Sacro GRA: città moderna e psicogeografia da Patrick Abercrombie a Antonello Venditti

Foto F. Bottini

Da un paio di secoli l’umanità intera cerca di misurarsi in tutto o in parte con gli effetti della gigantesca ameba metropolitana scatenata dai successivi cicli di industrializzazione, ci provano urbanisti, sociologi, scrittori, ora un regista. Ma la cultura italiana mica ci arriva: ci arriverà, prima o poi?

Dopo la abbastanza clamorosa assegnazione del Leone d’Oro a un documentario, Sacro GRA, dedicato al grande anello autostradale di Roma, naturalmente i quotidiani traboccavano di considerazioni di critici specializzati e altri commentatori. Considerazioni che si aggiungevano alle positive recensioni comparse nei giorni precedenti, ma tutte indistintamente monche di un aspetto: di documentario si tratta, e quindi buona parte della sceneggiatura ha il legittimo copyright della realtà, mica della fantascienza. Cito la fantascienza per almeno due motivi, ovvero il regista Bernardo Bertolucci e lo scomparso scrittore James Ballard. Bertolucci allora autorevole e osannato presidente della giuria parlava (cito dai giornali) del Grande Raccordo Anulare come di una formazione più o meno immateriale che gli evocava «gli anelli di Saturno». James Ballard invece, che aveva raggiunto in un primo tempo la fama proprio coi suoi racconti di cosiddetta «fantascienza catastrofica (molto prima degli inferni di cristallo tromboni & Co.) nessuno l’ha proprio tirato in ballo. E invece ce n’erano tanti, di motivi per evocare qualche pagina del notissimo scrittore inglese.

Foto F. Bottini

Perché la sceneggiatura di Sacro GRA, consapevolmente o meno, oltre che della realtà ha anche diversi altri copyright, che proprio attraverso la letteratura di Ballard ci collegano a nientepopodimeno che alle traumatiche esperienze della modernità metropolitana, diciamo almeno dall’epoca industriale matura ai giorni nostri. Provo a ripercorrerne a ritroso le tappe, a partire da una cosa molto vicina a noi, un altro percorso del tutto simile attorno all’anello autostradale non di Roma, ma di Milano. Qualche anno fa l’architetto giallista Gianni Biondillo, insieme al critico musicale Michele Monina, ha trascorso alcune giornate estive scarpinando nei territori a ridosso delle Tangenziali (Guanda, 2010) restituendone poi una cronaca ragionata in cui si intrecciano spazio, tempo, società, aspirazioni e vite sospese. Si potrebbe riassumere il tutto con un piccolo cinico slogan, più o meno è la città moderna baby, prendere o lasciare! E invece ovviamente c’è molto di più, perché guardando da una prospettiva non automobilistica o satellitare il modello di espansione, crescita, consumi, saltano fuori storie surreali, appunto vagamente fantascientifiche.

Come chiariscono in apertura gli stessi autori, improvvisati pellegrini del Milanofiori (mi sia consentita la battutaccia, che accosta la famosa nave seicentesca Mayflower al centro direzionale sullo svincolo Tangenziale Ovest / A7), la loro lunga passeggiata fra capannoni villette campi residui e mozziconi di città futura deve quasi tutto a un metodo già sperimentato altrove. Trattasi della cosiddetta psicogeografia usata da Iain Sinclair nella sua analoga Odissea sul London Orbital (ed. it. Il Saggiatore con Dvd), il grande raccordo anulare autostradale che separa la zona metropolitana centrale della capitale britannica dai sobborghi esterni. Quel tracciato corrisponde, a grandi linee, al grande piano di ricostruzione e riorganizzazione del dopoguerra, coordinato da Patrick Abercrombie, e che divideva Londra a cerchi concentrici: il primo propriamente urbano anche se assai articolato e a densità decrescenti, la greenbelt a verde agricolo e grandi parchi, polmone ed eventuale scorta di risorse naturali, infine la cosiddetta Outer London punteggiata dalle Città Nuove, che le politiche laburiste degli anni successivi avrebbero promosso a fama mondiale, dando forma concreta ad alcune utopie del XIX secolo culminate con la garden city di Ebenezer Howard.

