetto.

A mio giudizio siamo di fronte due tipi di interpretazione della partecipazione politica: da un lato la partecipazione sociale è intesa come processo mediante il quale si giunge ad una decisione comune; dall’altro lato, la partecipazione politica e sociale è intesa come mezzo di informazione, di cooptazione e di canalizzazione delle esigenze che provengono dal basso. È evidente che questi due modi di intendere la partecipazione non sono tra loro uguali e uguali non sono le implicazioni che ad essi sono connesse. Il quesito che, in buona sostanza, si pone è il seguente: partecipare antefactum o partecipare post factum? Partecipazione finalizzata al consenso sociale o partecipazione finalizzata al cambiamento sociale? In realtà, la partecipazione politica deve essere intesa come uno degli strumenti per superare l’alienazione politica. Per poter raggiungere questo obiettivo occorre che la esperienza di partecipazione abbia i seguenti requisiti, e cioè vi sia:

  1. una esperienza umana diretta e largamente condivisa;
  2. un sistema di obiettivi e di valori da raggiungere;
  3. una possibilità di conoscenza della realtà;
  4. una autonomia nella formulazione dei giudizi di fatto e dei giudizi di valore;
  5. una autentica certezza di concorrere al processo di formulazione delle decisioni;
  6. una struttura continuativa dei rapporti e delle relazioni;
  7. un sistema di comunicazione permanente;
  8. una dotazione di strumenti efficaci.

In definitiva, il problema della partecipazione è strettamente legato al problema dei contenuti da dare al concetto di libertà. Il problema della libertà – come qualcuno ha affermato – è il problema di come e da chi devono essere prese le decisioni circa il futuro degli esseri umani. Sotto il profilo organizzativo, è il problema dell’esatto meccanismo di decisione. Sotto il profilo intellettuale, è il problema di quali siano oggi i possibili futuri degli affari umani. Sotto il profilo morale è il problema della responsabilità politica. La seconda affermazione, in forza della quale si afferma la necessità del decentramento, è rappresentata dal fatto di considerarlo uno strumento utile ad aumentare il grado di efficienza della macchina amministrativa e attraverso il quale rispondere in modo più puntuale ai problemi sociali della comunità residenziale. Per l’amministrazione comunale, infatti ala partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica è intesa sotto un duplice profilo:

  1. in primo luogo, essa viene concepita come una possibilità offerta alla amministrazione pubblica di percepire in modo continuativo la struttura dei bisogni degli amministrati nonché la sua variabilità nel tempo, nella qualità e nella quantità;
  2. in secondo luogo, come canale di comunicazione per far giungere agli amministrati i criteri di scelta e la procedura di azione adottate dalla amministrazione al fine ai aumentarne il consenso alle istituzioni.

In sostanza, il decentramento viene proposto sulla base della constatazione che l’ente locale, assumendosi sempre maggiori e nuovi compiti per rispondere alla dinamica dei bisogni scaturenti dalla comunità, è diventato una realtà assai complessa, per cui sorge l’esigenza di semplificare le modalità mediante le quali si giunge e prendere le decisioni e le conseguenti procedure operative. D’altra parte, proprio per la complessità dei compiti che l’ente locale si è assunto, nasce la correlativa esigenza di inventare nuovi strumenti di comunicazione e di controllo da parte degli amministrati, non ritenendosi sufficiente lo strumento elettorale. Ed ecco allora chiarito il nodo che si deve sciogliere: è possibile conciliare l’esigenza della semplificazione e della efficienza con quella della partecipazione? La realizzazione di un decentramento funzionale e democratico potrebbe conciliare queste due esigenze che, a prima vista, potrebbero sembrare tra loro inconciliabili?

da: Democrazia Cristiana, Comitato Comunale di Milano, Ufficio SPES, Introduzione al Decentramento Amministrativo, Milano 1969 (vedi anche Prima Parte)

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