Smart City allargata all’idea di cittadinanza

Esiste una cosa chiamata digital divide, che a differenza di altre pur altrettanto odiose e intollerabili forme di diseguaglianza (dall’ingiustizia ambientale alle varie discriminazioni e via dicendo) rischia di trasformarsi in una massiccia sorta di gentrification virtuale, ma con effetti assai tangibili sul territorio e la società urbana, per nulla virtuali. Per dirla alla lettera col sindaco di una grande città come Chicago, che ne sa qualcosa di diseguaglianze: «Non si coinvolgono affatto le persone, non si fa certo inclusione sociale, pensando una smart city come puro dispiegamento neutro di tecnologie, quello al massimo è un tema da convegno di settore». Con buona pace, implicitamente, di tutta quella politica che nel mondo pare aver delegato proprio a questo dispiegamento, per giunta piuttosto frammentato, il compito di promuovere progresso urbano. La maggior parte dei nostri amministratori in effetti percepisce davvero quell’indefinita smart city come qualcosa di riferito alla mobilità (parcheggi, veicoli con elementi di automazione, condivisioni, tariffe, orientamento); o la disponibilità dei cosiddetti big data per le analisi e le correzioni in tempo reale delle politiche da parte di enti di ricerca, istituzioni, operatori economici; o gestione dell’edilizia e infrastrutture per esempio sul versante dell’efficienza energetica.

Oltre l’efficienza, non invece

Esiste invece e soprattutto, nel quadro di una logica circolare secondo cui «tutto si tiene», l’aspetto davvero pubblico e collettivo di questo approccio completo e tecnologico, ovvero la sua subordinazione a obiettivi generali di cui anche gli ampi comparti citati si possano considerare strumenti. Che rappresenta un percorso del tutto opposto alla vera e propria «politica di gentrification virtuale» di chi in sostanza lascia dilagare i presupposti di un digital divide sul territorio. Rischio comunque abbastanza colto da quegli amministratori progressisti che provano ad allargare campo e prospettive all’impasto socio-spaziale dentro cui si introduce il fattore tecnologico ad assetto variabile. Per dirla con un altro commentatore addentro al tema, «emerge senza dubbio la necessità di far sì che i vantaggi delle nuove tecnologie vadano ai cittadini che più ne hanno bisogno. E chi non è in grado di gestire da solo a proprio vantaggio la grande quantità di dati e informazioni disponibile, non potrà certo migliorare la propria mobilità, o salute, o accesso ai servizi». Si tratta però di capire con quali strumenti, mettere in campo questo processo di inclusione, che anche pensando in teoria di avere a disposizione tutte le risorse sufficienti (cosa appunto del tutto teorica per una pubblica amministrazione con bilanci risicati), non può certo consistere semplicemente nel «ridistribuire» i vantaggi delle nuove tecnologie alle fasce sociali che oggi ne sono escluse.

Professione cittadino

Ora, proviamo a definire essenzialmente il concetto di smart city: cos’è se non la vecchia idea di interattività e diciamo così «integrazione», pur perseguita attraverso l’innovazione tecnologica e organizzativa? E questa idea ci perde, non ci guadagna, quando il cosiddetto mercato la frammenta in filoni e filoncini di interesse tematico, economico, di fascia sociale o filiera di intervento (basta pensare all’incomunicabilità dei settori municipali che spesso genera doppioni, sovrapposizioni, sinergie negative, per non parlare delle iniziative private che si muovono del tutto autonomamente sperando o dichiarando di credere in una Mano Invisibile). Qui interviene, apparentemente incongruo ma niente affatto, il ruolo di una partecipazione di base particolarissima e pilotata, come quella che individua nelle tradizionali reti ricerca-territorio una chiave per i processi di sviluppo locale. In genere si tratta di relazioni tutte orientate all’efficienza, alla crescita delle imprese, alla creazione di posti di lavoro, alla promozione di spill-over universitarie che si insediano nella città o nell’area metropolitana. Diverso il caso, se si ragiona davvero in termini di «base», ovvero se gli studi di docenti, studenti, dottorandi, vengono sviluppati sistematicamente e da subito nel quadro di una interazione coi cittadini, coinvolgendoli nei processi di innovazione, con progetti pilota in grado di diventare poi amministrazione corrente, in caso di successo. E comunque di redistribuire da subito conoscenza, alfabetizzazione, cultura, senza passare per il filtro dello scambio monetario. Non pare poco, allargare così la smart city al suo campo effettivo, ben oltre il solito sfigatissimo parcheggio libero o rete di ristoranti etnici serviti da pista ciclabile.

Riferimenti:
– Vancouver City Studio 
 –  Alcune delle citazioni testuali riportate nell’articolo sono da Zachary Edelson, Smart Cities Conference Raises Concerns About Those Left Behind by Technology, Metropolis magazine, 16 maggio 2018

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