Ma come noto tra modellistica e realtà qualcosa non riesce mai a quagliare: negli interstizi si annida la diabolica contraddizione, e Sinclair ne trova la chiave di lettura vincente ribaltando la prospettiva: l’infrastruttura pensata rigorosamente per l’automobile, rigorosamente percorsa e ripensata a piedi, stravolgendone in modo naturale e spontaneo tempi e gerarchie. E facendo emergere l’inatteso, ciò che si credeva scomparso e invece sta lì identico a sempre, ciò che non c’era e adesso c’è, ciò che potrebbe esserci ma a nessuno viene in mente di realizzare per pura divergenza spazio-temporale. Sono queste osservazioni poste l’una dopo l’altra a costruire il rosario della psicogeografia di Sinclair. Che però a sua volta non può non pagare il dovuto tributo al maestro James Ballard, impareggiabile nel proporre universi paralleli della medesima prospettiva di schizofrenia urbana, dalle claustrofobie familiari di High Rise-Il Condominio all’altro altrettanto claustrofobico mondo dei consumi allargati del Regno a venire. L’operazione di Sinclair è sostanzialmente di uscita dalla pur geniale metafora narrativa del maestro, calandola nella cronaca, nella descrizione, nelle soggettive minuzie delle vesciche ai piedi (inevitabili in un viaggio autostradale a piedi, fantascientifiche seduti in auto) o nelle storie parallele ai muri di recinzione di ex ospedali psichiatrici relegati naturalmente nell’Outer London, o nella tenuta di Winston Churchill incistata dentro la medesima corona metropolitana.

Voci che gridano o sussurrano, nello spazio e nel tempo, stridono contro il sordo rombo continuo delle corsie autostradali, a volte visibili altre no, nell’inerpicarsi su un’altura o nella discesa in piccoli avvallamenti sotto i viadotti, o sulle classiche passerelle dove i bambini contano quanti camion rossi transitano in un’ora. Questo il lungo, probabilmente infinito, percorso di adattamento della nostra società alle fratture della modernizzazione del territorio, e anche alle intuizioni dei vari utopisti che nei decenni hanno tentato di indicare strade possibili per adeguarsi, reagire con violenza, costruire muri invalicabili entro cui sviluppare la propria psicogeografia sociale, ma ritrovandosi puntualmente, fuori da quelle mura, ancora immersi nel flusso della modernità. Insomma quello che Ballard, Sinclair, Biondillo-Monina e infine Sacro GRA di Gianfranco Rosi provano a raccontarci, è che fra la modellistica dei piani per addomesticare il Moloch della macchina territoriale tritatutto, e l’adattamento della società e delle generazioni, si creano questi spazi e tempi sospesi, entro i quali possono accadere eventi davvero imprevisti, suggestivi, a mescolare passato presente futuro.

Nessun anello di Saturno: la fantascienza come ci ha tanto ben raccontato Ballard non c’è bisogno di cercarla ambientando un film western fra astronavi e alieni, ma basta guardarsi attorno anche nel giardinetto di casa, dietro le tendine della cucina e la siepe di lauro. Il metodo è abbastanza sperimentato ormai, e forse potrebbe contribuire (lo pensiamo in molti) a perfezionare e sviluppare la medesima modellistica che gli utopisti hanno saputo abbozzare per mettere un freno agli effetti peggiori della modernità, per non farci stritolare dagli ingranaggi che avevamo creato a nostro vantaggio. E fa un pochino di tristezza vedere come i commenti al documentario Sacro GRA, che tanto potrebbe contribuire ad aumentare la consapevolezza diffusa, non abbiano mai colto questa dimensione, limitandosi (a parte le questioni squisitamente cinematografiche) al folklore localista di un Antonello Venditti che canta il Raccordo Anulare, o all’imitazione del comico Corrado Guzzanti, o al massimo ricordando un’antica intuizione di Renato Nicolini. Che magari Ballard e Sinclair li conosceva benissimo, chissà. Proviamo a conoscerli, e sfruttarli meglio per quel tanto che hanno da dirci, anche noi.

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