Riqualificazione, rigenerazione, rivitalizzazione

Foto E.B. Fisher

Quante volte abbiamo usato o ascoltato usare alcuni termini delle trasformazioni urbane in senso improprio o perlomeno ambiguo? Riqualificare quando in realtà si ricostruisce o addirittura si urbanizza ex novo una zona, rigenerare quando in realtà non cambia nulla salvo l’aspetto esteriore edilizio, rivitalizzare senza che si veda alcuna traccia di tutta questa vita, arrivata ripristinata o stimolata che sia. Certo si comprende la voglia della stampa non scientifica o specializzata di usare sempre parole nuove acchiappa attenzione, o semplicemente giocare su quelli che paiono semplici sinonimi, ma certo che alla fine il risultato è di appiattire tutto sull’unico denominatore comune più banale, della trasformazione edilizia. Non è forse un caso se per esempio i «Manuali di Rigenerazione Urbana» pubblicati dalle agenzie governative britanniche all’epoca in cui vennero lanciati i primi programmi, a cavallo tra fine anni ’70 e primi ’80, si soffermavano tanto a lungo sulle varie filiere e interazioni lungo le quali operava e si sviluppava, questa rigenerazione: quella economica, quella sociale, produttiva, di servizi, e naturalmente l’investimento in infrastrutture e trasformazioni edilizie. Il quale, si sottolineava, poteva certamente avere un peso preponderante nell’investimento finanziario, per ovvie ragioni, ma non per questo qualificare di per sé gli obiettivi.

Gli obiettivi della trasformazione

Già: perché si interviene a riqualificare, rigenerare, rivitalizzare? Forse dare nome e cognome precisi a questi orizzonti futuri aiuta a fare chiarezza anche sul ruolo e peso relativo di questo o di quell’altro aspetto strumentale. Esistono innanzitutto obiettivi intermedi (quelli di progetto) e obiettivi programmatici (quelli intrecciati del piano), a loro volta da non confondere e sovrapporre più di tanto. Se si parla di ri-qualcosa significa che lì prima esistevano degli equilibri qualsivoglia che sono venuti meno, vuoi per una crisi interna al microsistema, vuoi per una spinta più importante esterna che lì si limita ad effetti locali particolari, per quanto magari devastanti. Nel caso del rapporto spazio-società-ambiente su cui si costruiscono le forme urbane da ripensare e colmare di contenuti, questo è il primissimo e generale aspetto da chiarire: cosa ha fatto saltare l’equilibrio, quali fattori e soggetti hanno smesso di sostenerlo, quali forze hanno agito e come. Da quella consapevolezza può derivare quantomeno un obiettivo di massima, qualche strumento preliminare di piano. Oggi le aree insediate a bassa densità, per esempio, quelle che chiamiamo suburbio o città diffusa o dispersione, sono spesso oggetto di questi ri-pensamenti riqualificanti, rigeneranti, rivitalizzanti: si usa un metodo adeguato per delineare i possibili nuovi equilibri? Oppure la pura confusione tra mezzi e fini (la trasformazione spaziale senza particolare cura del contenuto socioeconomico-ambientale) rischia di lasciare troppo al caso?

Urbanizzazione vuol dire molte cose

Là dove nella relativa complessità urbana in fondo esiste una sorta di Mano Invisibile casuale a raddrizzare certi squilibri, nella bassa densità suburbana è meglio riflettere, prima di confondere riqualificazione, rigenerazione, rivitalizzazione, con la sola ricostruzione edilizia e variante tecnica urbanistica che introdurrebbe nuove funzioni. Quali sono i fattori esterni della crisi di equilibrio? Più socioeconomici o ambientali? Spesso si ritiene che la famosa «densificazione» da manualetto ingegneristico possa rappresentare il volano, la bacchetta magica risolutiva. Forse per i conti correnti di chi crea quel fittizio valore immobiliare, non certo per la collettività che gli dovrebbe conferire senso. Perché non era la bassa densità in sé e per sé ad essere entrata in crisi, e magari neppure il sistema dei flussi, ma solo alcuni aspetti ben individuabili. Per esempio la segregazione e/o impermeabilità di tessuti, che a sua volta condizionava i modi degli spostamenti, irrigidendoli su un modello poco adeguato ad alcune attività. E a volte questo genere di ragionamento riesce idealmente a spostare l’investimento e l’aspettativa verso aspetti diversi dalla sola nuova edilizia (o costosissime infrastrutture come sono i trasporti pubblici in sede propria), magari mantenendo intatte tantissime potenzialità sociali lasciandole esprimere diversamente, know-how individuali e collettivi che andrebbero tipicamente dispersi nel caso di ricostruzione o radicale refurbishment, come quello di solito ambito dal «libero mercato». Che ha il viziaccio di essere quasi sempre e solo mercato immobiliare.

Riferimenti:
Amanda Abrams, The Suburban Office Park, an Aging Relic, Seeks a Comeback, The New York Times, 19 novembre 2019

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